Atteso con curiosità prima e sommerso dalle critiche dopo, il Carosello Reloaded, partito lo scorso 6 maggio, non ha fatto i conti con la storia, forse perché unicamente attento a fare cassa. La pubblicità in sintonia con la cultura del consumo e del desiderio che la alimenta è ormai altrove e si esprime non solo nella commistione tra i generi, ma anche nell’impiego abile dei vari media e dei valori/messaggi che trasmette. Un’operazione che ha destato anche sconcerto, ma che è un’ingegnosa prova di mockumentary, ovvero di falso documentario, è lo spot prodotto da una famosa azienda di salumi, intitolato Salumi e potere, mandato in onda il 26 febbraio scorso in pieno tempo d’elezioni. Lo spot appare come un servizio che intende ricostruire le fasi salienti di uno scandalo, una tipica vicenda italiana di corruzione con al centro mortadelle, prosciutti e salami a far da merce di scambio per pagare le mazzette. La partenza è secca, la finzione verosimile: “Oggi l’Italia è tra i paesi più corrotti d’Europa”. Tra arresti e manifestazioni di indignados, lo spot è stato seguitissimo dai social network che si sono divisi tra favorevoli e contrari. La logica della comunicazione virale è il fulcro anche di alcuni spot della bevanda analcolica più famosa del mondo. Qui un diciassettenne di Cesena, Federico, si presenta come il nuovo presidente della società che ha una mission precisa: “più felicità per tutti”. A tale fine mira la sua decisione di regalare a tutti 250 ml in più nei formati più diffusi del famoso soft drink. Non è tutto. La divisione italiana della multinazionale lancia una campagna no-logo, da metà maggio fino ad agosto, inserendo su ogni bottiglia non più il proprio, celeberrimo, ma i nomi di battesimo, soprannomi, e modi di dire più diffusi tra i giovani dai 13 ai 19 anni, per un totale di 150 varianti, da “Il tipo” a “Valentina”. Registri vincenti, la denuncia, la valorizzazione della gioventù, la democratizzazione, ai quali andrebbe aggiunto almeno la trasparenza che da un anno a questa parte ci permette di vedere l’interno (il cui architetto ha un debito con Tim Burton) di un famoso mulino immacolato, rimasto per decenni misterioso e di vedere in carne e ossa il suo abitante, il Signor Mugnaio. Tutte campagne che possono dirsi riuscite dal punto di vista della comunicazione aziendale, apparentemente veritiere o al contrario inverosimili (in pubblicità la questione è priva di senso da sempre), coerenti con ciò che le marche in questione intendono comunicare. Tutte tese, in continuità con la tradizione, oppure proprio in rottura con essa, a sintonizzarsi con un pubblico il cui immaginario si dispiega lungo un fronte frammentato, inafferrabile, composito e friabile. Eppure il sogno dell’individuo/consumatore di massa non si è mai spento non solo in politica ma soprattutto nell’universo del consumo. Auspicare il ritorno dell’acquirente indifferenziato, o meglio della riscossa dell’espressione di un orizzonte culturale (la maggioranza silenziosa dei consumatori esiste ancora ed è maggioritaria) è una verità difficile da ammettere, celata dove si può. Viene a galla però in uno spot da poco in onda, che celebra un consistente accordo commerciale tra la pasta italiana per antonomasia e il fast food per eccellenza, che ha inserito nel proprio menu l’insalata di pasta non anonima, quindi, ma di marca.
Ebbene, come spesso accade nelle produzioni di serie B – tanto cinema popolare questo ci ha insegnato negli anni – lo spot, davvero brutto, che ha per protagonista Belen Rodriguez è quasi un’epifania. Nel tentativo di esagerare sfruttando al massimo la popolarità della testimonial, si mette in scena un’inquietante clonazione: non una ma più Belen Rodriguez. Eccola nel ruolo di due amiche, che sono anche consumatrici e che si scambiano consigli (una paleoversione dei social network) e nel ruolo dell’addetta al banco perché tra il mondo del lavoro e quello dei consumi è bene incrementare l’interscambio e tendere al prosumer perfetto. Il mondo dei cloni, un classico tra i tòpoi della migliore fantascienza distopica entra così nelle case di tutti, con le sembianze di una formosa soubrette. E con i cloni non si scherza, sono sempre perturbanti. Le Belen Rodriguez ci svelano un sogno, è vero, ma ci pongono anche di fronte allo stesso interrogativo espresso da un racconto di Philip K. Dick, Impostore, storia di un androide killer, fatto a immagine e somiglianza della sua vittima, così simile all’originale da confondere la sua identità e trascinare con sé nel medesimo smarrimento il lettore. Quale delle Rodriguez è il brand/azienda, quello che di solito ci parla in pubblicità? Non c’è risposta. Siamo tentati di indicare quella che consiglia di andare al fast food, ma potrebbe essere l’altra che nel suo candore disinteressato accetta il consiglio e si mostra soddisfatta della scelta e intenzionata a ripeterla (il sogno della marca), oppure è l’addetta al banco, dai modi semplici ma così invitante? Ognuna è la replica dell’altra, perché il massimo anelito di ogni marca/azienda è di incarnarsi nel suo consumatore e di reiterarne i comportamenti. In ascolto del prosumer per legarlo sempre a sé. Strategie fatali svelate da una fatalona in uno spot, come si è detto, di rara bruttezza, pari a quello che anni fa stigmatizzava “noi siamo scienza non fantascienza” invitandoci ad entrare nel postmoderno. Questo ci invita alla postmacdonaldizzazione del mondo. Laddove George Ritzer intende per macdonaldizzazione della società "un processo di omologazione e spersonalizzazione che con i suoi prodotti occupa un posto di primo piano nella cultura di massa", qui la logica di appiattimento rientra dalla finestra, rendendo il brand indistinguibile dal suo pubblico, mentre simula un’offerta di prodotti unici (la tipicità della pasta made in Italy). Il racconto di Dick terminava con un’esplosione e la morte dell’io narrante (chi dei due protagonisti?). Qui un clone Belen Rodriguez più che mai friendly esce allegramente dal locale, lasciandoci con la sensazione di un misto di nuovo e sempre uguale, quasi sussurrasse: “Noi siamo fast food non fantascienza”.