LETTURE / LO SGUARDO SOCIOLOGICO
di Everett C. Hughes / Il Mulino, Bologna, 2010 / pagine 410, € 35,00
L'immaginario eclettico
di un sociologo sui generis
di Antonietta De Feo
Con notevole ritardo rispetto alla forte influenza esercitata sullo sviluppo e consolidamento della disciplina sociologica, per la prima volta in Italia sono stati tradotti gli scritti di Everett C. Hughes in una antologia di straordinario interesse per la ricerca sociale.
Lo sguardo sociologico raccoglie i contributi più significativi di oltre quaranta anni di studio e ricerche condotte su diversi temi e il cui filo conduttore è uno “sguardo” singolare sulla società e sul modo in cui questa va osservata. Le sue riflessioni si collocano – parafrasando Thomas Kuhn – nei puzzle-solving della tradizione di Chicago, in un complesso cioè di proposte concettuali e interpretative sulla realtà sociale testate, raffinate e arricchite attraverso un’impresa collettiva di lavoro sul campo (field work), a contatto con “il succo empirico della vita” (p. 111).
Allievo di Robert Park e a sua volta maestro di sociologi del calibro di Howard S. Becker e Erving Goffman – paradossalmente più noti – Hughes ha fatto da ponte tra due generazioni della Scuola di Chicago, quale depositario e testimone della fecondità del metodo etnografico, ma in un momento storico, a cavallo tra gli anni Quaranta e Sessanta, in cui l’ascesa del funzionalismo parsonsiano e l’estensione di metodi quantitativi di gestione dei dati sociali ridimensionarono fortemente la pratica dell’osservazione delle persone in situ. È tuttavia la sua lezione in campo metodologico ad essere stata rispolverata, in concomitanza con il diffuso riconoscimento della ricerca qualitativa in campo accademico. Eppure Hughes non propone alcun prontuario di metodologia e lo “Sguardo sociologico” sembra più che altro un memorandum di indizi concreti, istanze e osservazioni da cui si sviluppa una struttura concettuale aperta alle possibili variazioni di ogni tipo di istituzione o di relazione sociale. La ricerca sul campo è descritta come pratica riflessiva e al contempo artigianale, da “bottega”, informata di una straordinaria curiosità per quei sottili, profondi e talvolta impercettibili aspetti della vita umana.
Hughes prende in esame diversi “rompicapi” della vita sociale – dalle relazioni etniche alla natura delle frontiere razziali, dalla divisione del lavoro fino alla definizione dei confini di competenza della sociologia – tutti declinati in immagini sospese, incompiute. Fare sociologia per Hughes significa intrattenere un dialogo continuo con il mondo empirico, con la gente comune, sporcarsi del “fango della quotidianità” (Riesman, 1983), essere pronto in altre parole a riconoscere l’eccedenza conoscitiva dell’esperibile. Esito inevitabile di questo atteggiamento umile è fare in modo che le idee e i concetti si pongano sempre in un rapporto stretto di “autocorrezione” con le contingenze della vita. Così Hughes resta diffidente rispetto alla “teoria” (quella con la T maiuscola), ritenendo impossibile per il ricercatore purificare la struttura logica delle proprie convinzioni dal caos dell’esperienza umana. Ne deriva una sorprendente mancanza di sistematicità nell’esposizione scritta del suo pensiero: il linguaggio è poco indulgente verso gli specialismi e gli stilemi classici di pubblicazione nel campo delle scienze sociali ed, anzi, appare come espressione di una libera associazione di idee. Sarebbe nondimeno sbagliato definire l’opera di Hughes come “ateoretica”. Semplicemente, egli suggerisce prudenza nell’uso di generalizzazioni astratte, che possono pregiudicare la comprensione esaustiva delle peculiarità assunte da ogni singolo fenomeno sociale nel tempo.
Nei suoi resoconti etnografici emerge una tensione costante verso la scoperta di relazioni di interdipendenza di ogni singola parte con il tutto. Questo approccio relazionale ispira, ad esempio, lo studio delle occupazioni – a cui è dedicata tutta la seconda parte del libro – dal quale egli si prefigge di imparare di più sui processi sociali in generale. Ogni occupazione ha di certo una sua esistenza irriducibile a quella di altre, ma contemporaneamente funziona in rapporto al complesso istituzionale pertinente, che va a sua volta indagato e mai dato per scontato. Le attività occupazionali sono concepite non come oggetti isolati, ma come sistemi di relazione interconnessi con il funzionamento dello spazio sociale più ampio in cui sono incluse.
Il lavoro è altresì inteso in termini contestuali e diacronici. In tal senso, uno dei concetti cruciali della teoria sociologica, quello di “divisione del lavoro”, appare insoddisfacente, “perché enfatizza la divisione e ignora l’interazione, cioè le relazioni tra le funzioni così divise o differenziate” (p. 228). Piuttosto, Hughes preferisce parlare di “situazione lavorativa”, definita come scenario del “dramma di ruolo” (role-drama) del lavoro, “… in cui persone con varie capacità, sia occupazionali che ordinarie, coinvolte in diverse opportunità esistenziali, interagiscono in insiemi di relazioni che sono sociali quanto tecnici” (p. 240). Lo scopo è dunque scoprire i possibili modelli di interazione che informano le pratiche del lavoro, attraverso uno sguardo bifocale “alle piccole e grandi cose”.
La chiave interpretativa di Hughes sul mondo del lavoro apre, inoltre, ad un interessante processo di rivisitazione delle categorie più utilizzate per definirlo. L’universo di discorso della sociologia è inevitabilmente legato al linguaggio comune, a dispetto di ogni tentativo di separarli. Questo è foriero di non poche trappole in cui può incorrere l’esperienza di studio delle occupazioni. Si pensi al concetto di “professione”, così carico di giudizi di valore e di prestigio nella nostra società, che un suo uso “naturale” da parte del ricercatore può pregiudicarne una comprensione chiara. L’errore sta in questo caso nel trattare come pura categoria analitica ciò che è invece un costrutto storico, legato cioè ai processi di costruzione sociale degli agenti. Così, piuttosto che riprodurre la retorica di quelli che tendono a presentare il proprio lavoro come un’attività nobile e prestigiosa – si pensi al medico o all’avvocato – Hughes sposta il focus d’analisi su un’idea di “professione” che Howard S. Becker (1962) definirà più tardi come folk concept: una categoria, cioè, di uso comune disponibile ai membri dei vari gruppi sociali per organizzare la loro percezione della realtà.
La convinzione che l’analisi della società passi per l’impiego di categorie arbitrarie spinge Hughes ad applicare allo studio delle occupazioni il metodo comparativo, grazie al quale egli osserva differenze all’interno di dimensioni comuni a tutti i casi. Ciò gli consente – in modo a dir poco magistrale – di estendere la sua indagine alla professione del sociologo, individuando in essa gli stessi problemi di molte di quelle occupazioni che cercano di ottenere uno status speciale tra le altre. Su questo sfondo, l’Autore ritiene possibile osservare paradossalmente con più distacco la situazione della sociologia come organizzazione, al quale egli stesso appartiene.
Hughes avverte, limitandosi al contesto degli Stati Uniti, un “movimento professionalizzante” della sociologia, basato su un percorso di specializzazione delle conoscenze e su una distinzione più netta tra chi è dentro e chi è fuori. La chiusura che ne deriva, tradotta poi in regole rigide di accesso alla formazione, è però per Hughes un rischio. Dal momento che si tratta di una disciplina da lui stesso definita giovane, egli suggerisce di sviluppare e approfondire le competenze teoriche e tecniche senza al contempo limitare la circolazione delle menti da un ramo della scienza a un altro. La delimitazione dei confini non deve quindi ostacolare la costruzione di ben più proficui percorsi multidisciplinari, e allo stesso tempo non deve impedire una didattica colta ed eclettica, non parcellizzata, e chiave per una efficace socializzazione delle nuove leve. Sarebbe di certo interessante discutere a fondo della attualità di queste considerazioni, a mezzo secolo di distanza, riflettendo sulla eventuale persistenza di un carattere “giovane” della disciplina e, ancor più, sugli effetti perversi di una sua evidente iper-specializzazione, tanto nei segmenti di ricerca, quanto nelle modalità di organizzazione dei corsi di laurea. Una delle questioni su cui Hughes invita a pensare sembra essere quella di riappropriarsi del privilegio di una “parentela eccezionale” che la sociologia ha con tutte le altre branche delle scienze sociali – dalla filosofia all’economia, dalla psicologia alla storia –, come formula per allargare lo “sguardo” sugli affari umani.
LETTURE
× Becker S.H., The Nature of Professions, in Nelson B.H. (ed.), Education for the Professions, University of Chicago Press, Chicago, 1962.
× Chapoulie J.M., Everett C. Hughes et le développement du travail de terrain en sociologie, Revue française de sociologie, 4, pp. 582-608, 1984.
× Riesman D., The Legacy of Everett Hughes, Contemporary Sociology, 12 (5), pp. 477-481, 1983.