ASCOLTI / SONGS OF EXILE
di Diamanda Galás / Teatro Municipale Valli / Reggio Emilia
L'orrore di Diamanda-Kurtz
di Stefano A.E. Leoni
Ci sono alcune voci femminili che hanno il potere di far rabbrividire: tra queste, due sono greche, almeno d’origine (magari è un fatto che riguarda il Mito e riguarda pure la grecità come ponte tra antico e moderno); una era Maria Callas, l’altra – all’apparenza affatto diversa – è Diamanda Galás.
Quest’ultima è sicuramente un personaggio controverso in un panorama che sta in bilico tra performance art ed eversione sonora, e da quasi trent’anni Galás, ferocemente, propone la sua voce come strumento tra il funambolico e l’ammiccante, tra il dolente e l’irriverente: l’abbiamo riascoltata ancora recentemente in Italia, solo qualche mese fa tra Reggio Emilia e Bolzano (Your Kisses Are Like Fire, Transart), ed è stato ritrovare una vecchia conoscenza. Che oggi continua a girare i continenti portando emozioni e riflessioni etico-politiche, ma che, una trentina d’anni fa iniziò i suoi tours europei a partire dal Festival del New Jazz di Moers; prima durante gli innumerevoli workshop mattinali nella palestra del parco pubblico dove si svolge il Festival, anche accanto ad altre vocalist o a strumentisti della costa occidentale (Maggie Nichols, il Rova Saxophone Quartet, Toshinori Kondo), e poi in un concerto pomeridiano di fronte ad un pubblico numeroso quanto preoccupato. Era la Pentecoste del 1980 nell’un caso e del 1981 nell’altro (il Festival si svolgeva in quel periodo dell’anno); qualche mese dopo ritrovammo Diamanda a Padova, per un concerto al Centro d’Arte degli Studenti dell’Università; lì, durante quell’ennesimo cappuccino pomeridiano che gli americani amano (e che difficilmente vedremmo accostato all’immagine goticamente sospesa tra erotico e orrorifico di Galás) chiese di essere accompagnata in giro per edicole, e di acquistare per suo conto fumetti horror-porno dei quali faceva, a dir suo, incetta. Forse per posa, o per altro: o forse stava cercando di allinearsi all’immagine esteriore che già il suo primo album, che stava per uscire allora, e che lei portava in scena in concerto, poteva attribuirle. Immagine che i suoi pregressi personali quanto gli esordi manicomiali con il Living Theatre non facevano che accreditare. La realtà è che c’era e c’è assai poco di satanico, di demoniaco, di horror, in Galás, se non quanto la nostra stessa società produce e che lei faceva e fa risuonare come denuncia. Una sorta di grido estremo che ricorda puntualmente il grido del Kurtz di Cuore di Tenebra; una voce che ammalia quanto quella del personaggio conradiano.
È vero, pare che Marylin Manson le abbia chiesto di fare un tour insieme (ma lei ha rifiutato: troppo diversi, e i referenti culturali sono molto pop per lui, molto colti per lei, più vicina al Wiener Aktionismus, semmai), ha recitato anche nella parte di una delle spose di Dracula (ed ha ovviamente partecipato alla colonna sonora) nel film omonimo di Francis Ford Coppola: ma non si può considerare Coppola un regista horror (salvo per quel che anch’egli registra della realtà o dei pensieri delle persone) per aver girato Dracula. E non è un caso che proprio Coppola abbia diretto Apocalypse Now, quella magistrale riflessione sul male che dal romanzo di Conrad prende più di uno spunto (romanzo che anche Orson Welles voleva portare sullo schermo, tutto in soggettiva).
Il gothic sfiora Diamanda: “Non so cosa sia il gothic. Mi invitano a questi festival in Grecia e in Germania, e ci vado: il pubblico è gentile ed educato, sono tutti vestiti di nero e molto attenti alle cose che suono. Per loro la musica è importante, non è una moda, come per tanti intellettuali snob”. E vien fatto di pensare che questa woman in black sia in nero più per lutto che per altro. Perché non può fare a meno di vedere il Male, non può fare a meno di denunciarne le mille forme: un lutto etico la pervade, la veste. Dice Galás: “Contro chi ritiene la mia arte peccaminosa e il mio linguaggio immondo posso solamente dire: ‘Se pensate che vesta i panni dell'osceno, allora sappiate: mi ci sento a mio agio’”. L’osceno, il deviante, il peccato, sta nelle menti degli alfieri del moralismo e dell'ipocrisia, come testimonia You Must Be Certain Of The Devil (1988) la terza parte della trilogia Masque Of The Red Death dedicata al dramma dell'Aids: “Il male, il diavolo sta là dove stanno i codardi, gli uomini spiritualmente impotenti, gli omofobi, chi si ostina a non guardare, chi diserta la realtà” ("Diamanda Galas, preghiera e maledizione"). Le opere di Diamanda Galás riportano titoli terrificanti, si nutrono di temi terrificanti, sono interpretate in modo terrificante (se non altro rispetto ai canoni tradizionali), le sintetizzano bene in un’intervista (vedi sopra) Damir Ivic e Andrea Prevignano: Litanies of Satan (1982, ispirato all'urgenza della poesia mistica di Baudelaire), Saint of the Pit e Divine Punishment del 1986 (rispettivamente prima e seconda parte della trilogia Masque Of The Red Death, che provengono ancora da Baudelaire o dalle visioni apocalittiche del Vecchio Testamento), Plague Mass (1984, esibizione dal vivo in una cattedrale di New York), Vena Cava (1993, il decorso della malattia e la pazzia provocata dall'Aids), Schrei X (1996, manipolazioni della mente), Malediction & Prayer (1998, le voci inquiete della poesia e del blues). Temi che rivelano anche riferimenti autobiografici: la morte per Aids nel 1986 del fratello, il drammaturgo, poeta e impresario Philip Dimitri Galás, un’adolescenza difficile (“Ero una tossicodipendente, poi realizzai di avere più talento come pianista che come criminale. Non dico che l'una cosa sia meglio dell'altra. Credo di essere la sintesi delle due cose”), l'amore per l'opera e la letteratura: “Tutti credono che sia una cantante lirica frustrata che si dà all'avanguardia, invece io continuo a studiare perché è l'unico modo per alimentare il mio canto” (http://212.239.23.84/kwmusica/media/musica/news/real/diamanda_intervista_56k.ram). Ecco perché è difficile (identificarsi con) il modello Galás; impossibile. Le cantanti cantano, Galás è. Dunque l’uso di Galás nella didattica va ben oltre il mimetismo portato a modus operandi da parte di tanti giovani cantanti e di tanti vecchi docenti; quel che se ne può cavare a soprattutto un’esperienza emotiva, una serie di intelligenti spunti tecnici (che sapientemente e accuratamente mescolano voce, strumento e elettronica). Galás è.
È tre ottave e mezza di estensione vocale che conoscono il bel canto, ma lo evitano (ma ha cantato in passato in Lady Macbeth, in Norma, Tosca, e in Erwartung, ed ha studiato lungamente tecnica vocale con Frank Kelly, avendo in mente anche il modello di Cathy Berberian), che proiettano sul pubblico, da venticinque anni, realtà mutilate e offese attraverso destrutturazioni linguistiche, fonemi, semplici suoni, strilli e urli, dagli inizi discografici (Litanies of Satan e Wild Women with Steak Knives, o Tragouthia apo to Aima Exoun Fonos e Panoptikon, questi ultimi usciti nell’album Diamanda Galás del 1984, ma ben precedenti), al jazz-blues stravolto in termini vocali (ma non troppo in termini armonico strumentali), si veda I’m So Lonesome I Could Cry (Hank Williams) e tanti altri brani-cover de La Serpenta Canta (uscito nel 2004, come raccolta di cover eseguite in concerto), o ancor prima, negli anni Novanta, The Singer (1992) che rilavora brani blues di Willie Dixon, M. Bloomfield, Jay Hawkins e Roy Acuff o Sporting life, in cui si inoltra nel territorio del rock. E ancora, nel citato You Must Be Certain Of The Devil, Galás si rivolge allo spiritual, al funk reso volutamente “dissonante (Malediction), a un boogie catalettico e cacofonico (Let's Not Chant About Despair)” [http://www.scaruffi.com/avant/galas.html]. Sempre in sospeso tra canzone popular e vocalità ai limiti, acuto sopranile che diventa lancinante, che non si scalda nelle tessiture più gravi, non cerca consolazione, appare, decontestualizzato, stridente, lancinante, talora scandito da bordoni, ronzii elettronici e non: Defixiones, Will and Testament (concept work pubblicato nel 2003), racconta scomode ossessioni e schegge di maledizioni relative ai genocidi armeni, curdi e greci perpetuati in Anatolia, nel Ponto e in Tracia tra il 1914 e il 1923: “Non avete idea di ciò che successe. Non si trattò di un semplice sterminio, fu molto di più: una civiltà venne cancellata in modo che non rimanesse assolutamente nulla”, dice Galás, che denuncia questo “piccolo” olocausto dimenticato, “e lo fa con la voce della poesia, con i versi dell'armeno Samianto, del belga di lingua francese Henri Michaux, del siriano Adonis, delle canzoni del Pireo e di Tessalonica di Sotiria Bellou e con il blues di Blind Willie Johnson e Son House. Per dimostrare – contrariamente a quanto è stato detto – che la poesia ha ancora un senso dopo lo sterminio” (Intervista a Diamanda Galas). Ma i nomi dei poeti utilizzati nelle varie versioni (registrate o dal vivo) sono tanti, e tra questi Pier Paolo Pasolini. Dunque, questa vocalist tutta particolare che si impegna da tempo su temi come il disagio mentale, la guerra, lo sterminio, l’Aids e l’emarginazione, anche culturale. Dichiara, per esempio: “In America c'è spazio solo per i bianchi o per i neri, tutto il resto viene ignorato. Essere greca come me è veramente terribile, e la cosa peggiore è che ora i greci si stanno arrendendo all'ottica dell’America. Vorrebbero sostituire l'alfabeto tradizionale con quello latino. Ma se distruggi una lingua, distruggi una cultura: di millenni di storia rimarrà solo il souvlaki. Gli americani non hanno idea di come sia fatto un greco, sanno cos'è un cinese o un portoricano, e naturalmente credono che gli italiani siano tutti come quelli del serial Sopranos” (http://212.239.23.84/kwmusica/media/musica/news/real/diamanda_intervista_250k.ram). Questa figlia di immigrati greci di religione ortodossa, avviata alla musica dal padre insegnante, ma diffidata dallo stesso dal dedicarsi al canto (“solo gli idioti e le baldracche cantano”), con alle spalle studi abbastanza irregolari, ma un Master in Musica, lezioni regolari di canto, esperienze border-line tra abusi di droghe e molteplici esperienze sessuali, nasce a San Diego nel 1955.
Alla metà degli anni Settanta suona a Los Angeles con jazzisti d'avanguardia come David Murray, Butch Morris e Mark Dresser. Tra esperienze di performance vocali nei manicomi (1975-77), auspice il Living Theatre, e l’invito da parte del trombonista e compositore, sospeso tra avanguardia e new jazz, Vinko Globokar a partecipare alla sua opera Un Jour Comme Une Autre, matura la sua idea personalissima di musica e di canto: una vera Sirena contemporanea, con tutto quel che di mostruoso e affascinante queste figure si son portate dal mito, nel corso della storia. Certo, si tratta di scelte difficili, non sempre appaganti, quasi mai uscite dall’ambito di una cerchia élitaria, o meglio: quasi mai comprese, fuori da quella cerchia. Uno stupito (stupido?) recensore dal retroterra pop, che ha risentito Sporting Life (1994) per via di John Paul Jones, ha scritto nel 2001, a vent’anni circa dall’esordio discografico di Galás: “Turns out, it’s Galas! What a unique artist! I doubt the world is ready for this one, but you might be!” (cd review, ProgressiveEars.com). Benvenuto tra i vivi!
Diamanda Galás chiede. Chiede l’attenzione di chi ascolta fin da quando sale sul palco e si avvia al pianoforte: chiede ascolto e chiede riflessione, ma più ancora, chiede che si provino con lei sensazioni, emozioni, sentimenti. Emozioni forti, passioni, che sono dolori, tragedie personali e collettive, desideri catartici di bellezza eticamente intesa, di arte che purifica le brutture dell’esistenza umana.
S’è detto, prima, del lutto perenne di Galás: un lutto per l’inesprimibile, per quello che è tanto ineffabile, tanto oltraggioso nei confronti dell’umanità (intesa come collettività e come qualità) da necessitare l’urlo, l’ululato bestiale, la natura carnale e pre-linguistica della poesia, che unisce l’irreparabilmente diviso dal linguaggio razionale. Per questo Galás si dà tutta (e altrettanto si aspetta dal “pubblico”), arrogantemente generosa, dal brontolio profondo alla pura, affascinante e abbacinante melodia tesa, acuta; per questo canta l’esilio: da una terra, dall’amore e dagli affetti, da se stessi. Canta le divisioni dell’esistenza, a partire dai manicomi, dove “ha imparato” a cantare, dove ha sviluppato – quasi per analogia espressiva empatica con gli “alienati” – la sua tecnica vocale, rompendo ogni norma prestabilita in musica, anche quelle delle avanguardie, usando la propria voce come una risposta fondamentale del suo corpo e della sua anima al bisogno di esprimersi come essere umano: niente di terapeutico.
Galás esplora da artista il mondo della schizofrenia, dell’afasia, del disagio mentale come modi comportamentali di risposta a situazioni di isolamento; una tortura appassionata, un selvaggio assalto dei sensi che sono lamento e pena volti in desiderio, in “eros”, in predazione. Ogni concerto, ogni performace o concept work è allora un’esperienza “da ascoltare”, in bilico tra mille possibili catastrofi, attraversando le mille declinazioni possibili della femme fatale. Ha scritto di lei John Gill su Time Out London: “Puttana, santa, demone, amante, pazza o angelo, non c’è altra voce nel rock, nel jazz, o nell’avanguardia che abbia la sua stessa violenza, la sua stessa grande passione e la sua stessa pura forza elementare” (cit,. in: Diamanda Galas: The Dark Side of the New Music).
Galás ha percorso i generi musicali: il blues e l’hip-hop, la portoricana, la salsa, la musica cubana e il flamenco, il jazz e l’improvvisazione d’avanguardia west-coast; si è esibita in club punk o al I-beam, al Club Nine e alla Danceteria di New York City. Ha confessato influenze, quantunque marginali, le più disparate: da John Coltrane a Cecil Taylor, a Sun Ra, o Antonin Artaud, in un’ottica, comunque, di affrancamento dalle tradizioni “reiterative” modulari per enfatizzare l’aspetto della discontinuità vocale, dell’uso di pattern irregolari tesi alla disintegrazione, alla distorsione, alla polverizzazione del testo e del linguaggio (intesi anche come testo e linguaggio musicale), ridotti a presenze “soniche”. Ciò non significa “prescindere” dal testo poetico: il testo è vitale, tante volte banalizzato o stupido: “Mi piacciono anche i groove dell'hip hop ma odio i testi che trovo assolutamente idioti e buoni solo per squallidi ragazzi medio borghesi che guardano film stupidi e conducono una vita stupida. Hip hop è Gucci, Versace, gioielli, soldi, belle donne. State zitti, è meglio!” (Polverari: Daria Galas, le voci del genocidio). Il testo viene “semplicemente” trasceso.
Le molteplici esperienze di questa artista così versatile non hanno però intaccato il senso del controllo della performance musicale, la sua conclamata utilizzazione dell’elemento improvvisativo (“Oggi chi suona blues si muove sempre attraverso gli stessi schemi non sapendo che i padri del genere davano largo spazio all'improvvisazione. Elemento per me primario, proprio perché mi permette di unire la tradizione statunitense con gli elementi bizantini e greci propri della mia cultura”) è “studiata” in ogni dettaglio (Polverari).
Il palcoscenico è per Galás una sorta di recinto sacro nel quale il caso non può e non deve essere una forza determinante in gioco: l’elettronica le permette il controllo dell’esibizione, attimo per attimo fin nei più minuti dettagli; in questo recinto sacro, come per una moderna drammatizzazione tragica, Galás ha sviluppato uno spettacolo che definisce “teatro elettroacustico il cui nucleo è la voce dell’attore, dell’esecutore” e che include elementi visivi, come giochi di luci, colori che sottolineano l’intensità perfino allucinatoria dei suoni, acustici e elettronici, da lei prodotti. Un risultato complesso e perfettamente dettagliato: notato attraverso “sceneggiature sonore”, strips che travalicano i limiti della scrittura musicale tradizionale per cogliere le variabili in continuo mutamento cinetico, le interazioni ogni volta rivedute con i luoghi dove si esibisce, i silenzi, le pause, gli espedienti elettronici.
Strumento tra gli strumenti (il pianoforte, l’elettronica, essenzialmente), la sua voce si interfaccia con essi e con le manipolazioni dei segnali analogici o digitali che arrivano a “modificare” lo spazio sonoro, a fare dello spazio (grazie all’uso sapiente del delay, per esempio), uno strumento.
A fare dell’ascolto di una sua performance un’esperienza unica. Dagli esordi di Wild Women With Steak-Knives, assolo canoro di una dozzina di minuti fatto di blocchi di grida orrende, disarticolate, affrettate, eccessive, alternate a “singhiozzi, spasimi, vomiti, nitriti, movimenti di labbra e di guancia, gargarismi, lamenti strozzati, sibili, balbettii isterici”, a Eyes Without Blood (1985), sempre sulla stessa linea “terrificante”, fino agli esiti ultimi, che son passati attraverso le covers de La Serpenta Canta, ma anche attraverso i ripensamenti sulle origini di Vena Cava per sfociare in una nuova maturità (Galás ha di poco passato i cinquantacinque anni), meno urlata, meno disarticolata, assolutamente non meno destabilizzante.
Chi ha conosciuto Galás allora, venticinque anni fa, “finché eravamo giovani” e queste modalità espressive ci appartenevano (come alla società nella quale si viveva), se rimpiange quei tempi, rimpiange solo la propria storia passata: l’urlo di Galás oggi trafora “in sordina” attraverso Ain't No Grave Can Hold Me Down (Boise Sturdevant), Burning Hell (John Lee Hooker), Lonely Woman (Ornette Coleman), Baby’s Insane (Galás), I’m So Lonesome I Could Cry (Hank Williams), Dark End of the Street (Dan Penn), Blue Spirit Blues (Spencer Williams), See That My Grave Is Kept Clean (“traditional”), My World Is Empty Without You (Holland/Dozier/Holland), Dead Cat on the Line (Tampa Red Mississippi/Fred Mac Dowell), Dancing in the Dark (Schwartz/Dietz), Frenzy (Screamin' Jay Hawkins), I Put A Spell on You (Screamin' Jay Hawkins). O attraverso i classici del pubblico medio e borghese nell’ultimo album, Guilty Guilty Guilty (vedi anche la recensione sul numero 15 di "Quaderni d'Altri Tempi"), dove rivisita e destabilizza la memoria di Edith Piaf, di Timi Yuro, di Frank Sinatra, dei brani di Kosma e Mercer, e di tanti altri standard (in tutti i sensi).
Le cover di Diamanda colpiscono allo stomaco con una voce cotta, magari impastata, a tratti, ma anche calda da terrificare, hot, triste allo spasimo: tanto quanto “altrove” negli album concept è imperativa al limite del didascalico e parlante, recitante, solo a tratti urlante. Sempre più emerge il rapporto con il pianoforte, che non è subalterno: maltrattato com’è, sottolinea il lato compositivo, la struttura musicale, senza il minimo portato edonistico. Trascendendo ogni standard, superando ogni durezza ideologica, depistando continuamente i critici in cerca di contenitori sicuri, di titoli definitivi.
E non ci dà requie. Come solo un’artista sa fare.
* Parte del materiale di questo intervento proviene da: Leoni S. A. E., Finché eravamo giovani, era tutta un’altra cosa ...?: rileggere Diamanda Galás a partire dai suoi esordi, e dopo più di vent’anni. In: Conti Laura, Michelone Guido (a cura di) La voce. Breve introduzione alla storia della musica afroamericana. vol. IV, ISU Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2006.
ASCOLTI
Diamanda Galás:
× The Litanies Of Satan, Y Records, 1981, ristampa cd Mute, 1989.
× Plague Mass, lp Mute, 1984.
× Diamanda Galas, Metalanguage, 1984.
× The Divine Punishment, Mute. 1986.
× Saint Of The Pit, Mute, 1986.
× You Must Be Certain Of The Devil, Mute, 1988.
× The Singer, Mute, 1992.
× Vena Cava, Mute, 1993.
× Schrei X, Mute, 1996.
× Malediction And Prayer, Mute, 1998.
× The Sporting Life (with John Paul Jones), Mute, 1994.
× Defixiones, Will And Testament, Mute, 2003.
× La Serpenta Canta, Mute, 2004.
× Guilty Guilty Guilty, Mute, 2008.