LETTURE / VUOTO ASSOLUTO
di Stanislaw Lem / Voland, Roma, 2010 / pagine 247 / € 14,00
Verso l'infinito, oltre i limiti dell'interpretazione
di Roberto Paura
Il vuoto assoluto è un concetto che si può collegare al moto perpetuo, alla quadratura del cerchio, magari ai quadri di Escher: teoricamente ineccepibili, praticamente impossibili. La meccanica quantistica ha chiuso la porta alla possibilità di un vero vuoto assoluto, scoprendo che nel vuoto estremo dello spazio cosmico – nel
nulla – esiste pur sempre un brulicare di particelle virtuali che si annichilano a vicenda, producendo persino energia, a quanto sembra, capace magari di spiegare l’enigma di quell’energia oscura che permea l’universo e sembra influenzarne l’esito finale. Resta pur sempre un concetto interessante, oggi ancora più di allora: magari proprio da questo mare di particelle virtuali, dal vuoto assoluto, ossia dal nulla, potrebbe essere scaturito il nostro universo. È un’ipotesi che affascina i cosmologi, ma che ha colpito anche tanti scrittori di fantascienza. Chi più di tutti avrebbe potuto trarci qualcosa di buono sarebbe stato Stanislaw Lem, che alle grandi domande dell’esistenza umana – “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?” – ha dedicato alcuni dei suoi romanzi più profondi. Piuttosto che prendere di petto l’argomento, Lem ha dedicato al tema un’opera che è senza dubbio la più singolare della sua produzione, intitolata appunto
Vuoto assoluto. Apparentemente, il titolo del libro si spiega con il fatto che Lem ci parla proprio del nulla, benché puramente letterario: quattordici recensioni, cioè, di altrettanti libri mai scritti, del tutto immaginari, quindi in pratica un modo come un altro per parlare di niente. A queste si accompagna, in conclusione, una prolusione di ringraziamento per l’accettazione del premio Nobel da parte di un fisico, che racconta al pubblico di come la sua teoria cosmologica si debba alla lettura di un testo fondamentale, ovviamente inesistente come inesistente è la sua prolusione; e, in apertura, una recensione all’intero libro di Lem, che si scopre essere in realtà opera di Lem stesso. Quindi, due altri modi di parlare del niente all’ennesima potenza, come in un gioco di scatole cinesi.
Perché scrivere un libro come questo? Lo stesso Lem cerca di spiegarlo vestendo i panni del recensore di se stesso. In parte per il puro gusto della pastiche, come in alcuni racconti delle sue Memorie di un viaggiatore spaziale (2004) o del Congresso di futurologia (2003). In parte per divulgare alcuni buoni spunti di romanzi o racconti mai scritti, vuoi per pigrizia vuoi per mancanza di tempo, che nella finzione del libro prendono forma, trovano addirittura un altro autore, un editore e un recensore. In parte per prendere in giro la macchinosità dell’esegesi critica, la vacuità (vuoto assoluto, appunto) di molta letteratura contemporanea, capace di scrivere del niente, come in Rien de tout, o la conséquence, un romanzo in negativo che racconta di quello che non è successo. Infine, un modo tutto sommato ironico e geniale per dire ancora una volta la propria su qualcosa: sull’origine dell’universo, su Dio, sul potere dell’immaginazione. Simile a Dio si sente il protagonista di Les Robinsonades, il primo dei romanzi recensiti da Lem: si tratta di un novello Robinson Crusoe che, per darsi un po’ di compagnia nel vuoto di un’isola deserta, s’inventa tutta una serie di personaggi, servitori e belle donne, ai quali impartisce ordini e di cui si diletta a osservarne le dispute. Si tratta ovviamente di personaggi immaginari, parti della pura fantasia: ma chi può dire dove sia il confine tra realtà e immaginazione, per un creatore? Dopo tutto, i personaggi inventati da un romanziere non finiscono prima o poi per sembrargli reali, al punto che Agatha Christie arrivò a sbottare la sua insofferenza nei confronti di Hercule Poirot, fino a imbastirne la morte in uno degli ultimi libri?
Viceversa, in Non Serviam Lem ipotizza l’esistenza della ‘personistica’, considerata “la più crudele delle scienze inventate dall’Uomo”: essa consiste nella capacità di sviluppare universi fittizi tramite sofisticati programmi operativi, che permettono di creare una vasta gamma di esseri pensanti, esattamente come gli umani, ma fatti di formule matematiche (come tali, non hanno bisogno di mangiare alimenti veri, ma si nutrono di forme geometriche ed equazioni non lineari). Ebbene, gli esperti di personistica usano questi grandiosi esperimenti per analizzare il comportamento di questi esseri su piccola e grande scala, osservandone l’evoluzione, i ragionamenti, le dinamiche. Inevitabilmente, gli abitanti di questi micro-universi finiscono per interrogarsi sui grandi quesiti esistenziali, sull’esistenza o meno di un creatore, sul ruolo della vita intelligente nell’universo e quant’altro. Non Serviam si basa su una discussione tra soggetti personistici riguardo Dio, che in fin dei conti altri non è che il creatore del loro programma: i prodotti della capacità creativa dell’essere umano iniziano a loro volta a ripercorrere, così, gli stessi passi dei loro creatori. Alla base c’è l’esigenza di interpretare l’universo: esigenza che si ritrova anche nell’ultimo capitolo del libro, La nuova cosmogonia, dove ad essere interpretato è l’universo vero, quello in cui abitiamo, trattato come un grande Gioco di cui non siamo che pedine, ignorando chi siano i veri Giocatori.
L’interpretazione è il filo conduttore di Vuoto assoluto, essendo del resto il grande tema dell’intera produzione di Stanislaw Lem. In Gigamesh, seconda recensione della raccolta, il tema assume tutta la sua centralità. Gigamesh è un’opera scritta sulla falsariga dell’Ulisse di James Joyce: un tipico romanzo post-moderno, dove più che la narrazione conta l’interpretazione. Ma è soprattutto un’esasperazione di questo concetto: l’autore, per non lasciare niente al caso, accompagna il suo romanzo con un ampio apparato di critica letteraria, che finisce per essere lungo più del doppio del romanzo stesso. Tutto diventa soggetto di possibili interpretazioni, a partire dal titolo: perché Gigamesh e non “Gilgamesh”, come l’eroe epico da cui prende il nome il protagonista? Per quella ‘l’ sottratta nel titolo si scomodano raffronti biblici, ermeneutiche esistenzialiste, ontologie decostruttiviste. Gigamesh rappresenta l’apoteosi del problema che Umberto Eco a suo tempo aveva definito come “limiti dell’interpretazione” (1990): lo scollamento, cioè, tra il significato di un’opera nelle intenzioni del suo autore e il significato a essa attribuito dal lettore. Riprendendo un fortunato concetto della filosofia novecentesca, quello del “circolo ermeneutico”, Eco riconosceva al lettore – o, meglio, ad un particolare Lettore Modello – il potere di cercare in un’opera un certo tipo di interpretazioni a cui magari l’autore non aveva mai pensato, ma che alla luce dell’analisi testuale possono essere considerate valide. Viceversa, tutte quelle allusioni aggiunte dall’autore, ma troppo sottili o ininfluenti per essere colte dal lettore, potrebbero essere ignorate nell’economia dell’opera. Infine, esiste il rischio della sovra-interpretazione: quello costituito dai traballanti castelli di carta dei critici, sempre pronti a gettarsi in complesse ricostruzioni di ciò che, a loro dire, costituisce il senso più profondo e intimo del testo.
Il fittizio autore di Gigamesh non lascia spazio neanche alla sovra-interpretazione a posteriori, affaticandosi a collezionare le interpretazioni più improbabili per ogni singola riga della sua opera:
“Aprendo a caso il libro, ci imbattiamo a pagina 131 (quarta riga dall’alto) nell’esclamazione ‘bah!’ con cui Maesch accetta la Camel offertagli dall’autista. Nell’indice del Commentario troviamo 27 ‘bah!’ diversi; in particolare, a quello di pagina 131 corrisponde la seguente trafila: Baal, Bahia, Baobab, Bahleda (viene da pensare che qui Hannahan abbia fatto cilecca, riportando un’ortografia errata del nome del celebre sciatore polacco, e invece no! La ‘c’ omessa evoca, secondo un procedimento ormai noto, la ‘c’ di Cantor, simbolo del continuum nella sua transfinitezza). E ancora: Pahomet, Babelisco (‘obelisco babilonese’, uno dei neologismi tipici dell’autore), Babel (Isaac), Abramo, Giacobbe, scala, pompieri, autopompa, sommossa, hippy (ecco la ‘h’, finalmente!), badminton, missile, luna, montagne, Berchtensgaden – luogo di ritiro prediletto di quell’adoratore di messe nere che nel XX secolo fu Adolf Hitler (di nuovo ‘h’)” (Vuoto assoluto, pp. 41-42).
Anche se Vuoto assoluto costituisce un esperimento del tutto particolare, Lem non è nuovo a questi sforzi interpretativi. Come si è detto, l’ermeneutica è l’asse portante della maggior parte dei suoi romanzi. Ne La Voce del Padrone, per la prima volta tradotto in Italia qualche mese fa ed edito da Bollati Boringhieri, l’interpretazione di un testo è ciò che costituisce la trama stessa dell’opera. In questo caso il testo è ancora più criptico perché proviene dalle stelle, forse prodotto da una civiltà aliena di cui l’essere umano ignora tutto; un testo veicolato da un fascio di neutrini, esattamente come le manifestazioni vive del pianeta Solaris nell’omonimo famosissimo capolavoro di Lem. Su questi messaggi insondabili si sprecano fiumi d’inchiostro e di parole, senza mai riuscire a costruire una verità condivisa, quasi come se l’autore stesso suggerisse che l’unica verità possibile è che la verità non esiste. Anche in questi romanzi non mancano recensioni di libri immaginari, ciascuno portatore di una sua personale verità:
“Il progetto Voce del Padrone vanta una letteratura enorme, assai più vasta e più varia di quella riguardante il progetto Manhattan. Quando ne fu rivelata l’esistenza, l’America e il mondo intero vennero inondati da una valanga di articoli, studi e monografie la cui bibliografia basterebbe da sola a formare un tomo grosso come un’enciclopedia. La versione ufficiale del progetto è rappresentata dal Rapporto Baloyne… Del progetto hanno scritto anche alcune persone che vi hanno ricoperto posizioni di spicco, come S. Rappaport (Il primo caso di comunicazione interstellare), W. Dill (La Voce del Padrone. Io c’ero), o D. Prothero (Il progetto La Voce del Padrone. Aspetti di fisica). Quest’ultima opera, dovuta alla penna del mio ormai defunto amico, è tra le più precise, benché vada in effetti classificata tra quella letteratura specialistica… Gli studi storici sono troppo numerosi per poterli elencare tutti. Un’opera monumentale è rappresentata dai quattro volumi dello storico della scienza William Angers (Cronaca di 749 giorni), che mi riempie d’ammirazione per la sua scrupolosità” (Lem 2010, p. 29).
Una vera biblioteca di Babele, chiusa nella sua sterile improduttività; del tutto simile a quella ospitata nella stazione orbitante di Solaris (2004), che inutilmente il protagonista Kelvin consulta affannosamente per riuscire a trovare una risposta razionale all’enigma che lo ossessiona. Anche qui un messaggio da interpretare, che assume la forma della moglie morta. Perché l’insondabile pianeta Solaris si diverte a comunicare con gli esseri umani attraverso queste inquietanti emanazioni, sfuggendo a tutti gli altri tipi di contatti scientifici? Perché, nonostante gli enormi sforzi, l’enigma rappresentato da quel mondo ricoperto da un unico oceano pensante non è stato sciolto, il suo senso interpretato? In questo caso l’autore del testo non offre solidi appigli ai suoi interpreti, prestando il fianco a quello che Eco avrebbe appunto definito il rischio della sovrainterpretazione, con la conseguente perdita del senso originale del messaggio (sempre che ve ne sia uno!). Nella stazione di Solaris, la biblioteca occupa la parte centrale, come tale priva di finestre sull’esterno. Una grande libreria raccoglie “circa seicento volumi, tutti dedicati allo stesso argomento, a cominciare dalla vecchia e sorpassata monografia monumentale, in diciannove volumi, di Giese… Dieci anni di ricerche su Solaris era stato pubblicato inizialmente nei volumi da quattro a tredici di “Solaristica”, la cui numerazione, adesso, era di quattro cifre” (Lem 2004, pp. 123-124). Ancora una volta, i testi si accumulano senza offrire verità a coloro che li consultano.
Lem mette così in discussione la possibilità stessa di comprendere l’universo e il senso della vita attraverso il mero uso della ragione. A colui che cerca di interpretarlo, l’universo risponde con quel “vuoto assoluto” che sembra permearlo. Ma, dalle pagine delle sue opere, Lem sembra suggerire che nell’universo ci sia anche qualcos’altro: il potere della creatività che dà forma a quel vuoto creando nuovi mondi, nuovi universi dell’immaginazione. Quegli stessi mondi e universi popolati da personaggi immaginari ma che diventano reali nella fantasia dei lettori, di cui Vuoto assoluto è un inestimabile contenitore.
LETTURE
× Eco U., I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano, 1990.
× Lem S., Glos pana, 1968; trad. it. La Voce del Padrone, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.
× Lem S., Solaris, 1961; trad. it. Solaris, Mondadori, Milano, 2004.
× Lem S., Kongres futurologiczny, 1971, trad. it. Il congresso di futurologia, Marcos y Marcos, Milano, 2003.
× Lem S., Dzienniki gwiazdowe, 1971, trad. it. Memorie di un viaggiatore spaziale, Marcos y Marcos, Milano, 2004.