di Adolfo Fattori
Da quella straordinaria fabbrica di talenti e di capolavori che furono la Vienna e le sue propaggini – come Praga – a cavallo fra il XIX e XX secolo periodicamente la cultura e l’editoria italiana ripropongono qualche esempio. A volte, veri e propri gioielli, altre volte testimonianze meno geniali e uniche, ma comunque significative, perché non venga dimenticato il ruolo unico che la cultura viennese – e mitteleuropea – di quel periodo storico ha avuto nella formazione della cultura di lingua tedesca e quindi di quella novecentesca dell’intero Occidente.
Così Adelphi, che periodicamente ri-propone qualcuno dei lavori di quegli anni, ristampa l’Hofmannstahl di Hermann Broch, scritto negli anni del secondo dopoguerra e già pubblicato in Italia in almeno altre due occasioni, negli anni Sessanta da Lerici in una raccolta di saggi, all’inizio degli Ottanta da Editori Riuniti.
Perché – per scusarci di quella che potrebbe essere interpretata come semplice erudizione, narcisismo fine a se stesso – il destino di questi autori, e di queste opere, almeno in Italia è stato bizzarro: dopo la riscoperta degli anni dalla seconda metà dei Cinquanta a tutti i Settanta – e la messe di pubblicazioni che seguì, a beneficiare i lettori dell’epoca – un sostanziale disinteresse colpì l’editoria italiana, in contemporanea alla crisi dell’industria libraria, sicuramente, ma forse anche di un calo di interesse da parte del pubblico, quando si esaurì l’onda lunga dell’uscita dalla cultura “autarchica” ereditata dal fascismo.
Il destino delle opere di Broch, come di molti altri, sembra in realtà – però – per certi versi confermare il punto di vista dello scrittore sul clima che spirava a Vienna negli anni di cui scrive, e in cui inserisce le sue considerazioni su Hugo von Hofmannstahl, poeta, drammaturgo, librettista d’opera, una delle personalità più poliedriche e affascinanti della cultura di lingua tedesca dell’epoca. Questo perché le considerazioni che Broch ci propone sull’artista sono per lui l’occasione per ricostruire lo scenario dell’Austria di quel periodo, del suo immediato passato, di quello che ne sarebbe stato il futuro – “apocalittico”, appunto – con la sconfitta in guerra e il crollo dell’Impero. Un periodo in cui – secondo Broch – erano già evidenti i segni di una crisi irreversibile, vissuto però con superba superficialità e gaiezza dalle classi dirigenti della capitale austroungarica.
Gruppi di fatto chiusi, al di là delle apparenze e dei comportamenti palesi, al nuovo e all’accoglienza: un’aristocrazia legata – abbarbicata – alla presenza e al controllo dell’apparato statale, diretta emissione del sovrano, a sua volta incarnazione dello “spirito”; una borghesia raffinata e desiderosa di un riconoscimento da parte della nobiltà – che però veniva a mancare; e poi i discendenti degli ebrei immigrati nel secolo precedente dalle province orientali, portatori di una cultura profonda e antica, che si erano affermati prima nel commercio e poi nelle “arti liberali”, e che costituivano la vera intelligentsia del paese, a parole integrati, nei fatti tenuti a distanza. Gli unici forse, sembra suggerire Broch, che sarebbero stati in grado di dare nuova linfa ad un impero in lenta agonia. Categoria cui appartenne lo stesso Broch, insieme a Robert Musil, Franz Kafka, Arnold Schönberg, Sigmund Freud e molti altri. E Hofmannstahl diventa l’esempio che lo scrittore propone come modello, con la sua scelta di inseguire nelle sue opere la purezza del mondo dei simboli, oltrepassando quello della mimesi immediata del reale.
Obiettivo peraltro perseguito dallo stesso Hermann Broch in Gli incolpevoli e nel fluviale La morte di Virgilio, con esiti per molti discutibili per gli obiettivi – estremamente ambiziosi – che lo scrittore si era posto: superare il romanzo, rappresentarne la morte (Mittner, 2002). Così, dato lo stile dello scrittore, un vero e proprio apocalittico ante litteram, vagheggiante un ritorno alla civiltà perseguibile solo attraverso il recupero dell’ordine gerarchico e sacrale del medioevo, anche lo scritto su Hofmannstahl e la “gaia apocalisse” viennese – a cavallo fra sociologia, filosofia della storia, estetica, finisce per assumere toni moralistici che non gli rendono il merito che comunque ha nel descrivere la società viennese della Finis Austriae.
Cosa che invece aveva fatto magistralmente, costruendo uno dei capolavori assoluti di tutta la cultura dell’Occidente, Robert Musil con L’uomo senza qualità.
Lo scenario in cui si svolge la vicenda di Ulrich Anders, “uomo senza qualità” e alter ego dell’eroe è lo stesso, ormai agli sgoccioli, descritto da Broch: il luogo in cui trova il suo esito la “gaia apocalisse” è quella “Azione parallela” messa su da una signora bene, moglie di un funzionario statale, che elegge il suo salotto a sede di un gruppo impegnato a organizzare il genetliaco di Francesco Giuseppe per celebrare l’Austria e la sacralità che rappresenta. Gruppo costituito da personalità dell’apparato statale, dell’esercito, dell’accademia, e almeno potenzialmente, di una pletora di associazioni, gruppi, organizzazioni impegnate nelle cause più futili o stravaganti. Naturalmente nella totale indifferenza della popolazione: rappresentanti di un’opinione pubblica, insomma, del tutto autoreferenziale e estranea alla comunità. Quella che il sulfureo Karl Kraus (l’avevamo dimenticato, colpevolmente) sbeffeggerà con diabolico sarcasmo e sistematica ferocia sulla sua rivista, Die Fackel, e nel suo interminabile dramma Gli ultimi giorni dell’umanità.
E che si impaluda nel nulla di fatto, naturalmente, sotto gli occhi di un Ulrich che osserva dall’esterno, disincantato e spassionato, la futilità del tutto, preso com’è a cercare di definire e salvare il suo Sé (Berger, 1992). La profonda, leggera ironia di Musil unita allo scorrere danubiano del suo raccontare rende perfettamente la latente catastrofe di cui parla Hermann Broch che forse cerca di mascherare col saggismo della sociologia la critica nostalgica ed emozionata nei confronti di coloro – gli aristocratici e i borghesi – cui di fatto attribuisce la colpa di non aver previsto il disastro incombente.
Hermann Broch non ha né l’ironia leggera, da valzer, di Musil, né la inviperita rabbia integralista di Kraus. Ha piuttosto la dolente tristezza di colui che vede morire il proprio mondo – un po’ come Franz Werfel o Stefan Zweig (altre imperdonabili dimenticanze…). E sceglie la strada del saggio, piuttosto che quella del romanzo. Almeno in questa occasione. In realtà, proprio all’inizio della sua carriera di scrittore, dopo aver lasciato il lavoro di ingegnere nell’industria del padre, aveva scritto I sonnambuli, un romanzo in tre parti ambientato in Germania che, nella forma del romanzo saggio, riusciva a rendere perfettamente il senso del crollo degli ideali e delle identità, di quello sfilacciarsi progressivo dell’etica moderna che un conservatore come lui non poteva non percepire se non come “dissoluzione dei valori”. Romanzo straordinario per la capacità di introspezione e di descrizione delle vicende di un periodo che copre trent’anni della storia europea, dal 1888 al 1918: la fine della guerra, i primi indizi virali del sorgere del nazismo; e della parabola dell’identità moderna: la progressiva eclisse del Sé moderno.
C’è una implicazione del lavoro di Broch da mettere in evidenza: tutti i grandi scrittori della Mitteleuropa di quel periodo, compreso lo steso Hermann Broch – in Austria, in Germania, in Svizzera, a Praga – erano, tranne qualche rara eccezione, di origine ebrea, uno dei ceppi più profondi, non sradicabili, secondo Gottfried Benn, della cultura europea (Benn, 1967, pp. 51-53). Ed erano perfettamente integrati culturalmente, affettivamente nella società di allora. E tutti si erano formati nelle due culture, quella scientifico-tecnica e quella umanistica. Per scegliere poi la strada dell’arte, piuttosto che quella della scienza per raccontare della crisi di una società e degli individui che la abitavano. Come se sentissero più forte di altri una crisi – quella del Beruf – che atteneva direttamente all’essere-nel-mondo prima di tutto con la propria professione, come diretta espressione di sé, della propria identità.
Identificazione che crolla con i processi di industrializzazione e specializzazione del lavoro: una “alienazione”, per dirla con Karl Marx, che non tocca solo l’operaio di linea, ma anche quell’imprenditore che si è sentito fino a poco prima tutt’uno con la sua intrapresa, e che si vede cedere il posto ad altri, per adeguarsi alla nuova complessità dell’organizzazione. Si sente separato dal suo lavoro, dalla sua impresa, che fino a poco prima era parte integrante del suo Sé. Con qualche rara eccezione. Una di queste eccezioni fu proprio Hugo von Hofmannstahl: una sorta di principino, un genio precoce, a detta di Broch, sin da piccolo dedito alla dimensione umanistica del sapere – ma sufficientemente sensibile da percepire i disastrosi mutamenti in atto. E per cercare, però, i modi e i contenuti per esprimerli nel mondo “spirituale”, del simbolico, tentando di abbandonare, nella sua ricerca, il mondo profano del reale, per provare ad accedere, attraverso la forma e i temi, ad un mondo esperibile solo attraverso l’arte. Provando ad esprimere la solitudine dell’uomo attraverso la solitudine del poeta – quella che sin da giovanissimo aveva vissuto personalmente.