di Amalia De Chiara
Fughe, accelerazioni, conflagrazioni, divagazioni, pause inusitate, tempi frammentati e poi ricomposti, un incedere marziale che tutto travolge fino a schiantarsi egli stesso, intrecci, sovrapposizioni, cadute a precipizio, sospensioni nel vuoto, pieni improvvisi: un moto pirotecnico che accenna, rimanda, a Frank Zappa, ai King Crimson (ma anche ai Gentle Giant), agli Art Bears, allude all’accademia, alla musica colta del Novecento, ribaltando tutto un attimo dopo. È
Iridule, ovvero, Yugen, atto terzo, o secondo, sarebbe meglio dire, oppure quarto, forse. I piani scivolano, i punti di riferimento sono incerti, le geometrie variabili; all’ombra dell’architettura musicale di Yugen anche i numeri, i confini, le linee di demarcazione sono apparenti, fuggevoli.
L’organico, ad esempio, non è facile a dirsi. Yugen è una formazione attualmente composta da sei musicisti: Paolo "Ske" Botta (tastiere), Maurizio Fasoli (pianoforte), Alberto Roveroni (batteria), Valerio Cipollone (sax e clarinetto), Francesco Zago (chitarra) e Matteo Lorito (basso elettrico). Sono in sei a presentarsi in concerto, ma in cinque nel nuovo disco; qui Lorito non compare e le parti di basso sono state affidate a Dave Willey e Guy Segers, due dei numerosi ospiti dell’album, ben quattordici, compresi i due bassisti. Willey arriva dai Thinking Plague come Elaine de Falco (voce), Mike Johnson (chitarra elettrica) e Dave Kerman (batteria), mentre Segers proviene dagli Univers Zero, e per chiudere con l’elenco dall’estero, c’è da segnalere anche Michele Epifani degli Areknames al clavicembalo. Nomi e strumenti che disegnano un luogo musicale di appartenenza e di partenza abbastanza chiaro. Siamo nel punto di convergenza di progressive con la musica da camera e quel Rock europeo che negli anni Settanta si autogestì In Opposition.
Anche nell’esordio discografico di Yugen nel 2006, Labirinto d’acqua (Vedi Quaderni d'Altri Tempi n. 10), la formazione base era integrata da un po’ di ospiti (alcuni tuttora nel giro, come Markus Stauss e Tommaso Leddi) e dei sei componenti attuali solo tre vi suonavano, Zago, Fasoli e Botta. Il collettivo targato Yugen quindi esordisce nel 2006 e rispunta nel 2008 con Yugen Plays Leddi – Uova fatali (vedi Quaderni d'Altri Tempi n. 18), ovvero la band esordisce come tribute band, oppure firma il suo secondo disco, sfumature che favoriscono lo sbriciolamento dei margini. Ecco quindi che Iridule si può intendere come secondo o terzo album della formazione, se ignoriamo l’uscita nel 2009 di Kurai (medesima la firma), un album che vede la presenza, sotto la sigla che in giapponese significa oscuro (vedi Quaderni d'Altri Tempi n. 22), di Zago (autore qui come in Labirinto d’acqua di quasi tutti i brani) e di Fasoli, oltre che dell’amico Stauss, nonché di alcuni campionamenti da Labirinto d’acqua e quasi tutte le foto del prezioso booklet scattate da Botta. Una frazione consistente di Yugen che, quindi, con Iridule, sono al terzo disco e mezzo, liberandosi dei numeri interi, così come fanno a meno dei tempi squadrati. In Kurai poi compare anche l’arpista Enrica Di Bastiano che ritroviamo in Iridule, così come Peter Schmidt (clarinetto basso e contrabbasso, tubax).
Riassumendo, Yugen procede cronologicamente come la mossa del cavallo e per rendersi ancora più inafferrabile semina in lungo e in largo una serie di suggestioni letterarie, suggerimenti per ipotetiche interpretazioni, orme, false piste, letture parallele, trasversali, risonanze poi depositatesi dentro un suono, in un frammento, nella scelta di un timbro, un gioco di specchi che smarrisce e appassiona al tempo stesso. Labirinto d’acqua conteneva un micro florilegio di testi di Gottfried Wilhelm von Leibniz, Jorge Louis Borges, Ludwig Wittgenstein, mentre Uova fatali oltre a riprendere il titolo del romanzo breve di Michail Bulgakov, incorpora nel booklet altre citazioni da autori come Carlo Emilio Gadda; Kurai, a sua volta, cita Mark Rothko, nella scaletta troviamo un brano intitolato Herbert Quain, presumibilmente lo stesso Quain la cui opera venne esaminata in Finzioni da Borges… mentre un altro dei brani si intitola Fuoco pallido, come il romanzo scritto da Vladimir Nabokov, noto ai più per essere l’autore di Lolita. Scelta singolare, Nabokov non capiva un acca di musica, come gli capitò di precisare: “Non ho orecchio per la musica … la mia cultura musicale è minima” (Nabokov, 1994, pag 54). Seppure, tenne a sottolineare: “Sono perfettamente consapevole dei molti paralleli tra le forme della musica e le forme della letteratura per quanto concerne la struttura” (ibidem).
Questa breve considerazione rende possibile congetturarne un legame sotterraneo con la riflessione di Francesco Zago/Yugen affidata ad un testo mai pubblicato. Zago si chiede: “ La musica ispira la letteratura? La letteratura si nutre di musica? Sicuramente entrambe le cose. Tuttavia il legame non è né necessario né sufficiente, quindi occasionale, e più o meno superficiale. Ma senza dubbio fecondo. Può trattarsi solo di una suggestione, di un istante cristallizzato che sta lì a dare forma alle parole o, viceversa, ai suoni. Come è noto (da Schopenhauer a Deleuze) la musica non si lascia esprimere dal linguaggio. Ma è pur vero che anche la parola spesso non dice, ma piuttosto nasconde e allude. Come il suono organizzato, anche le parole – il loro ritmo, colore, struttura – non si fermano alla superficie ma rimandano al di là di se stesse. Dicono altro. Forse è in questo continuo ribaltamento di prospettiva che sta la profondità del nesso tra musica e letteratura, forse è qui che emerge l’indefinibile ispirazione alla scrittura verbale o sonora”.
Ebbene, che cosa centra tutto questo con il nuovo disco di Yugen? Niente, quasi niente, non essendo un concept album, o almeno non c’entra niente in questa chiave. C’è un brano intitolato Iridule, così come il disco, si tratta di un brano cantato (da Elaine Di Falco), novità per Yugen, e il testo del brano è costituito dai versi 109-114 del poema Fuoco pallido:
l’iridula – quando mirabile e strana,
in un cielo lucente su una cresta montana
una piccola nuvola d’opale, di forma ovale,
riflette l’arcobaleno dopo un temporale
messo in scena in una valle lontana –,
giacché è raffinata la gabbia che ci è stata destinata
(Nabokov, 2002, pag. 34)
Quella di Fuoco pallido, è una vicenda misteriosa, che vede coinvolti John Shade, poeta e letterato statunitense, docente in un fantomatico Wordsmith College situato sulla costa occidentale degli Stati Uniti e Charles Kinbote di nazionalità zembliana, dunque immaginaria: i due (ma sono due?) protagonisti del romanzo. Il mistero in breve è questo. Fuoco pallido è costituito da quattro parti, una prefazione scritta da Kimbote, un poema (Fuoco pallido) in quattro canti e della lunghezza totale di 999 versi, scritto da Shade, un commento, la sezione più voluminosa e un indice che si devono entrambi a Kimbote. I due si sono conosciuti qualche mese prima l’inizio della stesura del poema da parte di Shade. Il commento di Kimbote al poema è in realtà la biografia del re di Zembla, stato situato grossomodo nel Nord Europa, dell’insurrezione che abbatte la monarchia, della fuga del re Charles II di Zembla, il suo esilio e l’inesorabile marcia di avvicinamento del goffo sicario Jakob Gradus che è stato incaricato di ucciderlo. Il mistero avvolge la lettura di Fuoco pallido, rendendo indecifrabile la paternità dei singoli testi e la personalità dei soggetti narrati e narranti. In uno scoppiettante gioco di specchi si rimbalza da Shade che potrebbe essere l’autore di tutto a Kimbote che potrebbe essersi inventato Shade e aver anche scritto il poema, ammesso che lui sia davvero il re di Zembla, come appare via via nel corso della narrazione; un monarca in clandestinità che coglie l’occasione di commentare il poema di Shade, “per fare controinformazione” si sarebbe detto una volta, raccontare la verità sui fatti di Zembla e del suo re sventurato. O piuttosto tutto è frutto di un mitomane e il romanzo nient’altro che il resoconto, quasi un poetico verbale di questo follia. Le ipotesi possibili non si fermano qui.
Nabokov dissemina trappole ovunque, a iniziare dal cognome Shade, ovvero Ombra. I versi del brano Iridule non sono l’unico passo estratto da Fuoco pallido, la De Falco canta anche in Ice, Thaw, Scribbled, e Serial(Ist) Killer. Cinque tracce su undici, le prime quattro sono delle miniature fatate, dove svaniscono le arcigne composizioni strumentali, o il limbo da cui queste scaturiscono, tutto è interpretabile, come si è detto, tutto è anche, si deve sottolineare, frutto di una scrittura solida e questo si impone da subito, al primo ascolto.
Yugen dissemina trappole ovunque, in Ice, con un attacco all’aroma di Gentle Giant, ci sono versi da Crossings di Seamus Heaney, mentre il booklet riporta anche citazioni da Edgar Allan Poe e Blaise Pascal. Depistaggi, ambiguità, rimandi. In Serial(Ist) Killer e Scribbled si annida un po' il codice poetico del disco: "...text but not texture..." sussurra la de Falco in Serial(Ist) Killer e "Life is a message scribbled in the dark. Anonymous" (in Scribbled). I testi sono di Nabokov, che in Fuoco Pallido annota: “Kimbote gioca a confondere e nel suo commento scrive: ‘Una nuvoletta iridescente’, muderperlwelk in zemblano. Credo che il termine ‘iridula’ sia un’invenzione di Shade” (Nabokov, 2002, pag.109).
Nell’ultimo brano, Cloudscape, tra i migliori dell’album insieme all’incantevole title track e Becchime, robusto tritato di acrobazie zappiane, staffilate rock e clangori in opposition, il suono si allontana a tempo di nuvola, scopre un testo segreto, l’inedito di Zago, che conclude così: “Forse la cosa migliore è che la musica e la letteratura non invadano troppo i rispettivi ambiti, limitandosi – non è il termine più adatto, non essendo affatto un limite, semmai una ricchezza – al gusto dell’allusione, del ricordo”.
Già, ma che cosa ci ricorda Iridule? Nabokov? No, e nessun altro degli autori citati. Bisogna far proprio il metodo Yugen, o nabokoviano (o borgesiano?), seguendo le rifrazioni del suono e quindi del senso, procedere per indizi, quelli forniti dalle immagini della copertina e del libretto accluso: pinza, tenaglia, attrezzi arrugginiti, trasfigurati dal tempo, cimeli di una civiltà meccanica sepolta. Emergono dal tempo come quelli che si intravvedono sul letto del corso d’acqua (l’acqua, il labirinto, Borges…) dove a un tratto si assopiscono i personaggi di Stalker (1979), il film di Andrej Tarkovskij grossomodo tratto dal racconto Picnic sul ciglio della strada di Arkadij e Boris Strugackij. Addentrarsi in libere associazioni, come esige la musica di alto profilo, come quella di Yugen, che non si adagia sulla contemporaneità, si addentra nello sconosciuto e lo esplora, tentenna, sbaglia, poi trova un percorso, poi si smarrisce di nuovo, è la ricerca, il suo procedere, oltrepassamento e anche la musica ha i suoi stalker, guide, come Yugen.