di Livio Santoro
C’è stato un tempo in cui abbiamo agitato vorticosamente la testa seguendo il
mood irrequieto della chitarra di Toni Iommi, un tempo in cui abbiamo intonato con aspra sicurezza e rabbia le parole contemporaneamente graffiate dalla voce di Ozzy Osbourne, un tempo in cui portavamo il ritmo con il piede sulle bacchette di Bill Ward, un tempo in cui le palpitazioni del nostro cuore avevano le stesse battute del basso di Greezer Butler. Allora, nella maggior parte dei casi, tutto questo era accompagnato da una cappa di costante oscurità esistenziale, da sbronze interminabili, da lividi e contusioni dappertutto (i più arditi contano ancora i calli ossei di numerose fratture in tutto il proprio corpo) e da una specie di irriproducibile disprezzo egocentrico nei confronti del mondo intero: senza alcuna distinzione. Con le nostre donne, o con i nostri uomini, intrattenevamo storie d’amore eternamente sospese, spesso mai cominciate o inconsapevolmente nascoste nella necessità di quel disagio un poco metropolitano e un poco ancestrale che doveva assolutamente appartenere alla nostra anima: mescolavamo Ossian, George Romero, Samuel Taylor Coleridge e i
Guerrieri della Notte con una facilità così immediata ed estrema da far sembrare questo genere di accostamenti una cosa naturale. In quel periodo camminavamo per le strade notturne, o per lo più barcollavamo, con le scarpe e l’orlo dei pantaloni sporchi di piscio e di vomito, con i capelli attaccati alla fronte da un copioso sudore acidulo; e ci svegliavamo nel primo pomeriggio con la testa schiacciata in una pressa, dentro l’anta del comodino una bottiglia mezza vuota di whiskey da quattro soldi, e le vertebre cervicali ancora rapprese in un’agitazione centripeta che nonostante tutto non intendeva cessare.
Certo, non tutti hanno passato qualche anno della propria adolescenza (o post-adolescenza) in queste condizioni. Ma quelli che l’hanno fatto, attraverso le diverse generazioni degli ultimi quarant’anni, sanno di cosa si sta parlando. Molti di questi, da un pezzo non più adolescenti, seguitano nel vestire un’irriducibile e anacronistica immagine, facendo spesso i conti con un corpo che dà segni di cedimento un giorno sì e l’altro pure; altri, quelli che credono di essere guariti dall’anima nera, capita sovente che spendano un bel po’ di nostalgia ripensando ai tempi del passato, quando una cosa tanto più era stupida e sporca, ingiustificata e repellente, tanto più andava fatta, ripetuta e sostenuta, con la testardaggine inamovibile e ingiustificata di uno di quegli stupidi picchi di legno da scrivania.
Entrambi gli appartenenti alle due categorie appena descritte sono d’accordo su un’affermazione primordiale: i Black Sabbath c’hanno cresciuto, questo è fuori di dubbio. Hanno cresciuto un genere, diverse generazioni, e hanno generato (insieme a pochi altri) un modo di gestire il quotidiano con la totalità di un grandioso e sordido stile di vita che, nonostante lo scorrere degli anni e dei decenni, resiste uguale a se stesso, al di là delle mode temporanee e passeggere, così che un metallaro (come generalmente e spesso spregiativamente, riduttivamente o forse solo convenzionalmente viene definito ogni apostolo dell’heavy metal) degli anni Settanta sembra decisamente molto simile ad uno dei giorni nostri. Ed in effetti l’heavy metal sembra essere il genere musicale che più di altri, tra quelli che rappresentano e nutrono le cosiddette sottoculture, ha mantenuto intatta la sua sfera d’influenza, rendendosi sempre attuale grazie alla sua primigenia e costituzionale inattualità. Perché l’heavy metal, prima ancora di essere un genere musicale, è uno stile di vita pieno, intessuto nella solitudine e nell’aria sordida di chi non vuole, in alcun modo, relazionarsi agli altri. Si prendano a caso alcuni versi da un paio di canzoni dei Black Sabbath, i neri monaci di Birmingham.
La prima, l’eterna general-track (è concesso questo neologismo?) programmaticamente intitolata Paranoid (1970), è il manifesto dell’impossibilità di ogni testardo seguace dell’heavy metal di abitare tranquillamente nel mondo in mezzo agli altri, dove la colpa di questa impossibilità, inizialmente, ce l’hanno esattamente proprio tutti gli altri:
Finished with my woman ‘cause she couldn’t help me with my mind
People think I’m insane because I am frowning all the time
All day long I think of things but nothing seems to satisfy
Think I’ll lose my mind if I don’t find something to pacify
Can you help me?
Occupy my brain?
Oh, yeah I need someone to show me the things in life that I can’t find
I can’t see the things that make true happiness, I must be blind.
La seconda, quella Changes (1972) che sarebbe venuta pochissimo tempo più tardi, racconta della definitiva resa di un’anima irrequieta, inadeguata e poco avvezza allo spreco dei superlativi dell’amore e dei bei sentimenti delicati. Ognuno di quelli che appartiene a questa way of life, nel suo passato fatto di stereotipi inevitabili come gli abiti neri, i capelli lunghi e il lerciume esistenziale avrà pensato e ripensato, con una specie di monastica gratitudine nei confronti di un dio antracite: potrei essere allegro, felice, basterebbe veramente poco, ma perché mai dovrei farlo? D’altronde mi sento veramente a mio agio rimestandomi nella mia stessa merda! I Black Sabbath hanno dato vita e coraggio a milioni di persone stupidamente irriducibili, testardamente determinate, rinchiuse in un autismo meravigliosamente ego-centrato fatto di sentimenti lugubri e di disperazione inevitabile. E in questo quadro, come abbiamo già detto, l’amore non era che un accessorio, o forse sarebbe meglio dire uno strumento, dell’inadeguatezza sociale:
I feel unhappy
I feel so sad
I lost the best friend
That I ever had
She was my woman
I loved her so
But it’s too late now
I’ve let her go.
Eravamo (e siamo) così, abitanti di una generazione vastissima che ha attraversato le generazioni. Abitanti di una generazione che resiste crogiolandosi nelle totalità del nero e delle nubi basse, nelle tonalità paludose della decomposizione.
E quando avremo dei figli (per chi non li ha già avuti, naturalmente)? Come faremo a spiegare loro tutto questo? Come faremo a imporre loro quella necessaria distanza generazionale che i padri devono giocoforza costruire? Come faremo a raccontare loro che papà e mamma si conobbero in una sera d’inverno, nella calca che precedeva l’apertura dei cancelli d’un concerto, scivolando su una miscela fatta di pasta e fagioli e di vino scadente vomitata sull’asfalto dall’uno o dall’altra? Come faremo a spiegare loro che quelle cicatrici, quelle bruciature e quelle abrasioni sulla pelle hanno avuto, in un modo o nell’altro, un senso ben preciso? Come faremo a raccontare loro di quei grotteschi tentativi di occultismo in cui il divano del salotto prendeva fuoco dopo che barcollando facevamo rovesciare delle lampade a olio decisamente anacronistiche, venduteci per troppi soldi da un rigattiere che ben sapeva fare il mercante sulla pelle di sprovveduti ragazzini buffi?
Magari potremo cominciare fin da subito, con i bimbi appena nati. E un disco dal titolo Lullaby Renditions of Black Sabbath potrebbe essere un buon inizio. Qui, tredici tracce di Ozzy e compagni rivivono con la dolcezza degli orsacchiotti, attraverso la delicatezza delle campanelle e degli xilofoni. Approfittando di tutto questo, canzoni come Paranoid in principio servirebbero a dare il sonno a nostri figli: irrequieti neonati che non vogliono dormire, irrequieti come un tempo i genitori. Ma le stesse canzoni, in un modo o nell’altro, pochi anni più tardi potrebbero eruttare da qualche anfratto della memoria di quei figli non più bimbi, e darci la possibilità di non dover raccontare nulla a loro, già saprebbero, già esperirebbero attraverso l’anima dell’heavy metal instillata con fraudolenza nelle loro piccole orecchie di esserini glabri e rosati.
Ecco l’utilità di una raccolta apparentemente bizzarra: nel progetto discografico di Lullaby Renditions of Black Sabbath si prova a colmare un divario, si prova ad adeguare un mood lugubre alle atmosfere da culla, trasformando tracce come Iron Man, War Pigs e Children Of The Grave, in delicate ninnananne, per non dover poi dire nulla sul nostro passato ai nostri figli, o forse perché magari anche noi genitori, senza più quella furia da headbangers adolescenti, ci si possa addormentare tranquilli con le nostre vecchie canzoni.