di Daniela Fabro
Per non dimenticare che fino a pochissimo tempo fa i malati, e in quanto tali bisognosi di cure, mentali, venivano segregati, e si buttava via la chiave, anzi la si teneva ben stretta: era il segno del comando. E per tenere bene a mente che l’istituzione – come la intendeva Franco Basaglia: gerarchica, spersonalizzante, totalizzante, antilibertaria, costrittiva, impositiva, che si attua anche nelle caserme, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle prigioni, nei lager – oggi non è incarnata solo dalle multinazionali farmaceutiche con le loro pillole “camicie di forza dell’anima”, ma anche da coloro che equivocano sul significato del termine follia e credono che, di fronte al disagio quotidiano, tutto si risolva con un “siamo tutti matti” o “i matti siamo noi”. Un equivoco pericoloso perché ha anche il torto di farci perdere di vista che l’unico modo di intendere, e perciò curare, alleviare il disagio, e predisporre a un minimo di vita sociale persone svantaggiate dalla natura – e, naturalmente, anche dall’ambiente in cui vivono e sono cresciute – è abbandonare ogni smisurata volontà di profitto, ma anche ogni ideologia. Il
Diario, gli appunti, il promemoria sul quale Ascanio Celestini ha costruito il film con cui ha esordito nel cinema al festival di Venezia,
La pecora nera – racconto evocativo delle storie dell’ospedale psichiatrico romano di Santa Maria della Pietà a Roma, nell’arco dei trent’anni che vanno dal 1975 al 2005 – annotando i punti salienti delle centinaia di interviste condotte sul campo (senza sentire i medici, che, quando non incompetenti, sono consapevoli e perciò ideologici), si apre sulla critica della società dei consumi, secondo il format di una narrazione compassionevole ma irridente, come è tipico di questo autore prima di tutto di monologhi teatrali ironici e sofferti sul mondo degli esclusi.
Ma Celestini viaggia anni luce lontano da ogni retorica; fare un film di denuncia su come venivano trattati i pazienti psichiatrici prima dell’apertura (o chiusura) dei manicomi, e raccontare la “poesia” di quella che non è una condizione soltanto di disagio sociale – come teorizzava in parte l’antipsichiatria degli anni Settanta – né una malattia dell’anima o una maledizione divina, ma, come si è capito col tempo, una vera e propria disfunzione di tipo organico e fisiologico su cui si innestano le risposte sbagliate del cervello agli stimoli esterni, che spesso lo sovraccaricano, sono due cose che non interessano l’autore delle più belle controstorie del nostro Paese.
Ed è proprio per questo che Celestini è molto abile nel tradurre quella che per molti è solo l’esemplificazione della perversione della spirale dei consumi (vedi nel film la spesa al supermercato con la suora, l’unica ora d’aria dei protagonisti), nel necessario prologo alla narrazione di come l’imperativo a circondarsi di merci ha trasformato i matti dagli agitati da contenere nei manicomi ante “Legge 180” in addomesticati acquirenti di psicofarmaci. Naturalmente non è tutto qui, ma il fatto che il regista abbia scelto di raccontare la vita dei matti in ospedale dal punto di vista dell’esperienza di un ragazzino, Alberto, entrato in manicomio per una serie di disavventure – tipiche della condizione degli emarginati e dei poveri degli anni Sessanta (e “i favolosi anni Sessanta” è un refrain della voce narrante di Celestini fuoricampo) – e al quale si affida la cura di un paziente, Nicola, che sarà per tutto il film il suo alter ego, salvo scoprire alla fine che sono la stessa persona, è il miglior manifesto del suo desiderio di capire e interpretare la società in cui viviamo – e il modo in cui essa tratta chi ne è ai margini perché non è capace di produrre profitto – non solo contro ogni pregiudizio ma anche al di là di ogni verità di comodo come quelle dei cattolici finto-solidali o dei progressisti alla moda già disprezzati da Giacomo Leopardi.
Nel libro la storia, tratta dalla realtà, è un po’ diversa: si tratta di un ex tipografo che ha abbandonato gli studi per non pesare sulla famiglia, ed è diventato infermiere per vocazione, venendo poi assegnato contro la sua volontà al reparto dei criminali psichiatrici, e del suo paziente, internato dopo essere rimasto orfano di una madre a sua volta già internata e trattata con l’elettroshock. La storia della madre, appena accennata in un paio di inquadrature, vive anche nel film: un minimo di giustificazione alla diagnosi di malattia mentale fatta dai medici al figlio deve pur esserci. Ma, da Cesare Lombroso alle circolari dei prefetti dell’epoca del governo Giolitti – primi del Novecento – i matti si identificano solo in base a etichette precise: devianti nei tratti del corpo o dell’anima, semplicemente deformi nei lineamenti o asociali in base a una normalità definita dalle esigenze della pubblica sicurezza, a sua volta decisa dalle leggi di uno Stato che doveva assicurare la disponibilità di forza lavoro al mercato dei capitali. Oggi che lo Stato ha invece il compito di assicurare le condizioni di accesso al credito dei consumatori, perché più che produrre l’individuo deve comprare, il matto è colui che non capisce le regole con cui si riempiono di merce gli scaffali e non se ne fa sedurre in modo ordinato e con desideri di consumo crescenti.
Che i matti, più o meno agitati, siano da calmare nel loro stesso interesse è fuor di dubbio. Il problema, magistralmente messo in luce dal film di Celestini, è che non si è ancora capito come. È dai tempi dello sconsiderato uso dell’elettricità applicata con gli elettrodi alle tempie, anche di adolescenti, e anche di quelli non particolarmente inquieti, che la strada verso il raggiungimento di quel minimo di tranquillità che permetta a chi ha superato i livelli dell’ansia e dello stress di tornare a dormire e a riprendere funzioni vitali e psichiche entro i limiti della cosiddetta “normalità”, è costellata di fallimenti più o meno visibili e conclamati. Tra gli altri, anche lo psicoterapeuta Lucio Della Seta, uno dei luminari italiani nel campo, sta denunciando (in un suo libro di prossima uscita) la sostanziale inutilità, per esempio, della terapia della parola: in trent’anni di pratica psicanalitica, ha detto di essere riuscito a curare il “pensiero della paura”, da cui la malattia mentale sembra avere origine, solo due volte. Adesso tutta l’attenzione è rivolta agli psicofarmaci. Le case farmaceutiche ne promettono di sempre più moderni ed efficaci. Perché sarebbero le esagerate risposte a stimoli esterni minacciosi che partono dall’apparato corporeo, e non dalla psiche, ad essere responsabili degli attacchi di ansia e di panico. Da sedare quindi con tranquillanti mirati. Peccato però che lo stato di trance del cervello prolungata anche negli anni in cui versano i malati dopo queste cure, soprattutto gli ospedalizzati, ma anche gli altri, e che costituisce uno dei maggiori handicap psichici, sia iatrogeno, e cioè provocato dalla cura stessa.
Un circolo vizioso che il protagonista schizofrenico de La pecora nera, sdoppiato nei due personaggi principali del film, il “quasi” normale Celestini e il malato conclamato interpretato da Giorgio Tirabassi, cerca di spezzare con il ricordo (il film è tutto costruito sui flashback della sua vita da ragazzino) delle donne che ha conosciuto: la “marziana”, che lecca i terrestri per sapere se sono buoni, oggetto dei desideri dei suoi fratelli più grandi e che deciderà, con una vicenda tragica, di cui entrambi sono protagonisti, il suo destino di internato; e la ragazzina dei suoi sogni, che rincontrerà da grande (l’attrice Maya Sansa), quando vive ormai stabilmente da trent’anni al manicomio, al supermercato dove va a fare la spesa per l’ospedale con la suora (è lei che tiene i cordoni della borsa). E soprattutto cercherà di spezzare con il (vano) tentativo di avvicinarsi a lei e forse anche di sedurla. Ma questo non perché l’amore sia la panacea di tutti i mali (compresa la follia), quanto per sottolineare come l’accesso ad un minimo di vita sociale (avere la fidanzata) sia impossibile da parte di chi non può consumare secondo le regole dell’economia del mercato capitalistico (la parodia dell’orgia consumistica in cui si tufferà Celestini al colmo della sua disperazione, strappando vaschette di prosciutto crudo preaffettato, e di molti altri generi alimentari, e ingurgitandoli in un solo boccone, per poi vomitarli sul pavimento di fronte agli altri clienti inorriditi, è sintomatica di quanti bisogni, anche inutili, ci vengano indotti dall’industria e dalla pubblicità).
Il parallelo tra la storia di trent’anni di ospedale psichiatrico con le teorie di un sociologo come Zygmunt Bauman sul passaggio da un’economia basata sulla produzione, che mette ai margini la forza lavoro non adeguata (il Celestini bambino, negli anni Sessanta, seduto all’ultimo banco perché figlio di una famiglia povera, non sarà alla fine bocciato solo perché la nonna omaggia la maestra con le uova delle sue galline) ad un’economia basata sul soggetto consumatore, riconosciuto socialmente solo a misura del suo potere d’acquisto (il folle Tirabassi vorrebbe comprare per la suora biscotti per cani e unicamente prodotti in promozione), è evidente. Lo Stato, che ha il “solo” compito di assicurare al mercato le condizioni perché quelli che una volta si pensavano cittadini siano invece ammaestrati consumatori, meglio se dalle elevate capacità di spendere, soprattutto a credito, così ci guadagna più di tutti la finanza, continua a chiudere dietro i cancelli (salvo poi riaprirli per chi i medici decidono adatto a consumare psicofarmaci anche senza diretto controllo) degli ospedali psichiatrici, che sopravvivono nei piccoli reparti di alcuni nosocomi, chi cerca di sfuggire a questa sorte. E butta ancora via la chiave.
“Come ti ho fatto ti disfo, pio, pio, pio.”
“I cancelli servono a proteggere il manicomio, il manicomio serve a proteggere i matti, ma i matti, a cosa servono?”
“Nel manicomio ci sono 100 cancelli chiusi a chiave. Un giorno due matti decidono di scappare. Scavalcano il primo cancello, poi il secondo, poi il terzo… Arrivati al novantanovesimo si dicono: Adesso basta, siamo stanchi, torniamo indietro, riproveremo domani”.
“Se metti in ordine, poi ritrovi tutto. I matti non hanno ordine. Non hanno orari in testa”.
“È importante avere orari. Sono le 9. Le 9 e 30. Le 10. Le 10 e 25, e 10 e 35, le 10 e 49, le 10 e 59, le 59 e 59…”
(Questo, oltre all’intero racconto della storia, nella voce fuori campo di Ascanio Celestini, che più che filmare per ritrarre una realtà precisa, ha cercato di evocare quello che l’ospedale psichiatrico significa nella testa del protagonista).