di Adolfo Fattori
Dopo Il sangue è randagio (2010), ultimo mattone (per ora?) della sua riscrittura della storia oscura degli Stati Uniti dell’ultimo mezzo secolo dopo lo straordinario
American Tabloid (1995) e il successivo Sei pezzi da mille (2001), James Ellroy torna ai suoi inner space e alla loro esplorazione.
Caccia alle donne (The Hilliker Curse, 2010) è il seguito virtuale di I miei luoghi oscuri (1997), il primo capitolo, più “esterno”, della sua autobiografia.
Anche se i temi trattati sono in parte gli stessi (l’omicidio mai risolto della madre, le sue ossessioni, il randagismo, l’abuso di sostanze) in quest’ultima fatica (e il termine non è scelto a caso) emerge – come in un “punto omega” terapeutico – il nodo profondo, radicale, nucleare della sua sofferenza: la maledizione che rivolse alla madre, Geneva “Jean”, Hilliker tre mesi prima che costei venisse assassinata.
L’ingrediente perfetto perché, combinato con una madre bella e semialcolizzata, un padre senza lavoro fisso gravitante alla periferia del cinema, gli antenati luterani, e a far da sfondo la mitica Los Angeles, ne venisse fuori un bambino, poi un ragazzo, poi un adolescente disturbato e marginale, ossessivo e maniacale nelle sue passioni. E un adulto che è diventato uno dei più grandi scrittori di romanzi polizieschi della seconda metà del Novecento. È (quasi) come se il mistero fondativo della sua biografia, della narrazione che organizza di se stesso – l’uccisione della madre – si riverberi e si replichi in tutti gli enigmi che fanno da ordito alle sue trame: che siano storie dichiaratamente “inventate”, come nella “quadrilogia” di Los Angeles composta da Dalia nera (1989), Il grande nulla (1990), L.A. Confidential (1990) e White Jazz (1992), o siano la riscrittura (romanzata?) a metà fra immaginazione narrativa e delirio complottista della trilogia che abbiamo citato in apertura.
Il mistero della corruzione e della morte che si cela dietro le porte delle linde villette suburbane – o degli uffici governativi, se è per questo – che assume quasi dimensioni metafisiche, trascendenti, ineffabili, anche se si riduce alla violenza profana e banale sugli uomini e sulle donne. Mistero che gli investigatori di Ellroy scandagliano implacabili – deliranti, sofferenti, intransigenti come lui nella loro ossessione per la ricerca della verità – una verità che, come è immaginabile, è fungibile e claudicante, incerta e mutevole. Come in Dalia nera, da cui Brian De Palma ha tratto uno sfortunato film (2006), ispirato al caso vero del feroce omicidio avvenuto all’inizio del 1947 di una giovane e bella, naturalmente, provinciale sbarcata a Hollywood nella speranza di far carriera nel cinema, che si istituisce nella fantasia dello scrittore come legame invisibile con l’omicidio della madre.
O come in L. A. Confidential, in cui un gruppo di ragazze somiglianti a stelle del cinema si prestano ad accentuare al massimo questa somiglianza per soddisfare i desideri di certi personaggi più o meno altolocati.
Il cinema, Hollywood, il “sogno americano”, le strade di Los Angeles sono messi in scena perché si possa guardare dietro le quinte sfavillanti e ingannevoli della realtà apparente, per scrutarne i luoghi – appunto – più oscuri e impenetrabili, i retroscena più sordidi e morbosi – o semplicemente più squallidi: un’America di pregiudizi contro i messicani, i neri, naturalmente gli omosessuali, in cui la polizia spesso è brutale e violenta, le autorità interessate solo all’apparenza e all’immagine – e alla lotta contro il complotto “rosso”.
A Los Angeles, uno dei fuochi di quella grande ellisse che è “l’America”, insieme a New York, fiction e realtà si confondono continuamente: la “città degli angeli caduti” è un set metropolitano e naturale dispiegato a chiunque voglia farne lo scenario dei suoi sogni e dei suoi incubi. Lo sfondo per telefilm, pellicole, romanzi che vivono di quella dimensione mai definitivamente fissata di una città in continuo cambiamento, dai confini sempre indecidibili.
Basta rivedere – per rimanere a tempi recenti – Velluto Blu o Mulholland Drive di David Lynch, o leggere i volumi che l’architetto Mike Davis (1999a; 1999b) le ha dedicato. O anche rileggere le riflessioni di Fredric Jameson (2007): una città sempre sul crinale dell’immaginario. E di cui James Ellroy coglie l’anima profonda, da quel maniacale scout che ne è stato in gioventù, quando, morta la madre, abbandonato da un padre assente, ne batteva di notte le strade per introdursi nelle villette dove abitavano le ragazze che incrociava di giorno, e cercare di ca(r)pirne il mistero. E in cui i detective di James Ellroy sono perennemente sul filo di un rasoio: quello di cedere al contagio di una città in cui per le strade non c’è innocenza (1993), o di tenersi aggrappati il più forte possibile ad una dimensione etica che rischia continuamente di sfociare nell’arbitrio, nella disperazione, nella morte.
Come, ancora in Dalia nera, la ricerca di un qualsiasi colpevole porta il responsabile delle indagini a giocare carte false, quasi un emulo di Hank Quinlan, il protagonista di A Touch of Evil di Orson Welles (1958) canto del cigno del film noir e ideale prototipo dei romanzi di Ellroy, insieme ai capolavori hard boiled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler.
Ecco, i suoi investigatori hanno lo stesso spirito: penetrare oltre la membrana dell’apparenza, pretendere di accedere all’esposizione della realtà vera, quella che si nasconde nel profondo, mossi da un intento a metà fra un’etica ferrea, intransigente, e una presunzione prometeica e destinata a non essere mai veramente soddisfatta.
Battere strade, raccogliere indizi, interrogare testimoni, tornare sui luoghi, esplorare il terreno, indagare, indagare, indagare: questa la regola dei detective di James Ellroy, ossessivamente, ripetutamente, alla ricerca di uno straccio di prova che possa indicare la direzione da prendere, nutrendosi di amfetamine, benzedrine e alcol.
Non facendo altro che replicare il lavoro di scavo, ricerca, esplorazione che lo scrittore morbosamente svolgeva da giovane – e che, a leggere Caccia alle donne ha continuato a condurre per tutta la sua vita, alla ricerca di Lei, l’unica, la sola donna che può concludere questa ricerca, a parziale compensazione, forse, della perdita subita da bambino, e di cui sente ancora il rimorso, convinto ancora, infantilmente, nel profondo, di esserne stato con la sua maledizione il responsabile designato dal fato.
Sicché il debito che lo scrittore sente nei confronti della madre si riverbera, si riflette nel dovere che i suoi poliziotti sentono verso i morti di morte violenta, verso le ragazze brutalizzate, verso tutte le vittime della criminalità. Un riflesso – distorto, forse, o meglio iperbolizzato – della morale protestante dei suoi avi, che lui non smette di ricordare, accompagnato dalla consapevolezza dell’inanità degli sforzi nella battaglia contro l’oscurità – l’oscurità di una fede antica, quella di Lutero, che però ormai mostra la corda, non offre nessun conforto.
All’altro polo del suo lavoro, l’opera sempre di scavo – fra la storia e l’immaginazione – nelle piaghe nascoste dell’America del dopoguerra, quella della “guerra fredda”, dei complotti della CIA e dell’FBI di J. Edgar Hoover, degli intrallazzi con la mafia e i trafficanti di stupefacenti per combattere i “comunisti”, delle “liste nere” e delle provocazioni contro gli scioperanti, e di una Hollywood dove oltre ai film le attrici, anche quelle ormai famose, non disdegnavano di arrotondare con qualche prestazione off a mafiosi e rappresentanti della legge, fra droga, pornografia, omicidio.
Fino alla rottura definitiva dell’illusione americana: la Dealey Plaza di Dallas, il 22 novembre del 1963, il set in cui viene messo in scena l’omicidio di John Kennedy e del sogno della “nuova frontiera”, imbastito da – solo nella finzione narrativa? – aderenti alla “fratellanza ariana”, mafiosi, faccendieri e uomini dei servizi. Uno dei momenti cruciali della nostra epoca, non tanto, magari, per le conseguenze concrete, ma per l’impatto che avrà nell’immaginario collettivo, come è celebrato – in un ideale richiamo – da James G. Ballard in uno dei suoi racconti più freddamente vertiginosi, L'assassinio di John Fitzgerald Kennedy considerato come una corsa automobilistica in discesa (1991). Tutto illustrato non raccontando le decisioni prese ai piani alti dei palazzi del potere, nelle “stanze dei bottoni”, attraverso mezze frasi sussurrate garbatamente, ma, più realisticamente, attraverso i maneggi, i dossieraggi, le manipolazioni, le provocazioni della bassa manovalanza di “legge e ordine”, e di “to serve and to protect”.
Un’America che è uscita dall’illusoria “età dell’oro” degli anni Cinquanta, e che affronterà il Vietnam, il Watergate, Mi Lai, e la deriva delle anime e dei valori, raccontata da uno dei grandi narratori della postmodernità, un altro celebrante al funerale del romanzo moderno, alle esequie del poliziesco tradizionale.