di Roberto Paura
Non siamo mai andati sulla Luna: una leggenda metropolitana che ogni tanto si sente in giro, in spregio a migliaia di prove che dimostrano il contrario. Non siamo mai andati su Marte: una verità che nel 2010 ci imbarazza e che cerchiamo di dimenticare attraverso tanti film che simulano il nostro futuro primo contatto con il Pianeta Rosso (i più recenti:
Mission to Mars, Pianeta Rosso, Fantasmi da Marte). E se a un certo punto il film diventasse la realtà, e la simulazione prendesse il sopravvento? Un tema di stringente attualità che viene però dritto dritto dalla visionarietà di Philip K. Dick e da un film che ha fatto scuola, il magistrale
Capricorn One di Peter Hyams del 1978. La missione su Marte, un fallimento fin dall’inizio; la soluzione? Simularla all’interno di un grande set cinematografico con qualche effetto speciale e un po’ di fantasia, per salvare l’orgoglio a stelle e strisce. Quando
Capricorn One uscì nei cinema, la corsa allo spazio era già finita da qualche anno: l’ultima missione Apollo, la n. 17, si svolse nel dicembre 1972, tra l’indifferenza generale. Da allora, nessun uomo ha più toccato la grigia superficie lunare né ha superato il confine dell’orbita terrestre.
L’Unione sovietica aveva subìto lo smacco del programma Apollo senza mai riuscire a replicare, né tantomeno a provare. La competizione si spostò su piani meno clamorosi, ma più concreti, principalmente sul problema della vivibilità umana nello spazio, con i primi progetti di stazioni spaziali: lo Skylab americano, che durò per buona parte degli anni Settanta, e la Mir sovietica, di gran lunga superiore in complessità e durata (dieci anni di costruzione, dal 1986 al 1996, per venire poi ‘suicidata’ nell’atmosfera nel 2001). Le missioni spaziali alla Space Cowboys, come s’intitolava un mediocre film di Clint Eastwood del 2000, avevano ceduto il passo alla monotonia dei lanci degli Space Shuttle, gioielli della tecnologia incapaci di farci tornare a sognare. Fatta eccezione per i primi successi e per i due tragici incidenti del Challenger (1986) e del Columbia (2003), le luci della ribalta si spensero presto sugli Shuttle, fino all’ingloriosa chiusura del programma prevista per il 2011. Eppure, l’Uomo è riuscito in questi anni a proseguire la sua corsa verso le stelle e a giungere “là dove nessuno è mai giunto prima” attraverso le proprie appendici meccaniche: satelliti e robot. Le sonde Pioneer e Voyager hanno superato i confini estremi del Sistema Solare, lanciandosi negli sconfinati vuoti cosmici che separano le stelle della galassia; sofisticati robot telecomandati sono atterrati su Marte, fin su Titano, la misteriosa luna di Saturno dove gli oceani di metano potrebbero nascondere impensabili forme di vita. L’Uomo, silenziosamente, si è visto sottrarre il compito di esplorare l’universo, da lui assegnato alle macchine al suo servizio. Una “rivoluzione” che non ha sorpreso nessuno, ma che per la prima volta ha dato ragione agli scrittori di fantascienza che preconizzavano la superiorità delle macchina sull’uomo nei più ardui compiti che il futuro ci avrebbe assegnato. Siamo ormai arrivati, per parafrasare Walter Benjamin, all’essere umano nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Il coraggioso film di Duncan Jones, Moon, uscito nel 2009 e quasi ignorato dalla grande industria dei blockbuster, porta alle estreme conseguenze questo assunto. L’uomo non è più indispensabile: Sam Bell (interpretato dal multiforme Sam Rockwell) è il supervisore unico della base lunare di estrazione dell’Elio-3, con un contratto triennale. Ad assisterlo, ovviamente, un robot: GERTY, versione “buona” di Hal9000, è in realtà capace di occuparsi di tutto, dal monitoraggio delle operazioni di estrazione ai contatti con la dirigenza sulla Terra fino all’assistenza psico-fisica del suo buon amico e padrone. A che serve un uomo in una base come questa, dove tutto è automatizzato, fino al vertice estremo, quello della “testa pensante”? A niente. Oggi noi umani, in fin dei conti, serviamo ancora: le nostre sonde, telescopi e robot non sono più sofisticati dei computer che utilizziamo a casa, non possiedono un’intelligenza propria e non sono capaci di sopravvivere senza che le direttive vengano inviate dal “comando” terrestre: il cervello, insomma, è ancora umano; quel che lanciamo nello spazio non è altro che un’appendice meccanica, una mano, un braccio o un occhio fatto di transistor o microchip. In Moon anche quest’ultima e quasi invalicabile barriera viene infine abbattuta. Sam è umano, sì, ma fino a un certo punto. Come ogni pezzo della base, è anch’egli facilmente sostituibile. Il suo tasso di sostituibilità è quasi uguale a quello dei nostri comuni prodotti tecnologici di cui l’industria ci impone il continuo ricambio: un cellulare ogni due anni, un computer ogni quattro, un’automobile ogni otto; perché non un essere umano ogni tre?
Come annota il filosofo Carlo Sini: “Automa: ciò che si muove da sé (…), oppure ciò che sembra muoversi da sé, ma che in realtà si muove per la volontà o la spinta di un altro? L’autonomia dell’automa sarebbe allora mera simulazione” (Sini, 2009, p. 41). Qui sta il punto. I mille cloni di Sam sono automi o protesi, come i robot che mandiamo sulla superficie di Marte? Sembrerebbero avere una propria coscienza, propri ricordi e proprie volontà; ma se in realtà sono perfettamente sostituibili l’uno all’altro, se basta un computer (GERTY) per far andare avanti una stazione, e l’essere umano – o meglio il suo surrogato – perde perfino il comando di ultima istanza, allora non è anch’egli una protesi? Il messaggio che Jones cerca di far passare attraverso Moon è proprio questo. Per gli spettatori meno attenti, si riassume nell’icastica frase di Sam: “Noi non siamo programmi, siamo persone”. Diciamo che è tutto da dimostrare. Riprendendo Sini: “Sebbene provenga dal mondo e non sia altro che il mondo, il corpo, agendo, discrimina dal mondo lo strumento (…) rispetto al fine dell’azione. Fa ciò a partire dal suo stesso corpo, raddoppiato in mezzo e strumento: le mani per afferrare, i piedi per camminare, gli occhi per guardare… È così che il corpo in azione scopre di disporne, di ‘averli’, sebbene sia ancora lontano dal ‘saperli’. Li usa appunto, ma non li sa. Il corpo in azione, potremmo concludere, fa di se stesso una ‘protesi’” (Ivi, p. 43).
Ma veniamo al presente, o meglio alla realtà. Il 3 giugno 2010 è partita la fase finale di MARS-500, l’ambizioso programma voluto dall’ESA e condotto dai russi per portare infine l’uomo su Marte. La nave è partita, la missione durerà 520 giorni tra viaggio d’andata, permanenza sul pianeta e ritorno a casa. Ovviamente, nessuno si è mai mosso dalla Terra. L’astronave, dai comodi interni in compensato che sembrano usciti dall’Ikea, è in realtà una simulazione 1:1 realizzata all’IBMP (l’Istituto biomedico dell’Accademia delle Scienze russe) poco fuori da Mosca. Sei uomini di nazionalità diverse, ma tutti virilmente maschi, per evitare inopportune distrazioni, sono stati rinchiusi nel più lungo “Grande Fratello” della storia: 520 giorni senza poter uscire all’aperto, costretti a comunicare con il “centro di comando” solo attraverso i computer, simulando tra l’altro la dilatazione dei tempi di ricezione dalla lontana Terra. È il più grande esperimento di isolamento umano mai realizzato, che dovrebbe riprodurre con una certa verosimiglianza la reale missione su Marte. Certo, c’è da chiedersi quanto accurata possa essere una simulazione dove la gravità è uguale a quella terrestre, dove si vive in comodi loculi senza i grovigli di cavi che riempiono gli inospitali habitat della Stazione Spaziale Internazionale, e dove gli eventuali “fuori programma” – problemi nelle apparecchiature, meteoriti vaganti, e chissà che altro – non differiscono molto dalle prove in stile “Isola dei Famosi”. Viene persino ricreata, in una struttura comunicante con la ‘nave’ attraverso compartimenti stagni, la superficie di Marte dove tre dei sei astronauti si muoveranno, simulando la missione che dovranno compiere sul pianeta rosso. Innegabilmente, l’ideatore di MARS-500 deve aver visto Capricorn One parecchie volte.
Come ha stabilito il presidente americano Obama, gli Stati Uniti (da soli o insieme alle altre Nazioni libere) sbarcheranno su Marte non prima del 2030. Facile profezia. Kennedy stabilì, nel 1961, che lo sbarco sulla Luna sarebbe avvenuto entro quel decennio, e avrebbe potuto vedere avverati i suoi sogni in tempo, forse da poco ceduta la presidenza degli Stati Uniti, se a spegnerglieli per sempre non ci fosse stato il sicario di Dallas. Ma all’epoca c’era l’Unione sovietica da battere; oggi la Cina è un cane che abbaia ma non morde. Andare su Marte non è più un fine, solo un mezzo: ha senso solo se, nei vent’anni che ci separano da quella meta, l’obiettivo ci permetterà di realizzare e testare nuove tecnologie, che potranno rivelarsi utili nel settore civile, o (soprattutto) in quello militare. L’industria dell’indotto finisce per assumere più importanza di quella principale. In questo caso, ha ancora senso simulare una missione spaziale con la tecnologia del 2010, quando nel 2030 i passi avanti nel settore tecnologico saranno come sempre superiori alle nostre aspettative? Se si riuscisse a realizzare – siamo nel campo della scienza, non della fantascienza – un vettore a propulsione nucleare che dimezzi il tempo di percorrenza Terra-Marte, che senso avrebbe chiudere sei poveracci per 520 giorni in una scatola di latta, dal momento che i loro eredi ce ne metteranno poco più di duecento?
Tutto ciò acquista un senso, tuttavia, in un’epoca dove la simulazione prende il posto della realtà. L’orizzonte spostato avanti di vent’anni non ha nessun valore realistico, è una promessa che, se non realizzata, nessuno andrà a rinfacciare ad Obama. Se nel 1969 gli americani non fossero sbarcati sulla Luna, facendosi magari battere dopo poco dai sovietici, gli Stati Uniti ne sarebbero usciti con le ossa rotte. Non a caso, allora, il 1969 diventa, con lo sbarco sulla Luna, la data-chiave. Come ha osservato Adolfo Fattori: “Si tratta di un evento che – dopo essere stato da sempre luogo dell’immaginario e della narrativa – si realizza concretamente (…). Lo sbarco sulla Luna diventa il segno definitivo del disincanto del mondo – e lo diventa proprio a partire dal momento in cui la comunicazione getta la testa di ponte della sua centralità sulla società” (Fattori, 2006, p. 92). È il momento topico in cui la realtà supera la fiction; da quel momento, la fiction prenderà il sopravvento, non più superando la realtà attraverso l’immaginazione ma sostituendosi alla realtà. L’11 settembre 2001 non è un nuovo 1969; nella sua inconcepibile drammaticità, l’immagine prende il sopravvento sul fatto, la realtà si fa fiction. MARS-500 è un progetto figlio di questa ir-realtà (o iperrealtà, come l’hanno efficacemente definita alcuni): la simulazione esorcizza una realtà lontana e in fin dei conti ipotetica, rovescia il 1969 sfruttando gli stessi mezzi con scopi diversi: la televisione e la radio servirono, all’epoca, a convincerci che era “tutto vero”; i messaggi degli ‘astronauti’ lasciati su Twitter o sui loro blog servono a convincerci, in qualche modo, che a essere vera è la finzione.
Forse, su Marte, l’uomo non ha poi tanto bisogno di andarci. Potrà continuare a mandarci protesi e simulacri, magari affidando loro il compito di renderlo più vivibile per quando si deciderà che la presenza umana – per qualche motivo – non sarà più rinviabile. Isaac Asimov qualcosa del genere lo aveva previsto nei suoi racconti e romanzi. Si vadano a rileggere per esempio le storie di Donovan e Powell, la coppia di ‘roboticisti’ mandati nei più invivibili posti del sistema solare per risolvere problemi insorti con i robot che ci lavorano. In quei racconti, lune e pianeti sono stati “colonizzati” dai robot, autonomi fino a un certo punto: ogni tanto qualcuno dà i numeri, in barba alle Tre Leggi della Robotica (che il GERTY di Moon dimostra di avere impresse nei suoi circuiti pensanti), e un paio di uomini sono necessari per rimettere le cose in ordine. Ma un paio di uomini, e basta. Il minimo indispensabile, come il solitario Sam sulla Luna. Se proprio da qualche parte bisogna tagliare, nel nostro ambizioso programma spaziale la forbice può intervenire nella voce meno importante del budget: l’essere umano. Del resto, ancora Asimov era stato il primo a sostenere che la permanenza protratta nel tempo all’interno di un’astronave può essere fatale per il sistema psichico di una persona; un assunto che è alla base del progetto MARS-500, creato appunto per verificare i livelli di stress derivanti da una prolungata e forzata convivenza in un sistema chiuso. E se alla fine si dimostrasse che Asimov aveva ragione? Se gli astronauti non riuscissero a sopportare l’idea di restare due anni lontani dalla Terra, senza “vie di fughe”, costretti a convivere in una lattina vagante nello spazio? Allora si potrebbe decidere di dare spazio, questa volta per sempre, ai nostri simulacri. Agli automi.
Ma attenzione: Asimov non era un preveggente, ma aveva detto la sua anche in questo scenario. Nei suoi quattro romanzi del “Ciclo dei Robot”, dipingeva il quadro di una galassia la cui colonizzazione viene affidata, in prima battuta, ai robot. Il risultato è, dopo pochi anni, il sopravvenire dell’ozio e dell’apatia negli ‘spaziali’, i primi coloni umani impiantatisi nei nuovi mondi. Cedendo ai loro automi il lavoro sporco, gli spaziali si abbandonano al dolce far niente, gelosi della loro lunghissima speranza di vita che li rende terrorizzati alla minima prospettiva di perdere il dono della vita nel più banale degli incidenti. Sarà necessario l’intervento degli uomini della Terra, liberatisi dai robot, per rilanciare il prometeico spirito umano, riprendendo la corsa verso le stelle. Asimov indicava la via. Più cerebralmente, Sini fa lo stesso quando parla dell’Homo erectus come primo Homo technologicus, riprendendo le tesi di Giuseppe Longo (Di Napoli, 2010), ma rovesciandone gli assunti. Siamo diventati homo grazie alla tecnologia, ossia alla manipolazione degli strumenti per i nostri scopi, dalla pietra scheggiata ai rover marziani. Rimarremo sapiens solo se impediremo agli strumenti di diventare più importanti di noi stessi.