Correva l’ottobre del 1912 quando apparve a puntate,
sulle pagine del pulp-magazine The All-Story, il
primo romanzo del ciclo di Tarzan of the Apes, poi
raccolto in volume nel 1914 (inaugurando una serie che avrebbe
registrato 25 romanzi basati sulle gesta del lord selvaggio). In
virtù dei meccanismi di sedimentazione tipici della prima
serialità, il romanzo cominciò ad avere successo
con gli episodi della prima metà dell’anno
successivo, quando il plot e
l’originalità della situazione narrativa,
accompagnata da un corredo di immagini ancora ridotto ma già
potentemente evocativo, colpì intimamente il pubblico di
massa dei lettori. Quello che abbiamo sin qui citato costituisce un
arco di date assai interessante dal punto di vista dei processi
simbolici che concorreranno a determinare il profilo del Novecento. Ad
esempio, il 1912 è l’anno in cui affonda il
Titanic, ovvero il momento in cui si istituisce in tutta
“evidenza” la cifra catastrofica –
fondata sul conflitto tra tecnica, lusso e classi sociali –
del secolo breve. Il 1914 è invece l’anno in cui
si innesca la deflagrante crisi di crescenza del capitale costituita
dalla Grande Guerra. In altri termini, il nuovo secolo si presenta ad
una umanità culturalmente ancora collocata
nell’orizzonte ideologico dell’Ottocento palesando
uno straordinario quanto critico potenziale di innovazione. Tarzan
fa parte di questo processo, ed il motivo per cui il personaggio di
Edgar Rice Burroughs diventerà una delle icone
più rappresentative del secolo XX risiede esattamente nella
sua capacità di rappresentarne le dinamiche più
profonde. Soprattutto, Tarzan funziona non solo e non tanto nelle
produzioni letterarie di massa in cui nasce, quanto nei corollari
figurativi e nelle mediatizzazioni attraverso cui viene tradotto su
piani di visibilità collettiva sempre più spinti.
È nelle immagini dell’industria culturale che la
creatura di Burroughs si afferma radicalmente nei nuovi consumi,
confermando in maniera paradigmatica la pregnante riemergenza del Mito
nella costruzione della realtà sociale e nei suoi fondativi
processi di comunicazione. Del resto, che Tarzan nasca dalla
riattualizzazione consapevole del corpus mitologico viene ammesso dallo
stesso autore, il quale riconosce di essersi ispirato – come
il Kipling dei due libri della giungla – alle figure di
Romolo e Remo, dunque a uno dei miti “fondativi”
dell’Occidente in cui si rispecchia la stessa
modernità industriale. Dal punto di vista morfologico,
quindi, Tarzan è davvero un eroe del nostro tempo (o del
tempo di piena affermazione delle culture industriali)
poiché sintetizza nel proprio corpo e mette in scena nei
propri racconti la natura dei conflitti in atto
nell’orizzonte del Moderno. Come ogni mito, e in
barba a qualunque istanza moderna di controllo sulla produzione
intellettuale, Tarzan non ha un solo autore. Anzi, ne ha molti:
disegnatori, sceneggiatori, registi, attori, web-designer. Tra questi
figura senz’altro Clinton Pettee, l’illustratore
popolare che realizzò per The All-Story
la prima copertina dedicata a Tarzan, in cui si vede il Figlio della
Giungla aggrapparsi alla schiena di un leone inferocito per pugnalarlo.
Il suo corpo è seminascosto dalla vegetazione, ma ne
intuiamo la quasi nudità, resa un po’ incongrua da
una sottile fascia che gli tiene fermi i capelli. L’immagine
desta ancor oggi una certa impressione di violenza ferina, e rivela il
carattere del rapporto che si determina fin dall’inizio tra
il personaggio e il suo pubblico: Tarzan è sospeso, fin
dagli esordi sulla scena dell’immaginario, sulla soglia
sottile e ambigua tra natura e cultura, corpo dell’uomo
ferale e tecnica metallurgica, sopravvivenza ed estetica. Per
la sua creazione, Burroughs si era ispirato – oltre che alle
sostanze onnipresenti del mito – alla letteratura
sull’Africa, in specie quella realizzata dagli esploratori
del secolo XIX. In un’intervista, egli paga un tributo di
riconoscenza soprattutto a Henry M. Stanley, il giornalista gallese che
nel 1870 esplorò il continente nero alla ricerca di David
Livingstone, e che con il suo memoriale In darkest Africa
lo influenzò molto attraverso le vivide descrizioni di
umanità e luoghi. Su di lui, oltre che su artisti come
Pettee o J. Allen St. John (che metterà in immagine tutta la
prima fase editoriale della creatura burroughsiana, anticipando le
successive estetiche del fumetto da Foster a Hogart), tuttavia, dovette
agire anche il corpo crescente degli atlanti illustrati e di tutte
quelle opere che tendevano, nel passaggio tra Ottocento e Novecento, a
rendere visibile il mondo tradizionalmente interdetto dell’altrove.
Un po’ come era accaduto a Salgari, altro celebre riciclatore
di atlanti e manuali di antropologia, i nuovi oggetti della
comunicazione implementavano lo spettro mediatico di riferimento e
rendevano possibile produrre scatti radicali nei processi
dell’immaginazione collettiva. Di questa dinamica generale,
Tarzan è uno degli effetti più significativi e
duraturi. Immaginare una mitica condizione di esistenza
pre-umana è l’obiettivo che si pongono Burroughs
ed i suoi epigoni, gli autori che all’interno di diversi
media e linguaggi hanno prodotto la lunga serialità
dell’epica tarzaniana.
Dall’epica all’estetica il passo è
breve, e conduce dall’illustrazione popolare
all’emergere della più efficace forma narrativa
d’inizio secolo. Nel cinema, Tarzan arriva piuttosto presto,
favorito dalla straordinaria risposta del pubblico ai suoi romanzi e
alla sua iconografia, che – come detto – riprende,
attualizza e traduce in chiave drammaturgica i moderni repertori
dell’illustrazione scientifica. Nel 1918, il caratterista
Elmo Lincoln fornisce il proprio massiccio corpo da uomo-forte (simile
a quelli degli uomini-forti del cinema muto italiano, i Maciste
proletari interpretati dallo scaricatore di porto Bartolomeo Pagano) al
Figlio della Giungla. Acconciato in modo da assomigliare alle
illustrazioni di Clinton Pettee e J. Allen St. John, che in qualche
misura avevano fornito un solido parametro visivo al ritorno
dell’uomo naturale, Lincoln sarà protagonista di
due lungometraggi e di un serial cinematografico, The
Adventures of Tarzan, del 1921. Questi film seguono a grandi
linee il plot delle prime avventure dell’Uomo Scimmia, ma
svaniscono presto dalla memoria collettiva, sostituite – in
virtù dell’evoluzione del cinema verso una
superiore spettacolarità e con la conquista del sonoro nel
1927 – da più forti e durature strutture
divistiche, a partire da quella legata all’aura olimpionica
di Johnny Weissmuller. Prima di affrontare la fase nevralgica
che lega Tarzan all’industria culturale ormai definitivamente
compiuta degli anni Trenta, occorre tuttavia affrontare uno snodo
intermedio, quello legato alla nascita del fumetto naturalistico. Fin
dalla sua definizione di campo, avvenuta per gli storici di settore nel
1895 o ’96, il medium disegnato si era legato a un solo
genere, quello “comico”, che l’aveva
caratterizzato fino a “nominarlo”. I comics,
quindi, saranno a lungo il codice ibrido tra scrittura e immagine
caricaturale o buffa, destinati a raccontare divertenti storielle
rivolte (ma solo in apparenza) a un pubblico di fanciulli. A partire
dal 1929, tuttavia, nel medium-fumetto fanno irruzione altri generi, la
fantascienza di Buck Rogers e l’avventura
(tesa verso il fantastico) di Tarzan. Ispirato
all’ormai acquisita mitologia moderna di Burroughs e
disegnato da Hal Foster, la rimediazione a fumetti di Tarzan evidenzia
un nuovo assetto del sistema dei media, sempre più
proiettato verso una moltiplicazione delle tecnologie e delle culture
della comunicazione. L’assunzione di un codice figurativo
naturalistico amplia il campo narrativo e l’estensione del
pubblico dei comics, ormai aperto alle dinamiche
dell’intermedialità e alla definizione di nuovi
immaginari, più adeguati ai caratteri epocali del Novecento. Tarzan
non esibisce soltanto una rinnovata tensione erotica nei riguardi di un
corpo che si riconfigura e attrezza per adeguarsi a una nuova
condizione esistenziale dei media, ma integra all’interno
delle pratiche dell’immaginario un’idea di
“indeterminatezza” legata ai limiti stessi del
corpo biologico; limiti che, attraverso il ritorno ai codici figurativi
delle culture totemiche, fanno emergere il tema assai più
attuale del benjaminiano sex-appeal dell’inorganico.
In altri termini, il corpo di Tarzan – totemico nel senso di
sospeso tra due età antropologiche della specie –
anticipa e rende possibili l’iconografia e la Veltanschaung
sottese all’epos supereroico da Superman in avanti. Non solo,
dunque, la riemergenza (che potremmo definire junghiana) dei temi
legati alla libido e al controllo sociale, ma anche e soprattutto
l’interazione tra corpo e tecnologia che scaturisce da una
complessa accezione del freudiano “disagio della
civiltà”. Tarzan funziona come un grande
traduttore e divulgatore di istanze complesse, che riguardano
essenzialmente le sociologia di un corpo sottoposto a incessanti e
radicali mutazioni, fornendo ad esse una visibilità e
perfino una forma di conciliazione nei territori rituali
dell’immaginario. Lungi dal rappresentare
l’impossibile “nostalgia” per il perduto
stato di natura, Tarzan rivela la natura tecnologica del suo essere
“umano”. L’impossibilità
del selvaggio è raccontata da Tarzan nella propria
ambivalente natura di corpo biologico e corpo tecnologico. Il Figlio
della Giungla mette in scena se stesso attraverso un corollario di
media sempre più diversificato e
“anti-naturalistico”. Per permettere al
più importante Tarzan sonoro del cinema di esprimere in
maniera credibile la propria anima primitiva, ad esempio, si
è dovuti ricorrere ad una sofisticata operazione di
intervento tecnico sui suoni. L’urlo che, insieme
all’esibizione della propria fisicità apollinea,
permette a Weissmuller di identificarsi con la maschera del personaggio
burroughsiano, è infatti frutto di una complessa
sovrapposizione ed elaborazione realizzata in laboratorio tra versi
animali e sonorità tecniche. Il linguaggio primitivo, che si
associa alla costruzione di Tarzan come mass-cult,
è un’invenzione della tecnologia del cinema:
l’unica che possa realizzare la voce della bestia incarnata
nel corpo culturale dell’uomo moderno. Ma la
vocazione di Tarzan a interpretare, nella finzione della
naturalità, il divenire del corpo tecnologico e delle sue
protesi simboliche si riscontra in tutte le declinazioni
dell’Uomo Scimmia, confermata dalla serialità
trasversale delle sue narrazioni e di quelle dei suoi innumerevoli
epigoni. Dietro il mito ideologicamente ambiguo ma efficace
dell’origine della specie, Tarzan ha
funzionato piuttosto come volgarizzazione del concetto di ominazione,
ovvero dell’allontanamento dallo stato di natura e dalla sua
“sensibilità” indicibile. Basti pensare
alle versioni televisive del personaggio, che ne hanno sottolineato
l’organicità ai modelli della comunicazione
generalista e di massa (specie la tv-serie interpretata negli anni
Settanta dall’attore australiano Ron Ely, che richiama la
versione grafica del comic-maker Russ Manning, autore del Tarzan
più “integrato” nelle ideologie della
modernità). Ma anche ai videogiochi, che soprattutto nella
loro fase aurorale hanno fatto più volte ricorso
all’allure dell’Uomo Scimmia per
attirare l’attenzione del nascente homo game.
Per finire al cartoon Disney del 2000, che chiude e
“sigla” il secolo breve nelle aperture estetiche e
tecnologiche verso l’orizzonte del digitale.
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