logo [ torna al servizio ]

stampa
MUSICHE DA SPIAGGIA E ALTRE SOUND FICTION
di 
Gennaro Fucile

m02ballard.jpg“There’s no music in my work. The most beautiful music in the world is the sound of machine gun”.

A parlare non è Filippo Tommaso Marinetti, ma James Graham Ballard e sembra farlo in maniera definitiva. “Non c’è musica nel mio lavoro. La più bella musica al mondo è il suono delle armi” è un’affermazione che ha il tono del verdetto finale. Ciò nonostante, un sospetto è lecito. Si fa largo tra i rimandi, le citazioni, gli omaggi, i riconoscimenti allo scrittore inglese da parte di musicisti anche radicalmente diversi tra di loro. Un fronte molto ampio. Davvero non esiste nessuna relazione tra le pagine di Ballard e un qualsiasi fenomeno di natura sonora?
In effetti, sono soltanto cinque i racconti che hanno esplicitamente come tema la musica e tutti risalenti agli inizi della sua attività letteraria. Il primo poi è addirittura il suo esordio ufficiale come scrittore: Prima Belladonna (1956), racconto uscito su Science Fantasy. Gli fa seguito Il sorriso di Venere (Venus Smiles) pubblicato l’anno seguente con il titolo Mobile dalla stessa rivista. Le altre tre storie sono Amplificazione (Track 12) uscito su New Worlds nel 1958, Lo spazzasuoni (The Sound-Sweep, 1960), racconto sempre pubblicato da Science Fantasy e Le statue canore (The Singing Statues), che apparve nel 1962 su Fantastic Stories. Anni dopo, Prima Belladonna, Il sorriso di Venere e Le statue canore confluirono nel ciclo dei nove racconti ambientati a Vermilion Sands, la località immaginaria che Ballard definì “sobborgo esotico della mia mente” (Ballard, 1976). A dir la verità c’è un quarto racconto del miniciclo, Addio al vento (Say Goodbye to the Wind, 1970), che apre sulle note di un vecchio motivo: “A mezzanotte sentivo la musica venire dal nightclub abbandonato fra le dune di Lagoon West. Tutte le sere quella melodia consumata mi aveva svegliato mentre dormivo nella mia villa sulla spiaggia…. La musica veniva da un registratore sul palcoscenico: era un foxtrot che non sentivo da anni” (Ballard, 2005a).
Tutto qui, pochino per un autore di oltre cento racconti, se includiamo anche quelli raccolti nel 1970 in The Atrocity Exhibition (La mostra delle atrocità, Ballard, 2001). Insomma, in un certo senso, proprio uno degli autori che ha radicalmente smantellato la tradizionale science fiction risulta essere tra i più ortodossi nel rispettare la tradizione propria della letteratura di fantascienza che vede assente la musica, perlomeno fino all’affermarsi del cyberpunk. Sempre da scrittore di fantascienza autentico che sempre riesce ad anticipare qualche marchingegno o invenzione oppure mutazione di là a venire, anche Ballard ne ha azzeccata una proprio in ambito musicale, anticipando ne Lo spazzasuoni la fine dell’ellepì in vinile, quando questi era al suo massimo splendore con l‘ingresso nell’era della stereofonia, e prefigurando qualcosa che sembra il dischetto digitale: “… il definitivo trionfo della musica ultrasonica giunse con lo sviluppo dello short playing… gli SP ultrasonici sbaragliarono ogni concorrenza. Gli LP acustici divennero pezzi da museo…”. Il vintage oggi così trendy intorno al vinile sembra saltare fuori proprio da qui.
Se le storie dell’inglese sono parche nei rimandi alla musica, al contrario, il pianeta dei suoni contemporanei ha fatto di tutto per tenere Ballard al centro della propria orbita e nel farlo ha operato in diversi modi. Quello più semplice è costituito dall’omaggio diretto e il più remoto di cui si ha testimonianza risale addirittura al 1971, quando il jazzista inglese Neil Ardley scrisse una suite di venticinque minuti per sassofono, tromba, contrabbasso amplicato, arpa e elettronica, ispirandosi al racconto del 1962, The Garden of Time (Il giardino del tempo, Ballard, 2003), uscito su Fantasy and Science Fiction nel 1962. Titolo della composizione: The Time Flowers e ad eseguirla negli studi della BBC Radio 3 c’erano by Don Rendell, Ian Carr, Barry Guy, Sidonie Goossens e la London Studio Strings. Un lavoro mai uscito su disco. Episodio oscuro, mentre molto più famoso è il brano contenuto nel secondo e ultimo disco dei Joy Division, Closer, uscito nel luglio del 1980, due mesi prima del suicidio di Ian Curtis, leader del gruppo. Il titolo è Atrocity Exhibition, ripreso dalla celeberrima raccolta di brevi e crude storie, sicuramente le più sperimentali della produzione ballardiana. Come i Joy Division, anche un’altra band omaggia Ballard, sul finire dei Settanta, in questo caso utilizzando il titolo di un racconto per il nome stesso del gruppo: Comsat Angels: The Comsat Angels, uscito nel 1968 in World of If, (Gli angeli del satellite in Ballard, 2004). 
Un omaggio iconografico arriva da Koiltlaransk, album d’esordio dei Cranioclast (nome che non sfigurerebbe come titolo di un racconto di The Atrocity Exhibition), duo tedesco formato dai sedicenti Soltan Karik e Sankt Klario che propongono un’autentica musica da zona del disastro. L’album è corredato da un booklet infarcito di citazioni tratte dalle storie di Ballard. Il rumorista radicale Merzbow (ovvero Masami Akita) cita esplicitamente uno dei racconti di The Atrocity Exhibition, l’episodio intitolato The Great American Nude. Entrambi, Ballard e Merzbow, per la verità rimandano al lavoro omonimo dell’artista pop Tom Wessellman. Doppia citazione poi nell’album Sacrifice di Gary Numan, uscito nel 1994. Uno dei brani si intitola Love and Napalm, che addirittura diede il titolo alla raccolta ballardiana nella prima edizione americana, e in un altro brano, A Question of Faith, si dice esplicitamente: “I'll be your exhibition of atrocity”. Ancora, in Giappone spunta nel 1987 un gruppo progressive che incide un unico album, Water Blue, poi diventato oggetto da collezione prima di essere ristampato dalla francese Musea riedito con l'aggiunta di alcune bonus studio/live. La band sceglie di chiamarsi Vermilion Sands. Sempre negli anni Novanta ecco spuntare la formazione più autenticamente ispirata, dove convergono gli omaggi formali a l’esprit ballardiano: i Mo Boma. Per l’etichetta australiana Extreme pubblicano un trittico denominato Myths of the Near Future, come l’omonimo racconto pubblicato su Ambit nel 1981 (Miti del futuro prossimo, in Ballard, 2005a), titolo poi usato anche per un’antologia di racconti uscita l’anno successivo. I Mo Boma insistono nell’omaggio allo scrittore inglese anche titolando diversi brani come i racconti di Ballard: Memories Of The Space Age (del 1982, uscito da noi come Ricordi dell’era spaziale, Ballard, 2005) e, Day Of Forever del 1967 (Il giorno senza fine, Ballard, 2004). Inoltre, in Three Beaches C. S. (Quartz - Vermillion Sands - Blacksand Beach), rispunta il sobborgo esotico. Compaiono anche i titoli di due romanzi: The Day Of Creation (Il giorno della creazione, Ballard, 1998) e The Crystal World (Foresta di cristallo, Ballard, 2005b). 
Più di recente, nel 2007, anche la band londinese dei Klaxons ha pubblicato il primo album intitolandolo Myths of the Near Future. Sono tipi che non scherzano in quanto a citazionismo letterario, dal momento che il loro esordio nel 2006 è stato il singolo Gravity's Rainbow, omaggio a un altro nume contemporaneo, Thomas Pynchon.
Fin qui gli omaggi espliciti e, per certi versi, meno significativi nella relazione Ballard/musica, legame in verità più profondo e che ha trasformato uno scrittore dichiaratamente non interessato alla musica a trasformarsi in punto di riferimento obbligato, nome citatissimo, nume e ispiratore riconosciuto soprattutto di buona parte della scena musicale che agisce nei territori dell’elettronica. È un’affinità frutto dei fenomeni tipici della postmodernità: i paesaggi mediatici, l’elettronico quotidiano, la corporalità, gli scenari urbani e metropolitani alterati, le mutazioni psichiche che tutto ciò comporta, lo slittamento progressivo dell’identità. Sono i temi principali che la narrativa di Ballard affronta, trasfigurandoli e reiterandoli nel corso di quattro decenni… 

“Credo nelle mie ossessioni, nella bellezza degli scontri d’auto, nella pace delle foreste sommerse, negli orgasmi delle spiagge deserte, nell’eleganza dei cimiteri di automobili, nel mistero dei parcheggi multipiano, nella poesia degli hotel abbandonati...

Credo nella gentilezza del bisturi, nella geometria senza limiti dello schermo cinematografico, nell’universo nascosto nei supermarket, nella solitudine del sole, nella loquacità dei pianeti, nella nostra ripetitività, nell’inesistenza dell’universo e nella noia dell’atomo…

… Credo nella luce emessa dai televisori nelle vetrine dei grandi magazzini, nell’intuito messianico delle griglie del radiatore delle automobili esposte, nell’eleganza delle macchie d’olio sulle gondole dei 747 parcheggiati sulle piste catramate dell’aeroporto… 

… Credo nell’ansia, nella psicosi, nella disperazione” (Ballard, 2008).

Questioni che con attrezzi sonori variegati vengono raccontati dalla cultura industrial enfatizzandone un’affinità cercata o involontaria anche iconograficamente. Un buon esempio in tal senso arriva da Die Form, sigla dietro la quale sin dal 1977 si cela Philippe Fichot poi affiancato dalla cantante e modella Eliane P. nella realizzazione di un elettro-pop malato, anzi malsano (uno dei primi lavori si intitola Some Experiences with Shock) e accompagnato da artwork sviluppati sul tema dell’erotismo, della morte, del sadomaso e più in generale esponendo corpi feriti, cicatrici, cadaveri e altre finezze del genere, insomma: The Atrocity Exhibition. Sono però soprattutto i già citati Cranioclast e Mo Boma a fare da snodo, perché fanno del citazionismo dichiarato e al tempo stesso tracciano due linee guida, due strade in parte parallele in parte coincidenti e in altra misura divergenti della scena elettronica degli ultimi trent’anni. Da un lato la cultura industrial, che sceglie di esprimersi con il rumore o di fare del noise l’unica fonte sonora impiegata. È quell’area del disastro per dirla proprio con Ballard, che ha come baricentro Metal Machine Music di Lou Reed, uscito nel 1975, autentico crash tra altoporlanti in feedback, inno alla distorsione, sinfonia del rumore che vantava involontarie nobili origini futuriste e che irrompeva per la prima volta nella musica rock. Un lavoro che ha ispirato centinaia e centinaia di manipolatori del suono, alcuni geniali e moltissimi dimenticabili. Su questo fronte si muovono le claustrofobiche atmosfere di Cranioclast e le tempeste soniche di Merzbow. Su questo fronte si era mosso anche Ballard: “Amplificata centomila volte, la divisione delle cellule animali rumoreggia come un mucchio di travi e lamiere d’acciaio fatte a pezzi. Sembra un incidente automobilistico al rallentatore, secondo la sua definizione. D’altro canto la divisione delle cellule vegetali è un poema elettronico, tutto accordi sommessi e note gorgoglianti” (Amplificazione, Ballard, 2003).
Procedendo in senso opposto ecco, invece, la linea morbida, ambient music, acquerelli spesso contaminati da suoni e ritmi non occidentali, oppure sonorità semplicemente lievi, impalpabili, secondo i dettami del manifesto sonoro stilato nel 1978 da Brian Eno, ovvero il disco Ambient 1: Music for Airports. È l’area esplorata da Mo Boma, che deve molto soprattutto a un lavoro firmato da Jon Hassell con Brian Eno nel 1980, Fourth world vol. 1: Possible Musics, suoni soffusi, che sembrano attingere da una memoria musicale collettiva, ancestrale, la stessa dalla quale Ballard preleva le sue immagini abbacinanti. In fondo a questa strada si arriva all’elettronica del silenzio, un invito all’ascolto dell’inner space. Ancora una pattuglia di musicisti tedeschi in prima fila, da Thomas Köner a Bernhard Günter, o il giapponese Ryoji Ikeda. Crepitii e frequenze che affiorano dal nulla, suoni residuali come quelli di cui va a caccia lo spazzasuoni di Ballard. Köner, Bernardt e Ikeda sono esponenti di spicco di quell’area musicale definita isolazionista. Il termine proposto da Kevin Martin sul numero 115 di The Wire, fu utilizzato nel 1994 dalla Virgin per intitolare il quarto volume di una serie dedicata alla musica ambient. Titolo: Isolationism. Nelle note di copertina si chiariva il concetto con le parole stesse di Martin: “La musica asociale degli isolazionisti fornisce un contesto ambientale confortevole a tutte le persone che nel solipsismo ripongono la loro fede”. Difficile non vedere in questo profilo un bel po’ dei personaggi ballardiani.
Esiste però anche un percorso inverso, che dai quei raccontini di Vermilion Sands arrivano alle sculture sonore, in realtà preesistenti e che mettono in luce il legame tra Ballard e l’avantgarde. “Una sera mi recai alle scogliere di sabbia dove crescono le sonisculture. Salii per i lunghi pendii ascoltandole piagnucolare e gemere…” (Le statue canore in Ballard, 2003). Le sculture sonore nascono nel 1952 ad opera di due fratelli francesi, François e Bernard Baschet. Geniali artigiani del suono i Baschet inventano negli anni una serie di attrezzi suonanti fatti perlopiù di sbarre metalliche e tubi di vetro che strofinati o percossi emettono suoni inauditi. Ne realizzano non pochi nell’arco di vent’anni e se ne avvalgono nel tempo diversi compositori contemporanei, da Karlheinz Stockhausen a Toru Takemitsu. Altro pioniere è stato il pittore surrealista Jean Tinguely (l’amore di Ballard per l’arte surrealista non è mai stato un mistero), attivo anche nel campo della scultura che installava un motore in alcune delle sue opere, azionandone le parti. Queste muovendosi generavano suoni. Le idee più compiute e rivoluzionarie, però arrivano dagli Stati Uniti, dove Harry Partch per una quarantina d’anni si è dedicato all’invenzione di strumenti adatti a poter suonare le sue composizioni basate su un sistema di accordatura da lui stesso concepito in opposizione al classico sistema temperato a 12 parti per ottava. Il suo sistema, infatti, ne prevede 43 per ottava e naturalmente nessuno degli strumenti in circolazione può consentire di eseguire brani così concepiti. Senza perdersi d’animo Partch costruì strumenti su misura, oggetti singolarissimi, pezzi unici affidati a un ensemble, il Gate 5, “addestrato” dallo stesso Partch a suonare le sue invenzioni, che vanno dal chromeloedon, un organo modificato al cloud chamber bowl, set di ciotole di cristallo. Chi però ha realizzato la migliore sintesi tra autocostruzione, scultura, suono e performance è Arieto Bertoia, nato a S.Lorenzo, Udine, nel 1915 ed emigrato negli Stati Uniti, ospitato da suo fratello Oreste a Chicago nel 1930, dove diventerà Harry. Bertoia si specializza nella lavorazione di metalli e gioielli diventando un designer apprezzato. Il passo successivo è l’approccio alla scultura. Trasforma il suo granaio in laboratorio e lì, assemblando una scultura composta da diverse aste metalliche verticali, due di queste cozzano accidentalmente producendo un suono che gli si conficca nella mente, accendendo una magnifica ossessione. Per un buon decennio studierà le qualità acustiche dei metalli, anni di ricerche che approderanno nel 1959 al progetto Sonambient, un complesso di sculture sonore realizzate in leghe di berillio, rame e nickel, percuotibili con sbarrette metalliche a loro volta, talvolta ricoperte  da uno strato di cuoio. Complessivamente ne realizzerà un centinaio. I fabbricanti di strumenti inediti non finiscono qui. L’intuizione ballardiana rispunta nelle long string installation, messe in opera da diversi artisti, tra cui particolarmente rilevanti oggi sono le performance concepite dall’americana Ellen Fullman. Una long string installation parte dal concetto di interazione tra architettura e suono, tra musica, geometria e fisica. Le long string sono set di corde lunghissime di acciaio, o nylon, latex, cotone e in alcuni casi filo interdentale, di diametri diversi e tesi in modo variabile. Installate in ampi spazi, come, capannoni industriali, edifici abbandonati, cantieri, musei, cappelle, cortili, mercati al coperto, vengono sfregate, percosse e pizzicate. Suoni lamentosi, cupi, oppure onde sonore estremamente ricche di armonici e subito dopo, nel volgere di un attimo, qualcosa di molto vicino al silenzio. Il suono delle long string ci ricorda qualcosa: “Salii per i lunghi pendii ascoltandole piagnucolare e gemere…”. La medesima sensazione ritorna ascoltando delle arpe eoliche e qui siamo ancora più vicini all’idea ballardiana di statua sonora, poiché gli umani non presiedono alla creazione del suono, compito che viene affidato al vento. Queste enormi arpe (che è difficile non definire sculture) vengono erette, installate, in genere, su scogliere o spiagge, in attesa che dall’interno o dal mare soffino venti in grado di farne vibrare le corde. Un buon esempio arriva dai lavori di Roger Winfield che ha assemblato il suono scaturito dal soffio dei venti battenti sulle spiagge del Nord Europa, sito prescelto per le sue Aeolian Harp. Otto arpe eoliche poste su una scogliera e lasciate risuonare catturandone il suono con una serie di microfoni e pick up. Spiagge, come quelle di Vermilion Sands, o quelle che sempre in Europa hanno ospitato le cinquantaquattro chitarre elettriche conficcate nella sabbia dal franco-canadese Garlo, l’installazione geo-acustica Vent de Guitares. Dalle alte dune scelte per l’installazione arriva ciò che più si avvicina a quel “suono esile e tormentato” che ascolta il Milton de Le statue canore sulle spiagge di quel sobborgo esotico che lo stesso Ballard collocò con discreta approssimazione: “… in qualche settore di quella città continua che si allunga per cinquemila chilometri da Gibilterra alla spiaggia di Glyfada lungo le coste settentrionali del Mediterraneo, dove ogni estate l’Europa si sdraia supina al sole”. Congetture, nient’altro. Per la verità, una ballardian music esiste solo come un flusso di suggestioni che, a partire dall’archeologia psichica del futuro ormai alle nostre spalle, può includere una serie infinita di connessioni condividendo le medesime emozioni, lo stesso sguardo sul mondo. Tutte queste avventure sonore sono visioni inusuali che esprimono un identico mood, niente di più: “Non c’è musica nel mio lavoro”, Ballard è stato esplicito e mandandolo in loop risulta ancora più convincente, o forse no: There’s no music in my work, There’s no music in my work, There’s no music in my work, There’s no music…

 


 

:: letture ::

— Ballard J. G., Preface to Vermilion Sands, 1971, Introduzione in I segreti di Vermilion Sands, Fanucci, Roma, 1976.

— Ballard J. G., The Atrocity Exhibition, 1970, trad. it. La mostra delle atrocità, Feltrinelli, Milano, 2001.

— Ballard J. G., The Complete Short Stories (vol. I, 1956-1962), 2001, trad. it. Tutti i racconti, 1956 - 1962, Fanucci, Roma, 2003.

— Ballard J. G., The Complete Short Stories (vol. II, 1963-1968), 2001, trad. it. Tutti i racconti, 1963-1968, Fanucci, Roma, 2004.

— Ballard J. G., The Complete Short Stories (vol. II, 1969-1992), 2001, trad. it. Tutti i racconti, 1969-1992, Fanucci, Roma, 2005a.

— Ballard J. G., The Crystal World, 1966, trad. it. Foresta di cristallo, Feltrinelli, Milano, 2005b.

— Ballard J. G., The Day of Creation, 1987, Il giorno della creazione, Rizzoli, Milano, 1988.

— Ballard J. G., Visioni a cura di RE/Search, Shake edizioni, Milano, 2008.

 


 

:: ascolti ::

— AA.VV., Ambient 4: Isolationism, Virgin, 1994.

— François and Bernard Baschet, Les Sculptures Sonores. The First Fifty Years, Soundworld, UK, 1999.

— Harry Bertoia, Unfolding, P.S.F. Records, 1993.

— Cranioclast Koiltlaransk, Principe Logique, 1985, CoC 1989, Musica Maxima Magnetica, 1994 (con l’aggiunta della cassetta C20 Ration Skalk).

— Die Form, Some Experiences with Shock, Terrace & Macky, 1984, Matrix Cube, 2001.

— Brian Eno Ambient 1: Music for Airports, EG Records, 1978, EG Records, 1990.

— Ellen Fullman, Body Music, Experimental Intermedia, 1993.

— Garlo, Vent De Guitares, CIP, 1995.

— Bernhard Günter, Un Peu De Neige Salie, Selektion, 1993.

— Jon Hassel/Brian Eno, Fourth world vol. 1: Possible Musics, Celestial Sounds, 1980, EG Records, 1990. 

— Joy Division, Closer, Factory Records, 1980, Rhino, 2007.

— Thomas Köner, Teimo, Baroni, 1992, Mille Plateaux 1997 (ristampa che include anche Permafrost). 

— Merzbow, Great American Nude / Crash for Hi-Fi, Alchemy Records, 1991.

— Mo Boma, Myths Of The Near Future Part One (1994), Part Two (1995), Part Three (1996), Extreme.

— Gary Numan, Sacrifice, Numa, 1994.

— Harry Partch, The Harry Partch Collection Vol. 1 e 2, Composers Recordings Inc. (CRI), 1997.

— Lou Reed, Metal Machine Music, Rca, 1975, Buddha Records, 2000.

— Vermilion Sands, Water Blue, Japan Records, 1987, Musea, 1999.

— Roger Winfield, Windsongs: The Sound of Aeolian Harps, Saydisc, 1991.