…volgo
lo
sguardo alle dieci gallerie che da qui si dipartono, ognuna delle quali
secondo il progetto generale discende o sale, va
dritta o gira, si allarga o si restringe e tutte ugualmente mute e
deserte, e pronte a portarmi ognuna per proprio conto alle molte
piazzole, anch’esse mute e deserte – allora
il pensiero della sicurezza mi è lontano, so bene che qui
c’è la mia roccaforte, che ho sottratto al terreno
riottoso, grattando e rosicchiando, battendo e martellando; la
mia
roccaforte che non può appartenere in alcun modo a qualcun
altro, è mia a tal punto che alla fin fine qui posso
tranquillamente ricevere dal mio nemico anche il colpo mortale,
perché il mio sangue si spargerebbe nel mio
terreno e non
andrebbe perduto. La
Tana, Franz Kafka
Roma, 3 gennaio 1927. Nasce Nannetti Oreste Fernando, da
Nannetti Concetta e padre ignoto. Costretto fin da bambino ad entrare
in contatto con ambienti quali istituti di carità e
strutture per minorati psichici, nel 1948 è accusato per
oltraggio a pubblico ufficiale, prosciolto per vizio di mente. Il
trasferimento all’ospedale psichiatrico di Volterra dal Santa
Maria della Pietà in Roma avviene circa dieci anni dopo,
destinato alla sezione giudiziaria. È poi nel 1972 che viene
dimesso e trasferito al reparto Bianchi di Volterra. Volterra.
Per oltre un decennio Nannetti Oreste Fernando compone un prezioso
quanto enorme libro murale utilizzando come unici strumenti di
incisione le fibbie del proprio panciotto, parte della divisa dei
ricoverati, e trattando come pagina l’intonaco degli edifici
di un cortile interno dell’ospedale psichiatrico. Un muro di
delimitazione diventa quindi lo spazio di un linguaggio ossessivo,
della proliferazione della parola scritta e dell’accanimento
del gesto stesso di scrittura, opera che ha del prodigioso rispetto ai
valori di comunicazione e meta-comunicazione. Nannetti Oreste
Fernando muore a Volterra il 24 gennaio 1994. Lasciando, oltre
all’estesa opera murale, circa 1.600 lavori a penna su
supporto cartaceo.
L’HABITAT
Vi
è chi per sua natura tace per dire, non il dire inteso con
il nominare le cose, ma con la comunicazione di un, o del, dato reale
che resta non percettibile secondo modalità consuete e
convalidate, e quella sua stessa natura e il conseguente stato lo
spostano, in una diversa posizione percettiva. Il tacere diventa, e
già lo era, sguardo. Occhio sul dato reale che guarda
trattenuto, per averla superata, al di là di una o della
linea di confine, e se non è del tutto preferibile
l’immagine di confine, è presente comunque
l’atto di un superamento, e una volta al di là non
è più possibile, e forse nemmeno voluto, fare
ritorno, anche se la via di accesso è visibilissima,
coscientemente se ne rimane al di fuori. E in questa posizione il
movimento percettivo si espande. Il suono e
l’immagine attraversano l’aria anche con segni ed
echi di elemento acqueo. La poesia e la
comunicazione non consueta, raggiunto lo sguardo cercano uno spazio su
cui aderire: dall’aderenza allo spazio mentale e delle
pulsazioni sanguigne all’aderenza a uno spazio fisico vero e
proprio: la pagina, in questo caso di pietra scalfita con una fibbia,
attraverso un lavorio incessante, che peraltro scalfendo segna e
distrugge simultaneamente la stessa materia su cui prende forma e
prendendo forma rinuncia al suo dominio, cessa di
appartenervi.
“stella
perduta stella nascente” *
La scalfittura ricrea, la scalfittura corrode
l’elemento murario, come se l’atto stesso del
creare, il suo scaturire e il conseguente gesto specifico implicassero
una necessaria sottrazione dell’elemento materico, in un
non-ancora e non-più simultanei. E nella materia colpita
è intrinseca una condizione di malattia e contaminazione.
“la
terra va in cancrena” “pioggia
di stelle”
Quindi l’estensione dell’atto necessita,
per se stessa e per il percepente –
spettatore e autore – di uno spazio
fisico, una superficie su cui aderire, e al tempo stesso
ricreare. Uno spazio altro – fisico ma anche metaforico, di
una metafora di verità – su
cui può proiettare se stessa e musica, note, versi,
immagini. Musica come massa, caos organizzato, o
anche disorganizzato, di parole e di immagini, qualcosa che emerge, dal
silenzio come emergendo dal buio, in un contesto visibile in cui il
buio può apparire come silenzio di luce e il silenzio come
buio di suono; ma in realtà nello spazio
della creazione la mancanza di luce non è mancanza di suono
né di visione: avviene la scaturigine, avviene la
cessazione, ritorna nel buio silenzio e la superficie incisa
è risultato come spazio tra due silenzi tra due bui. Spazio
e tempo tra altri spazi e altri tempi. Perché vi
è lo spazio dell’opera, il suo, lo spazio
percettivo dell’opera, lo spazio di collocazione nella
realtà. Passaggi, cunicoli, porte, e
concentricità, perché gli spazi sono inseriti
anche l’uno nell’altro. E a contatto con la vita
quotidiana costringe alla doppia partecipazione al mondo fantastico
– riferito a una realtà altra ma non inesistente
– al mondo effettuale. Estensione
emersa e percepita da e attraverso uno spazio, con i suoi piani, le sue
linee, i suoi dentro e i suoi fuori, una volta colta aderisce, per
necessità, a una superficie; per poi reimmergersi nella
materia di aderenza trovata: il segno resta, esistente, la
comunicazione vera deve di nuovo essere compresa,
decifrata. E forse, trattandosi di verità non ci sono
interpretazioni. Il vero non si interpreta, al vero si crede: una sorta
di atto di fede a cui soprattutto, e non sempre, la percezione
può prestare la sua opera, restando i sensi trappola e
risorsa illimitata ad un tempo.
“I
fantasmi sono formidabbili dopo la seconda
apparizione prendono sembianze materiali le
ombre... sono vive sotto cosmo”
Anche l’invisibile quindi incontra la percezione: si
entra nel suo dominio, esistente. Entrati: un totale
senso: tra il tattile vigoroso, la visione diffusa, l’udito
sfrenato. Nel flusso, nella fluidità aerea ed acquatica. Si
ripresentano i concetti di superficie / emersione / immersione: termini
acquei, che ancora una volta inducono a chiedere a quale elemento
appartenga l’habitat del vero percepito.
Parlando di emersione e immersione viene evocata l’idea di
acqua, acqua che appartiene ed è aria,
fluidità.
“Un
corpo solido vive negli spazi come un corpo
nell’acqua e manda
le immagini”
LO SGUARDO Lo spettatore: colui
che opera colui che guarda. Si muove nel quotidiano come esiliato, ma
partecipe a distanza – non può comunque restarne
al di fuori – delle concentricità (dove guardare e
udire non sono manifestazioni non univoche; dove permane una globale,
riferita al corpo intero, ricezione tattile). Permanendo nel terreno
per definizione, umano, si muove con un movimento sul posto, acquista
coscienza – il cui germe era già latente
– della possibilità parziale, ma anche
dell’impossibilità. Esiliato, poiché di
nascita spettatore, resta in attesa, e nello spazio d’attesa
può essere incluso il suo lavorio incessante dedito a dare
forma e a scalfire forme, del buio come consolazione e disperazione, ma
disperazione che comprende in sé la purezza della coscienza
della impossibilità ma anche dei movimenti, soprattutto
ricettivi, potenziali e partecipati. Certo si pone anche la verifica
dell’oscuramento delle false certezze. E
nell’esilio, con il proprio tempo individuale frammentario,
si verifica e si attua quel moto necessariamente e comunque compreso e
separato dal trascorrere del tempo cosmico, che passa e scorre, ma altrove,
dove non ci sono pozzi e c’è solo la Luna, che non
si rende più visibile fuorché al nostro occhio
interiore.
“la
luna nel pozzo è sparita”
Corpo intero, sì. Ma la frammentazione esistentiva
non è solo temporale, è anche corporale. Con le
mani che informano sulla probabile età dei viventi e i piedi
che suggeriscono, pur senza mostrarle, azioni e condizioni: dal riposo
alla fuga, dal dolore al sollievo. E il corpo frammentato con i suoi
segmenti evoca anche l’idea di una certa
meccanicità riconducibile a un vivente mechanicus
ridotto alla somma dei suoi gesti; fisicità assoluta, che
non vuole però significare morte dell’anima, o
separazione corpo-anima. Non dimentichiamo che sono proprio i sensi a
permettere la diversa condizione percettiva: pur riconducendo sempre a
se stessi, i sensi consentono immagini altre, dove la vista, e non
solo, non si separa dallo spirito né tanto meno separa
quest’ultimo dalla fluidità dell’immagine,
fluidità che dall’immagine e con
l’immagine si spartisce. Parliamo sempre di sensi. E
infatti, la persona, il cui corpo è strumento
indispensabile di percezione, unico e irripetibile, il cui sangue
è anche linea genetica ereditaria, cerca in qualche modo di
confermare una sua collocazione storico-biografica; epistolare, quasi
diaristica. Appunti e confidenze di date, nomi (con particolare
riferimento a ipotetici o reali famigliari), eventi, memorie. Con una
funzione, se vogliamo, anche molto individuale, di un segno che simula
un senso collettivo con il pretesto di un linguaggio riconoscibile.
Diario che ammette anche la realtà
dell’invenzione, di eventi plausibili affinché lo
sguardo, elencandoli, si ancori in qualche modo a una sorta di
verificabilità storica e autobiografica. E il disordine
strutturale – là dove è concesso o si
manifesta – di questi appunti, diviene, nel suo farsi,
metafora della struttura del reale. La frammentazione appunto. Giorni,
luoghi, destinatari, previsioni sul mondo e su se stessi. Anche questa
elencazione è attuata con una qualche
meccanicità, la cui pratica non esclude comunque nessuno dei
due livelli, seppur trattati sia contemporaneamente sia alternatamente:
effettuale, fantastico. Entro cui il mediatore compie il gesto, quasi
preordinato seppur intriso del proprio spirito, del proprio occhio.
Meccanicità che si configura anche come
dinamicità: in uno spazio – e
l’aspetto spaziale evoca il concetto di un ultraspazio come
componente essenziale – dove l’elemento dinamico e
la richiesta effettiva di movimento nel segnare una
superficie così lunga e vasta, un muro di facciata
perimetrale per una lunghezza di 180 metri e un’altezza media
di 120 centimetri, implicano una dinamicità sia del disegno
sia di chi lo incide.
“Nannettaicus
meccanicus” “santo
con cellula fotoelettrica”
IL MOVIMENTO Opera in dinamismo
quindi, non solo perché fisicamente estesa su una
superficie, ma anche per definizione: non ha un inizio, non una fine;
implicandone infiniti. Non ha confini ben precisi come un brano
musicale, un quadro, anche se questi, come ogni opera o fatto
artistico, li lasciano presagire. È opera dinamica anche
entro il processo di librificazione quale edificazione di un libro a
venire: il costruttore attua – attuandone una sorta di mimesi
– una vera e propria edificazione del libro, con una
costruzione tecnica delle pagine, scalfendone il perimetro e
delimitandone l’area successivamente trattata come spazio da
riempire, da colmare fino alla saturazione. Tensione che si manifesta
sia rispetto alla direzione e al verso della parola, sia rispetto alla
consecutività/non-consecutività – come
viene intesa generalmente nella scrittura. Forse un orrore,
un’ipotetica fobia di uno spazio vuoto, e l’ansia
di occupare senza sprechi lo spazio a disposizione temendo che finisca,
magari proprio a causa di quello stesso processo di riempimento. La
saturazione pur continuando ad esigere il movimento al fine del suo
accadere, ne procurerebbe un’interruzione. Si viene
così a creare una sorta di tesi/antitesi tra dinamismo
grafico e immobilità forzata, con l’eventuale
rischio di una impossibilità del suo protrarsi.
“Masso
Massoneria Marco Messa Messale Messalina Saline
Salame Sale Sasso Sassoneria Sonia”
Il movimento poi, inteso come mutamento della materia durante
l’azione dell’edificatore – il quale
incidendo genera anche un suono, una vibrazione corporea stancante, che
dal braccio diffondendone la fatica si estende al resto del corpo
– origina, attraverso l’atto stesso
dell’incisione, il residuo.
Una sorta di rimanenza materica dell’opera. Muro che si fa
polvere. Residuo fisico. Che un colpo di vento potrebbe portare via
contemporaneamente al processo di polverizzazione, ma che al contrario
potrebbe anche accumularsi ai piedi dell’opera o
spargersi nelle sue vicinanze. Atomizzazione-conferma
del suo essere esistente.
* dal graffito di Nanof, come le successive citazioni.
:: letture ::
—: Speciale: NANnetti Oreste Fernando, l'Uomo che cadde sulla Terra, con interventi di Aldo Di Marco, Lara Fremder, Paolo Rosa Adolfo Fattori, Giorgio bedoni, Giuseppe Baresi, raffaele Burno e Rosa Saviano Gennaro Fucile, in: www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero6/indexsf.htm
— Stefano Pastor, Il pianoforte deve suonare da sé, annota Nanof
in: www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero19/02bussole/q19_04nanof01.htm
:: visioni ::
— Pier Nello ed Erika Manoni, I graffiti della mente, 2002.
— Paolo Rosa, L’osservatorio nucleare del signor Nanof, 1985.
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