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Essi vivono, noi dormiamo: il cinema politico di John Carpenter
di 
Nicola Bassano

carpenter.jpgJohn Carpenter è, da sempre, un regista anomalo, un corpo estraneo, in un panorama (quello hollywoodiano) in continua mutazione; un filmaker anarchico, solitario, “bombarolo”, culturalmente e storicamente lontano dalla logica degli studios e proprio per questo motivo marginalizzato da un mondo oramai allergico agli autori “scomodi”. A un industria cinematografica sempre più abituata all’utilizzo di registi provenienti dalla pubblicità e dal video musicale (shooters), interessati solo a girare, un personaggio come Carpenter non interessa affatto, con il suo essere assolutamente contrario alle interferenze e al controllo dei produttori. Eppure, dando una rapida occhiata alla sua nutrita filmografia, non si può fare a meno di notare come questo grande regista abbia segnato profondamente la storia del cinema contemporaneo, diventando autore di culto soprattutto in Europa, dove la critica – da sempre attratta dal cinema di genere d’oltreoceano – ha saputo valutare con grande lucidità tutto il valore delle sue produzioni. Un cinema, in sostanza, lontano dai compromessi e costruito grazie a una profonda cultura cinematografica formata, in primis, sui classici americani. Ed è all’interno dei solidi canoni del cinema di genere che Carpenter ha deciso di costruire la sua personalissima idea di società. Figlio di un musicista – che aveva collaborato con personaggi del calibro di Roy Orbison, Frank Sinatra e Elvis Presley – Carpenter mostra sin da bambino un vivo interesse per i fumetti (Tales from the Crypt, Weird Science), la letteratura (Edgar Allan Poe, M. R. James, Arthur Machen e soprattutto Howard. P. Lovecraft) e il cinema. All’università studia tutti i classici, compresi il neorealismo italiano e l’espressionismo tedesco, dimostrando una certa propensione al cinema di genere e orientando il suo interesse alle produzioni di serie B (Roger Corman, Norman Taurog, Edward L. Cahn, Russ Meyer, Inoshiro Honda). I primi approcci con il grande schermo vedono un Carpenter bambino di appena cinque anni, assistere con la madre alla proiezione del film 3 D – Destinazione Terra di Jack Arnold. Secondo le stesse parole del regista quella fantastica esperienza segnerà profondamente la sua infanzia indirizzandolo verso la carriera di regista. Alle radici del suo immaginario ci sono i grandi nomi del cinema americano: Howard Hawks, Sam Peckinpah, Don Siegel ma anche influenze geograficamente e culturalmente lontane come i nostri Mario Bava e Sergio Leone. Carpenter ama muoversi con budget ridotti, libero da imposizioni, con collaboratori fidati (Debra Hill, Dean Cundey, Gary B. Kibbe, Tommy Lee Wallace), affidandosi più che alle disponibilità economiche alla creatività e alla passione nel progetto. In queste condizioni ideali il regista riesce a dare il meglio di sé. La forza del suo cinema risiede nella grande capacità di costruire inquadrature assolutamente moderne attraverso il vocabolario stilistico del cinema classico. Un linguaggio semplice, elegante, in poche parole “naturale”. Tralasciando, per ragioni di spazio Dark Star (ampliamento di un cortometraggio studentesco uscito nel 1974), già dal magnifico Distretto 13: le brigate della morte (Assault on Precint 13 uscito nel 1976) appare subito evidente la volontà del regista di connotare il suo lavoro di un forte messaggio politico. Carpenter mette in scena un gruppo di outsider (un criminale, una donna, un poliziotto nero), costretti a difendersi dall’attacco di una gang, all’interno di una stazione di polizia. Questa situazione claustrofobica e piena di suspense diventa l’occasione ideale per riflettere sulle dinamiche dei conflitti sociali nelle società capitalistiche. L’identità degli assalitori è tenuta segreta grazie all’uso sapiente del fuori campo, prolungando la tensione per tutta la durata della pellicola. Il regista domina lo spazio alternando con maestria incursioni, fughe, avanzamenti e scontri violenti. Insomma, scorrendo la sua filmografia è molto facile isolare tematiche ricorrenti e riflessioni illuminanti sulla società contemporanea e in particolare sulle derive pericolose del consumismo e del totalitarismo. Un film su tutti, il capolavoro del 1988 Essi Vivono (They Live), seconda pellicola realizzata per la Alive dopo il magnifico e terrificante Il signore del male (Prince of Darkness del 1987). Il protagonista (Roddy Piper) è un operaio disoccupato che dopo aver trovato un posto in un cantiere edile scopre l’esistenza di un’organizzazione guidata da alieni capitalisti e umani collaborazionisti che attraverso l’uso di messaggi subliminali tiene sottomessa l’intera popolazione con la promessa di una vita fatta di agi e soldi. La scoperta del complotto avviene grazie ad un paio di occhiali, trovati in una chiesa, che indossati permettono di vedere la vera natura degli invasori. Essi vivono è una pellicola rabbiosa che utilizza la fantascienza come pretesto per analizzare criticamente la società americana, vittima in quel periodo storico dell’amministrazione Reagan. La natura low budget del film rende ancora più interessante l’operazione, in quanto stilisticamente rifugge dalla falsa patina di bellezza che stava ricoprendo ogni ambito culturale e artistico del paese, per virare verso il potere destabilizzante del messaggio. Ciò che maggiormente colpisce è la lucidità e il furore ideologico con cui il regista mette in piedi la struttura narrativa del film, apparentemente rozza e ingenua, ma in realtà dotata di un’energia prorompente. La figura di Piper – nella realtà lottatore professionista – si caratterizza, sin dalla sua entrata in scena, per una straordinaria carica eversiva. La sua lenta presa di coscienza raggiunge l’apice nella lunghissima sequenza della rissa con Keith David, citazione della scazzottata fordiana di Un uomo tranquillo (1952). Sembra quasi che Carpenter utilizzi la violenza prolungata della scena per risvegliare le coscienze silenziose della gente. Spogliando quest’idea dagli aspetti ideologici vetero marxisti  (lontanissimi dalla volontà e dalla storia del regista), resta un forte impegno politico, volto a scardinare i meccanismi marci della società americana. Ne sono prova le sequenze riuscitissime della baraccopoli, vero e proprio girone infernale dove gli esclusi passano il proprio tempo a riscaldarsi alla luce del televisore. In questi ultimi mesi si vocifera di un possibile remake del film (cosa già successa, con risultati peraltro scadenti, con The Fog – 1980), tanto che i diritti sarebbero già stati comprati dai produttori Marc Abraham e Eric Newman della Strike Entertainment.  Sia 1997: Fuga da New York (Escape from New York – 1981) che Fuga da Los Angeles (Escape from L.A. – 1996) esprimono alla perfezione l’idea di fallimento e deriva della società capitalistica. Soprattutto in Fuga da Los Angeles, Carpenter prende una posizione netta e precisa sul problema del totalitarismo descrivendo una società annientata dall’abuso di potere, dove la diseguaglianza, la povertà e la violenza regnano sovrane. Il regista arriva a profetizzare la necessità di un azzeramento della società per ripartire con un nuovo spirito e ideali rigenerati. Il nichilismo di Carpenter si esprime in tutta la sua potenza nel finale in cui l’eroe protagonista Kurt “Jena – Snake” Russell si prende la responsabilità di “spegnere” la società moderna per tornare nostalgicamente al passato. L’intelligente ironia con cui il regista affronta le due pellicole non smorza assolutamente la forza del messaggio. La rivoluzione  che Carpenter profetizza non è fatta dai guerriglieri da poster (come il clone del Che “Cuervo” Jones), né dall’idealismo borghese di “Utopia” la figlia del presidente. Snake è un eroe classico, chiamato dal regista a ristabilire la sua legge e il suo ordine. Il suo vero e unico nemico è il capitalismo e l’unico modo per  distruggerlo è tornare al passato, salvando “l’Utopia” e restituendo significato alla parola speranza. L’eroe carpenteriano si caratterizza in quasi tutte le pellicole per una spregiudicata avversione al potere costituito. È mosso da ideali giusti e in virtù di questi agisce senza, tuttavia, lasciarsi comprare o corrompere; è un eroe tragicamente destinato a lottare per difendere i più deboli essendo egli stesso emarginato dalla classe dominante. Sia che debba combattere contro fantasmi posseduti (Ice Cube e Natasha Henstridge in Fantasmi su Marte – Ghosts of Mars, 2001), sia che debba affrontare vampiri sanguinari (James Woods in Vampires – 1997), sia che debba salvarsi la pelle dagli attacchi di una forma di vita aliena (Kurt Russell in La cosa – The Thing, 1982), l’eroe è consapevole del destino che lo attende, sia esso l’esilio o la morte. Irridere il potere diventa per il regista una necessità assoluta, che nasconde nella propria coerenza una forza politica straordinaria. L’unico vero scopo del potere è quello di costruire prigioni, di dividere i buoni dai cattivi, i ricchi dai poveri. Prigioni che assumono sembianze strane e terrificanti come una fitta nebbia abitata da fantasmi (The Fog), una macchina assassina, simbolo del modello di vita americano (Christine – 1983), un villaggio maledetto dal quale non si può uscire (In the Mouth of MadnessIl seme della follia, 1994). Insomma, il filo rosso che percorre tutto il cinema di Carpenter è un odio viscerale per il lato più selvaggio del capitalismo, quello che costringe i deboli a farsi da parte, abbassando gli occhi e restando in silenzio. Carpenter alza la voce contro la politica ghettizzante della società americana e lo fa irridendo i suoi simboli e le sue fragili certezze. E così la Statua della Libertà diventa, in Fuga da New York, la centrale di controllo del carcere di massima sicurezza. Lo sguardo attento e analitico del regista appare spesso pervaso da un forte atteggiamento pessimistico. Ne è un meraviglioso esempio il finale di In the Mouth of Darkness, nel quale il protagonista dopo aver tentato di fuggire dal villaggio maledetto si ritrova in un cinema a ridere di se stesso e del suo tragico destino. La sequenza è un’evidente citazione del capolavoro di King Vidor The Crowd (La Folla) del 1928. Villaggio che diventa un esplicita metafora della società e del potere che essa esercita sulle persone costrette a reprimere i propri sentimenti per uniformarsi ai dettami del mercato; concetto rimarcato nel 1995 con Il Villaggio dei dannati, (Village of the Damned, remake del film omonimo del 1960 di Wolf Rilla, tratto dal romanzo I figli dell’invasione di John Windham - 1968), dove una nuova stirpe di bambini belli, biondi e malvagi farà di tutto per affermare il proprio dominio sulla comunità. Gli spunti filosofici affrontati nella pellicola (ma più in generale in tutta la filmografia del regista) contribuiscono a sottolineare la nozione che è l’uomo stesso a generare il male, perché questo è insito nella razza umana; i prodotti di una società malata non possono che essere mostri, generati per diffondere odio, morte e distruzione. Figlio prediletto di questa comunità degenerata non può che essere Micheal Myers (Halloween, 1978), raffigurazione desolata di un mondo privo di senso dove anche l’ultimo barlume di umanità finisce per soccombere sotto i colpi incessanti della follia. In tutto ciò l’uso della violenza diventa strumento necessario per rappresentare un sistema miseramente concepito come una falsa democrazia all’interno della quale il vero potere è nelle mani di poche persone, mentre i poveri e i diseredati continuano, giorno dopo giorno, a crescere arricchiti da schiere di anime disperate. Una società divisa che assiste impotente alla graduale erosione della classe media. È proprio la sconvolgente attualità di queste tematiche a fare di John Carpenter uno dei maestri indiscussi del cinema contemporaneo. Il 2010 dovrebbe essere l’anno del ritorno al grande schermo. I progetti a cui il regista sta lavorando sono molteplici; il primo è The Riot, pellicola interpretata da Nicolas Cage ambientata in un penitenziario durante una rivolta carceraria. Le prime notizie trapelate insinuano che ci sarebbero tutte le tematiche care al regista, una su tutte l’antieroe condannato a morte chiamato a lottare per la libertà. Alcuni problemi in fase di pre-produzione pare ne abbiano bloccato l’uscita nelle sale. Altro progetto per il 2010 è The Ward (Il Guardiano), interpretato dalla 22enne Amber Heard (già vista in Never Back Down), ambientato in un manicomio infestato (ancora un luogo chiuso dal quale fuggire). Le riprese sono iniziate nel giugno 2009 e segnano il ritorno di Carpenter all’horror puro.

 


 

:: letture ::

— Boulenger G., John Carpenter J.: The Prince of Darkness, Birmingham, Silman-James Press, 2003.

— BLiberti F., John Carpenter, Il Castoro, Roma, 1997.

— BVallan D’Agnolo G., Turigliatto R., John Carpenter, Lindau, Torino, 1999.

— BWindham J., The Midwich Cuckoos, 1957, trad. it. I figli dell’invasione, Mondadori, Milano, 1968.

— BZelati P., Il Signore del Male, Un Mondo a Parte, Roma, 2008.

 


 

:: visioni ::

John Carpenter:
Dark Star, Usa, 1974, Dark Star, Passworld, 2006.
Assault on Precint 13, Usa, 1976, Distretto 13: Le brigate della morte, Stormovie, 2008.
The Fog, Usa, 1979, The Fog, Universal Pictures, 2006.
Escape from New York, Usa, 1981, 1997: Fuga da New York, Universal Pictures, 2009.
The Thing, Usa, 1982, La cosa, Universal Pictures, 2008.
Christine, Usa, 1983, Christine – La macchina infernale, Columbia, 2004.
Prince of Darkness (Il Signore del Male), Usa, 1987.
They Live, Usa, 1988, Essi Vivono, BiM, 2008.
In The Mouth of Madness, Usa, 1994, Il seme della follia, Cecchi Gori Home video, 2002.
Village of the Damned, Usa, 1995, Il Villaggio dei dannati, Universal Pictures, 2003.
Escape from L.A., Usa, 1996, Fuga da Los Angeles, Paramount, 2001.
Vampires, Usa, 1997, Vampires, Cecchi Gori Home Video, 2000.
Ghosts of Mars, Usa, 2001, Fantasmi da Marte Columbia, 2006.