La Grande Abbuffata è uno dei
film di maggior successo di Marco Ferreri. È una produzione
italo-francese del 1973 che a pieno titolo echeggia la temperie
politica ed intellettuale che impregna quell’epoca, ornata di
un flebile tocco di genuino e profondo surrealismo. La pellicola
inscena in modo metaforico una sorta di contrappasso delle classi
borghesi, votate all’abbondanza fino a morirne, spinte dal
vuoto del loro stesso eccesso verso l’epilogo ineludibile di
un putrido e decadente decesso. I protagonisti sono Marcello
(Marcello Mastroianni), Michel (Michel Piccoli), Ugo (Ugo Tognazzi) e
Philippe (Philippe Noiret), scialbi appartenenti alla borghesia
medio-alta che si riuniscono in una villa residenziale accompagnati da
scorte esorbitanti di cibo. Dicono per un seminario gastronomico, ma la
loro intenzione è invece molto particolare e forse un
po’ meno intellettiva: vogliono darsi la morte per
indigestione, ingerendo pietanze a dismisura, finendo in definitiva
– e solo in parte loro malgrado – per farsi
avvolgere da quella sozza lordura che coniuga ingordigia, indecenza,
lascivia. È il triste e vacuo spirito del lusso,
probabilmente, che si nutre di maiali, pollame, manzo, formaggi in
smodate quantità, nel contesto di una casa sontuosa e
barocca, traboccante di orpelli pomposi. Sembrerebbe che qui lo spreco
sia stato reso norma nella forma dell’eccesso, quasi a dare
in modo traslato espressione simbolica a quel legame molto intenso che
qualcuno ha visto tra il lusso e il capitalismo (Sombart, 1922).
Dicevamo che i personaggi principali sono quattro. Michel è
un presentatore televisivo con l’ossessione della pulizia e
dell’ordine, data anche la sua indole particolarmente
signorile e sofisticata, così da apparire a volte tanto
delicato da poter lambire una certa effeminatezza, almeno in
superficie. Elegante e ben istruito, suona il pianoforte e ama il
balletto – senza esimersi dal praticarlo avvolto da una
efebica calzamaglia. Segni particolari: apprezza molto i guanti da
cucina, che coniugano a suo dire la morbidezza con il contatto severo
con la materia, garantendo al contempo la resistenza e la delicatezza
utili al lavoro domestico. Ugo è cuoco – oltre che
proprietario di un ristorante – dedito all’haute
cuisine, innamorato dei suoi coltelli. Ha la
responsabilità culinaria del convegno gastronomico-sucida,
ed è lui, infatti, a cucinare con solerzia e spirito
enfatico le pietanze sempre più generose e maestose, tanto
nell’aspetto quanto nell’ambizione. Colazioni,
pranzi e cene si susseguono senza soluzione di continuità,
praticamente lungo le intere giornate, soprattutto grazie alla sua
“artistoide”dedizione ai fornelli. Philippe
è un magistrato amante dell’arte della cucina.
Figlio di una tipica famiglia alto-borghese, ha evidentemente ricevuto
quell’educazione austera e disciplinata, per nulla prodiga di
affetti, tipica della sua classe. Ciò pare averlo incatenato
ad un costante regresso freudiano, dal momento che – sempre
bisognoso di accudimento e dolcezza, lui presumibilmente diabetico
– ha un debole per i seni e le donne prosperose. E tale
è la sua anziana balia, che si occupa di lui completamente,
dispensando anche i piaceri carnali di cui egli ha bisogno, nel
tentativo di erigere una barriera materna a tutti i pericoli della
realtà esterna, donne comprese. Marcello è un
pilota di linea, con un sex appeal certificato, che
trova nella villa una vecchia e lussuosa Bugatti da rimettere a nuovo
(donne e motori, connubio indissolubile…). Potrebbe essere
considerato ai limiti della sessuomania, dal momento che da tempo
immemore non passa giorno senza che egli abbia fatto l’amore.
Proprio per questo, egli non vede di buon occhio il contesto in cui si
svolgono i primi pasti, che vengono accompagnati dalla visione di
diapositive d’epoca che ritraggono donne nude in pose
accattivanti. Questo tentativo di accostare le pulsioni sessuali con
quelle del pasto solo in forma sublimata, ricorrendo soltanto alle
immagini per creare un punto di congiunzione tra istinti di vita
originari, svela piuttosto una grigia funzione meramente compensatoria
del fantasma erotico (Pasini, Crépault, Galimberti, 1988, p.
36). E tutto ciò non è sufficiente per Marcello.
Egli ha bisogno di donne in carne ed ossa, vive e pulsanti, che in fin
dei conti non dispiacerebbero neanche agli altri. Per tale ragione
coinvolge nel simposio tre prostitute d’alto bordo,
professioniste del sesso, a cui si aggiungerà
Andréa, maestra delle elementari giunonica nelle tonde
forme, accogliente e disponibile per pingui pasti e delizie amorose
altrettanto eccedenti. Così, l’estremismo della
gratificazione pulsionale può avere il suo sfogo completo,
nella totale osservanza dei piaceri della carne, nella misura in cui
donne e cibo assumono la medesima funzione in un gioco di
complementarietà tra ingordigie erotiche e
alimentari. Le femmine e le pietanze paiono in prima
istanza acquisire le fattezze di un valore d’uso elementare,
puro e semplice soddisfacimento di bisogni primari irrefrenabili, ma,
pur rimanendo oggetto inerte e funzionale all’appagamento
smodato delle pulsioni, accompagnano invece anche un apparato simbolico
fondamentale. Sono, infatti, vettori di un paradigma di dominio e
possesso senza freni, incontinente, che l’alta borghesia
sembra avere nel proprio codice genetico. Almeno è
ciò che Ferreri pare suggerirci con questo suo imponente
impianto metaforico. È ovvio dunque che il pasto, e
la sua estetica che nel film si sintetizza invero nella grassa
virulenza dell’ingozzarsi, coniuga il semplice bisogno
organico con un significato sociale che unisce così
l’individualismo dell’alimentarsi con forme
simboliche e stilistiche condivise (Simmel, 1910). Nella pellicola, il
presunto contegno dei ceti superiori a tavola (Elias, 1969) a volte
potrebbe anche far capolino nelle faglie di alcuni modi un
po’ artificiosi dei personaggi, ma la cifra del film sembra
invece risiedere nella maniera vorace e compulsiva con cui i
protagonisti “divorano” la materia organica della
donna e del cibo. Un carnaio totale e assoluto, che porta
all’inevitabile redde rationem, al
brutale auto-annientamento di una classe sociale che si rifugia nella
falsa eleganza della forma, ma che è
piuttosto assetata di dominio, tanto da essere travolta dal proprio
stesso impeto, in un contrappasso sudicio e spropositato rappresentato
dall’indigestione virulenta, senza limiti come lo
è l’ansia di potere. Il potere pare essere,
insomma, come l’eccesso di cibo: genera pericolose
indigestioni e, nel suo punto apicale, al suo massimo stadio, diviene
arma di autodistruzione. I quattro protagonisti vivono una
vera e propria liturgia del pasto, che ha la morte e il sesso come
elementi consustanziali. Essi si ritirano in uno spazio sacro,
separato, interdetto (Durkheim, 1912), per dar corpo ad una vera e
propria ritualità. Forse per condividere comunque una forma
di morte partecipata, che renda più sfumata la condizione
solitaria di ogni morente (Elias, 1982), certo per cercare una esaltata
“con-fusione” che, in un crescendo impetuoso,
porterà alla loro stessa fine in un sentimento di
complicità simbolica. Ma questa sacralità
rituale, anziché preservare il puro come spesso capita a
buona parte dei riti (Cazeneuve, 1971), sembra fare
dell’impurità la sua sostanza consacrata.
Perché la villa, tempio solenne nel suo manierismo
monumentale, diviene poco alla volta ricettacolo di nauseabondo
lerciume, condito dal fetore dei cadaveri, della carne rimasta, della
merda che viene sprigionata dall’esplosione di un gabinetto e
che invade le stanze. L’aspetto falsamente lindo dei ceti
alti pare mostrare così la sua essenza più
veritiera. E, uno per volta, i quattro amici saranno uccisi
dall’indigestione, assistiti dalla sola Andréa,
l’unica delle donne rimasta, forse per un innato istinto di
comprensione materna che il suo corpo generoso e carnoso ben esplicita
(…è talmente materna da conquistare subito
l’amore di Philippe, che la sposa idealmente pur
condividendola diligentemente con gli altri). Ella non esita a
soddisfare i desideri di ognuno, a dispensare attenzioni e tolleranza,
a condividere fino al mortifero epilogo erotismo e bivacchi. Ogni
decesso è un evidente contrappasso personale, oltre che di
classe. Il primo a morire è Marcello che non riesce a
sopportare la sua prima defaillance erotica e
dà di matto. Viene colto da un malore fulminante mentre
prova a fuggire via sulla Bugatti da poco riparata. La morte lo
colpisce così in un momento di bilioso e dissenziente
malcontento, trasformandolo in una statua ghiacciata dal freddo della
notte. Lo segue Michel, che lungo l’intero simposio
è falcidiato da una fastidiosa aerofagia che annichilisce la
sua raffinata indole. Una devastante ultima sequenza di peti sovrasta
le note sofferenti e scoordinate del pianoforte che egli
prova a suonare, arrecandogli una morte violenta come
l’inondazione di escrementi che lo aveva travolto la sera
precedente. Viene poi il turno di Ugo, ucciso da un monumentale
paté che egli stesso ha cucinato. Una pietanza che doveva
essere il suo capolavoro, ma che invece risulta drammaticamente
immangiabile. Per nulla intimorito, Ugo lo consuma avidamente, e trova
in esso il proprio trapasso, mentre la prodiga Andréa si
prende cura del suo ultimo svago erotico. La morte conclusiva
è quella di Philippe, che esala il proprio ultimo respiro
mangiando imperterrito dei budini a forma di seni prosperosi, mentre
stringe a sé la foto in cui da neonato succhiava il latte
dal seno materno. Accanto a lui la sempre misericordiosa
Andréa, a completare il quadro di un Edipo irrimediabilmente
irrisolto. Certo, pare implicitamente suggerire Ferreri, se
l’Edipo simboleggia il senso di colpa, non è certo
la colpa, ovvero il senso di responsabilità, a
contraddistinguere i quattro protagonisti. Eppure
così dovrebbe essere per la borghesia, questa classe guida
della modernità, che con la sua convinta spinta
all’autonomia, all’individualizzazione, proprio
dell’idea di responsabilità dovrebbe farsi
portavoce. Tutt’altro! Le morti dei quattro amici sono
scandite da una corposa vergogna (che molti identificano come
l’esatto contrario della colpa), da quel senso di
inadeguatezza che pare provenire dall’esterno, contrario alla
libertà dei moderni, e che presumibilmente rappresenta la
loro volontà di infantile deresponsabilizzazione. D’altronde,
l’auto-annientamento per eccesso ed ingordigia, in un
pantheon dell’abbondanza quale è la villa in cui i
quattro si rinchiudono, non sembra altro che una riproposizione di una
liturgia estrema dei consumi, in un’epoca in cui proprio nel
consumismo è possibile ritrovare quelle soluzioni
identitarie a cui accedere con fervore religioso, ebbri di
quell’effervescenza collettiva di durkheimiana memoria (Lyon,
2000). Soluzioni esterne di alimentazione
dell’identità, che liberano dal pesantissimo
fardello della scelta e dell’autodeterminazione. Si
tratta, verosimilmente, di un ulteriore segno del naufragio di una
classe e del progetto di modernità che ha costruito. Almeno
questo sembra, ancora, uno dei significati portanti che Ferreri ha
inteso delineare nel suo film. Allora, se la classe operaia non
andrà in paradiso, potrà se non altro
accontentarsi qualche volta di vedere qualche signorile benestante
districarsi a fatica nei liquami generati dai propri eccessi, lontano
anni luce dall’ethos morigerato, laborioso e intraprendente
che ha forgiato l’immagine della borghesia.
:: letture ::
— Cazeneuve J., Sociologie du rite, 1971,
trad. it. La sociologia del rito, il Saggiatore,
Milano, 1974.
— Durkheim, É., Les formes
élementaires se la vie religieuse, 1912, trad. it.
Le forme elementari della vita religiosa, Meltemi,
Roma 2005.
— Elias, N., Über den Prozess der
Zivilastion. I. Wandlungen des Verhaltens in den Weltlichen
Oberschichten des Abenlandes, 1969, trad. it. La
civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna
1998.
— Elias, N., Über die Einsamkeit der
Sterbenden in useren Tagen, 1982, trad. it. La
solitudine del morente, Il Mulino, Bologna, 1985
— Lyon D., Jesus in Disneyland. Religion in Postmodern
Times, 2000, trad. it. Gesù a
Disneyland. La religione nell’era postmoderna,
Editori Riuniti, Roma, 2002.
— Pasini W., Crépault C., Galimberti U., L’immaginario
sessuale, Raffaello Cortina, Milano, 1987.
— Simmel, G., Soziologie der Mahlzeit, 1910,
trad. it. Sociologia del pasto, in Estetica
e Sociologia, Armando, Roma, 2006.
— Sombart W., Die Geburt des Kapitalismus aus dem Luxus,
1922, trad. it. Dal lusso al capitalismo, Armando,
Roma, 2003.
:: visioni ::
— Ferreri M., La grande bouffe,
Francia/Italia, 1973, La grande abbuffata, Medusa,
2004.
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