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...e se la tartaruga di Zenone avesse preso la scala mobile?
di 
Livio Santoro

tartarugaCi sono gesti quotidiani che ci accompagnano giorno dopo giorno. Ci si può interrogare circa il perché di questi gesti, ma si può tranquillamente non farlo, certamente nessuno lo impone. Si prenda la sveglia, diciamo 7:30 del mattino, occhi gonfi e scarsa linearità dell’incedere. La macchinetta del caffè. C’è chi la pulisce la sera prima, chi la lascia sporca, non importa. Entrambi i tipi di persona riconoscono i tre elementi del manufatto: un serbatoio, un filtro, un rubinetto raccoglitore. Si mette acqua nel primo, polvere di caffè nel secondo, si avvita tutto e si accende il fornello. Il calore della fiamma fa evaporare l’acqua che a sua volta passa attraverso il filtro in cui è sistemata la polvere nera, al contatto avviene la condensa che sale verso l’alto sotto forma della classica bevanda, e se si è bravi o fortunati, si riesce a conservare anche quella schiumetta superficiale universalmente nota come cremina. Niente di più semplice. Si direbbe un meccanismo quasi hegeliano per la linearità degli elementi e dei gesti che lo caratterizzano. Acqua, polvere, poi bevanda. Facilissimo.
Dopo ci si veste, naturalmente, il caffè è per dare il benvenuto alla giornata e si esce di casa. Chi per il lavoro, chi per lo studio, chi per i fatti suoi, non è questo il luogo per discuterne, ovviamente. Ancora susseguirsi di gesti quotidiani, di elementi quasi impercettibilmente uguali a se stessi giorno dopo giorno.
Ci si deve recare da qualche parte, e ci si muove con automezzi, chi sceglie l’auto, chi l’autobus, chi la metropolitana. Ci si soffermi su questi ultimi. Ancora mezzi addormentati, il gomito appoggiato sul corrimano della scala mobile, dopo tre, quattro fermate di vagoni affollatissimi a salire verso la superficie. Più si sale, più il gomito va avanti da solo, i piedi restano piantati sullo stesso scalino, ma il braccio avanza e trascina l’aria sonnacchiosa del volto appoggiato sul pugno fin quando ci si accorge che il corrimano non ha la stessa velocità delle scale, o che forse non deve percorrere lo stesso tragitto, o magari entrambe le cose.
Ecco che se per la macchinetta del caffè Hegel aveva fatto mostra della sua brutalizzazione, per la scala mobile serve un’altra storia. Si provi con Achille, la tartaruga e Zenone di Elea. Questa storia è più che risaputa: Achille e la tartaruga sono impegnati in una corsa, Achille, che di cognome fa Piè Veloce, dà alla tartaruga un vantaggio di qualche passo. I contendenti partono. Achille non raggiungerà mai la tartaruga, dice Zenone, in quanto, per farlo dovrà coprire una certa distanza. Questa distanza è scomponibile all’infinito, dunque Achille dovrà percorrere prima la metà di questa distanza, poi la metà della metà, poi ancora la metà della metà della metà, e così all’infinito, senza mai raggiungere concretamente la tartaruga sua rivale.
Molto simile a questa storia è quella del giavellotto nello stadio. Per lo stesso motivo per cui Achille non raggiungerà mai la tartaruga, un giavellotto scagliato da una parte all’altra di uno stadio non arriverà mai a destinazione. 
I paradossi di Zenone, in generale, considerano due grandi gruppi di argomenti: quelli contro l’ipotesi del movimento e quelli contro l’ipotesi della pluralità. I paradossi del giavellotto e dello stadio e di Achille e della tartaruga fanno parte degli argomenti contro l’ipotesi del movimento. I paradossi sono argomenti fatti per confutare Eraclito e la reale, concreta possibilità del movimento: lo spazio suddivisibile all’infinito non può essere percorso nel tempo in tutte le sue innumerevoli parti. Jorge Luis Borges ha scritto: “Zenone è incontestabile, a meno che non confessiamo la natura ideale dello spazio e del tempo. Accettiamo l’idealismo, accettiamo la crescita concreta di quanto percepiamo, ed eluderemo il pullulare di abissi del paradosso” (1932, p. 114). E sì che il paradosso è forse uno degli strumenti più affascinanti del pensiero occidentale, perché fa aggrottare le sopracciglia. È abissale, come dice Borges, perché mette l’uomo davanti ad un interrogativo tanto banale quanto faticoso. Appartiene a quella lotta costante tra razionalismo ed idealismo dalla quale sono nate tutte le idee e tutte quelle cose che ci stanno intorno talvolta anche troppo silenziosamente.
Ma si faccia adesso un piccolo passo indietro, si ritorni alla questione della scala mobile. Il corrimano si muove più velocemente della scala, e questo è un fatto. Zenone ne trarrebbe, più o meno, le siffatte conclusioni: il punto in cui poggia il mio gomito non riuscirà mai a raggiungere il punto della scala su cui poggiano i miei piedi in quanto, per farlo, avrebbe da percorrere prima la distanza equivalente alla metà degli scalini, ma prima ancora la metà, e la metà della metà, e così all’infinito. Per questo motivo il corrimano della scala non sarebbe altro che un nastro infinito che continua a ruotare facilitando gli interrogativi abissali degli assonnati pendolari.
Oppure semplicemente il pendolare, stanco, con la sua giornata lunga davanti non si pone domande, lascia che il corrimano vada per la sua strada, sia essa infinita o sia essa finita, salvo ritirare il gomito un po’ più indietro, ogni volta che la distanza con il busto si è fatta troppo lunga.
Qual è la differenza sostanziale che separa l’hegeliana macchinetta del caffè dalla scala mobile di Zenone? O meglio, quali sono le differenze?
La macchinetta del caffè è visibile, non nasconde nulla, non ha ingranaggi, pezzi chiusi in un sistema di viti e di rondelle, non ha catene né motori. È semplicemente fatta di tre pezzi di alluminio (anche una guarnizione di gomma certo), e mostra di sé quanto ha da dire. La scala mobile si nasconde, scende dabbasso, il corrimano scompare nella voluta della conclusione della scala, diventa sottosuolo, elemento circa il quale interrogarsi perché invisibile. Ma in quanti si chiedono, nel quotidiano, del funzionamento della scala mobile? Questa è la domanda principale sebbene sia una domanda scontata. Tuttavia è un po’ il succo di quello che Max Weber ha definito come il disincanto del mondo (M. Weber, 1917). Ossia l’uomo è talmente immerso in un sistema di meccanismi complessi e da lui distanti che non si chiede del perché e del per come del loro funzionamento, e tuttavia li utilizza in maniera appropriata quanto più non potrebbe. Disincanto significa (tra le altre cose) che non c’è bisogno di chiedersi e di avere le competenze circa la riproduzione e il funzionamento interno degli strumenti utilizzati, c’è qualcuno che lo fa per noi, qualche specialista nascosto all’interno delle numerosissime maglie di un sistema produttivo pervasivo che si chiama capitalismo, o tardo capitalismo (immateriale, liquido etc. etc. si direbbe adesso) per utilizzare una definizione più attuale e condivisa. A questo si accompagnerebbe una necessaria tendenza all’abbandono degli antichi impianti di spiegazione del reale magico-animistici, con la conseguente secolarizzazione dei diversi imperativi religiosi. Alla base della questione del disincanto del mondo sta però anche un tratto che non è poi troppo sottile, e che sembra dare ragione a fantomatiche teorie profetizzanti una inevitabile, necessaria omeostasi generale del senso. Si parla di un periodo in cui al disincanto fa da sfondo una sorta di silenzioso reincanto, un movimento verso il quale si sarebbe riportati alla necessità di scoprire il perché delle cose quotidiane, il per come di queste stesse cose. Come a dire che per un po’ il disincanto ha retto, ma che la sua pervasività estrema e onnicomprensiva non ha fatto altro che negare se stessa, imponendo il moto contrario di domande quotidiane e di risposte del singolo. A questo proposito si ascolti ancora Weber, lo si faccia per un attimo. Il disincanto del mondo sta dalla stessa parte della tensione testimoniata dal paradosso di Zenone. Se si vive in un mondo in cui la produzione specializzata degli strumenti che permettono la riproduzione della realtà non fa altro che raccontare di una razionalizzazione sempre crescente, è vero, lo si conceda, anche il contrario. È lo stesso Weber a sostenerlo quando ci parla, per esempio, delle sue forme di legittimazione del potere. Senza voler scadere in una presentazione pedissequa di una teorizzazione risaputa, si ricordi di come esistano tre forme per cui il potere si mostra come tale davanti alla realtà: quella tradizionale, quella legal-razionale, quella carismatica. A ben vedere la prima forma di legittimazione del potere significa bene o male che non è importante cosa sia chi ricopre determinate cariche, l’importante è chi sia, a quale discendenza appartenga, oppure da quale discendenza sia stato nominato. È il caso delle monarchie. Il secondo caso, quello che si addice alla nostra forma social-democratica matura, è quello della legittimazione elettorale, diciamo: esistono delle regole, e queste regole devono essere valide per tutti, chiunque può accedere alle sfere del potere in quanto la garanzia che vi sta alla base è quella del bene comune, della legalità delle modalità di scelta e di assunzione del potente. In buona sostanza non si ha il potere in base a ciò che si è dalla nascita, ma in base a ciò che si sa fare. È la tensione che in sociologia si impara subito come opposizione tra ascrittività ed acquisività. Ovviamente si tenga comunque sempre presente la natura tipico-ideale di queste semplificazioni.
Ecco il terzo tipo di legittimazione di potere: quello carismatico. Esso non ha nulla di razionale, né apparentemente né nella sostanza, almeno così pare. Anzi, forse non c’è nulla di più irrazionale dell’affidarsi ad un soggetto per la sola forza del suo carisma. Gustave Le Bon, nel suo La psicologia delle folle (1895) aveva già parlato di come avviene il contratto silenzioso di potere tra una personalità carismatica e un popolo sottostante. Bastano pochi accorgimenti: la ripetizione, l’utilizzo di formule semplici ed immediate, la ridondanza… e magari (o forse soprattutto) una bella faccia. La personalità carismatica è il tipo ideale del potere del nostro tempo, per quanto la legittimazione legal-razionale sembri forse più adeguata in questo ruolo. Certo si elegge legalmente, si vota, si presentano le candidature, si fa mostra di un eloquio tecnico, è ovvio. Ma la sostanza che modifica la concezione di uno o di un altro individuo non sta nella considerazione razionale delle parole o delle realizzazioni di un candidato o di una schiera di candidati. C’è un fatto che sta al di sotto di questo. Il carisma, appunto. Elemento irrazionale, fatto di umori e di profumi più che della certezza del fatto. E il carisma è ciò che può nascere proprio in una situazione in cui l’estrema razionalizzazione di determinati ambiti non fa altro che disincantare l’individuo, che renderlo, a questo punto, soggetto non più interrogativo. E sì che una delle maggiori ammissioni sartriane è proprio che lo squilibrio esistenziale tra il mondo e l’uomo pone quest’ultimo, nei confronti dell’essere, “in atteggiamento interrogativo” (1943). Ci si abbandona al carisma quando non ci si chiede il perché delle cose, quando la faccia resta atteggiata in una posa millenaria di attesa passiva, senza che possano esistere particolari stati d’animo. Il carisma è assimilabile ad un qualsiasi stato di stupore isterico, ci si lascia andare dalle cose. Si diventa parte di un tutto di cui non si conosce la forma generale, e si è sicuri del funzionamento di questo tutto pur non sapendone veramente nulla.
Allora si immagini il volto di Achille e della tartaruga sotto questa nuova luce. Magari Achille, allora, non raggiunge la tartaruga perché si soffermerà a chiedersi il perché delle cose, il perché circa il fatto che potrebbe o non potrebbe raggiungere la sua avversaria nella corsa. E se la tartaruga, invece di correre con le proprie forze, prendesse una scala mobile?

 


 

:: letture ::

— J. L. Borges, Discusión, 1932, trad. it. Discussione, Adelphi, Milano, 2002.

— G. Le Bon, Psychologie des foules, 1895, trad. it. Psicologia delle folle, TEA, Milano, 2004.

— J. P. Sartre, L'être et le néant, 1943, trad. it. L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 1997.

— M. Weber, Wissenschaft als Beruf, 1919, trad. it., La scienza come professione in ID, La scienza come professione. La politica come professione, Edizioni di Comunità, Milano, 2001.