Ci sono gesti quotidiani che ci accompagnano giorno dopo
giorno. Ci si può interrogare circa il perché di
questi gesti, ma si può tranquillamente non farlo,
certamente nessuno lo impone. Si prenda la sveglia, diciamo 7:30 del
mattino, occhi gonfi e scarsa linearità
dell’incedere. La macchinetta del caffè.
C’è chi la pulisce la sera prima, chi la lascia
sporca, non importa. Entrambi i tipi di persona riconoscono i tre
elementi del manufatto: un serbatoio, un filtro, un rubinetto
raccoglitore. Si mette acqua nel primo, polvere di caffè nel
secondo, si avvita tutto e si accende il fornello. Il calore della
fiamma fa evaporare l’acqua che a sua volta passa attraverso
il filtro in cui è sistemata la polvere nera, al contatto
avviene la condensa che sale verso l’alto sotto forma della
classica bevanda, e se si è bravi o fortunati, si riesce a
conservare anche quella schiumetta superficiale universalmente nota
come cremina. Niente di più semplice. Si direbbe un
meccanismo quasi hegeliano per la linearità degli elementi e
dei gesti che lo caratterizzano. Acqua, polvere, poi bevanda.
Facilissimo. Dopo ci si veste, naturalmente, il
caffè è per dare il benvenuto alla giornata e si
esce di casa. Chi per il lavoro, chi per lo studio, chi per i fatti
suoi, non è questo il luogo per discuterne, ovviamente.
Ancora susseguirsi di gesti quotidiani, di elementi quasi
impercettibilmente uguali a se stessi giorno dopo giorno. Ci
si deve recare da qualche parte, e ci si muove con automezzi, chi
sceglie l’auto, chi l’autobus, chi la
metropolitana. Ci si soffermi su questi ultimi. Ancora mezzi
addormentati, il gomito appoggiato sul corrimano della scala mobile,
dopo tre, quattro fermate di vagoni affollatissimi a salire verso la
superficie. Più si sale, più il gomito va avanti
da solo, i piedi restano piantati sullo stesso scalino, ma il braccio
avanza e trascina l’aria sonnacchiosa del volto appoggiato
sul pugno fin quando ci si accorge che il corrimano non ha la stessa
velocità delle scale, o che forse non deve percorrere lo
stesso tragitto, o magari entrambe le cose. Ecco che se per la
macchinetta del caffè Hegel aveva fatto mostra della sua
brutalizzazione, per la scala mobile serve un’altra storia.
Si provi con Achille, la tartaruga e Zenone di Elea. Questa storia
è più che risaputa: Achille e la tartaruga sono
impegnati in una corsa, Achille, che di cognome fa Piè
Veloce, dà alla tartaruga un vantaggio di qualche passo. I
contendenti partono. Achille non raggiungerà mai la
tartaruga, dice Zenone, in quanto, per farlo dovrà coprire
una certa distanza. Questa distanza è scomponibile
all’infinito, dunque Achille dovrà percorrere
prima la metà di questa distanza, poi la metà
della metà, poi ancora la metà della
metà della metà, e così
all’infinito, senza mai raggiungere concretamente la
tartaruga sua rivale. Molto simile a questa storia
è quella del giavellotto nello stadio. Per lo stesso motivo
per cui Achille non raggiungerà mai la tartaruga, un
giavellotto scagliato da una parte all’altra di uno stadio
non arriverà mai a destinazione. I
paradossi di Zenone, in generale, considerano due grandi gruppi di
argomenti: quelli contro l’ipotesi del movimento e quelli
contro l’ipotesi della pluralità. I paradossi del
giavellotto e dello stadio e di Achille e della tartaruga fanno parte
degli argomenti contro l’ipotesi del movimento. I paradossi
sono argomenti fatti per confutare Eraclito e la reale, concreta
possibilità del movimento: lo spazio suddivisibile
all’infinito non può essere percorso nel tempo in
tutte le sue innumerevoli parti. Jorge Luis Borges ha scritto:
“Zenone è incontestabile, a meno che non
confessiamo la natura ideale dello spazio e del tempo. Accettiamo
l’idealismo, accettiamo la crescita concreta di quanto
percepiamo, ed eluderemo il pullulare di abissi del
paradosso” (1932, p. 114). E sì che il paradosso
è forse uno degli strumenti più affascinanti del
pensiero occidentale, perché fa aggrottare le sopracciglia.
È abissale, come dice Borges, perché mette
l’uomo davanti ad un interrogativo tanto banale quanto
faticoso. Appartiene a quella lotta costante tra razionalismo ed
idealismo dalla quale sono nate tutte le idee e tutte quelle cose che
ci stanno intorno talvolta anche troppo silenziosamente. Ma si
faccia adesso un piccolo passo indietro, si ritorni alla questione
della scala mobile. Il corrimano si muove più velocemente
della scala, e questo è un fatto. Zenone ne trarrebbe,
più o meno, le siffatte conclusioni: il punto in cui poggia
il mio gomito non riuscirà mai a raggiungere il punto della
scala su cui poggiano i miei piedi in quanto, per farlo, avrebbe da
percorrere prima la distanza equivalente alla metà degli
scalini, ma prima ancora la metà, e la metà della
metà, e così all’infinito. Per questo
motivo il corrimano della scala non sarebbe altro che un nastro
infinito che continua a ruotare facilitando gli interrogativi abissali
degli assonnati pendolari. Oppure semplicemente il pendolare,
stanco, con la sua giornata lunga davanti non si pone domande, lascia
che il corrimano vada per la sua strada, sia essa infinita o sia essa
finita, salvo ritirare il gomito un po’ più
indietro, ogni volta che la distanza con il busto si è fatta
troppo lunga. Qual è la differenza sostanziale che
separa l’hegeliana macchinetta del caffè dalla
scala mobile di Zenone? O meglio, quali sono le differenze? La
macchinetta del caffè è visibile, non nasconde
nulla, non ha ingranaggi, pezzi chiusi in un sistema di viti e di
rondelle, non ha catene né motori. È
semplicemente fatta di tre pezzi di alluminio (anche una guarnizione di
gomma certo), e mostra di sé quanto ha da dire. La scala
mobile si nasconde, scende dabbasso, il corrimano scompare nella voluta
della conclusione della scala, diventa sottosuolo, elemento circa il
quale interrogarsi perché invisibile. Ma in quanti si
chiedono, nel quotidiano, del funzionamento della scala mobile? Questa
è la domanda principale sebbene sia una domanda scontata.
Tuttavia è un po’ il succo di quello che Max Weber
ha definito come il disincanto del mondo (M. Weber,
1917). Ossia l’uomo è talmente immerso in un
sistema di meccanismi complessi e da lui distanti che non si chiede del
perché e del per come del loro funzionamento, e tuttavia li
utilizza in maniera appropriata quanto più non potrebbe.
Disincanto significa (tra le altre cose) che non
c’è bisogno di chiedersi e di avere le competenze
circa la riproduzione e il funzionamento interno degli strumenti
utilizzati, c’è qualcuno che lo fa per noi,
qualche specialista nascosto all’interno delle numerosissime
maglie di un sistema produttivo pervasivo che si chiama capitalismo, o
tardo capitalismo (immateriale, liquido etc. etc. si direbbe adesso)
per utilizzare una definizione più attuale e condivisa. A
questo si accompagnerebbe una necessaria tendenza
all’abbandono degli antichi impianti di spiegazione del reale
magico-animistici, con la conseguente secolarizzazione dei diversi
imperativi religiosi. Alla base della questione del disincanto del
mondo sta però anche un tratto che non è poi
troppo sottile, e che sembra dare ragione a fantomatiche teorie
profetizzanti una inevitabile, necessaria omeostasi generale del senso.
Si parla di un periodo in cui al disincanto fa da sfondo una sorta di
silenzioso reincanto, un movimento verso il quale si sarebbe riportati
alla necessità di scoprire il perché delle cose
quotidiane, il per come di queste stesse cose. Come a dire che per un
po’ il disincanto ha retto, ma che la sua
pervasività estrema e onnicomprensiva non ha fatto altro che
negare se stessa, imponendo il moto contrario di domande quotidiane e
di risposte del singolo. A questo proposito si ascolti ancora Weber, lo
si faccia per un attimo. Il disincanto del mondo sta dalla stessa parte
della tensione testimoniata dal paradosso di Zenone. Se si vive in un
mondo in cui la produzione specializzata degli strumenti che permettono
la riproduzione della realtà non fa altro che raccontare di
una razionalizzazione sempre crescente, è vero, lo si
conceda, anche il contrario. È lo stesso Weber a sostenerlo
quando ci parla, per esempio, delle sue forme di legittimazione del
potere. Senza voler scadere in una presentazione pedissequa di una
teorizzazione risaputa, si ricordi di come esistano tre forme per cui
il potere si mostra come tale davanti alla realtà: quella
tradizionale, quella legal-razionale, quella carismatica. A ben vedere
la prima forma di legittimazione del potere significa bene o male che
non è importante cosa sia chi ricopre determinate cariche,
l’importante è chi sia, a quale discendenza
appartenga, oppure da quale discendenza sia stato nominato.
È il caso delle monarchie. Il secondo caso, quello che si
addice alla nostra forma social-democratica matura, è quello
della legittimazione elettorale, diciamo: esistono delle regole, e
queste regole devono essere valide per tutti, chiunque può
accedere alle sfere del potere in quanto la garanzia che vi sta alla
base è quella del bene comune, della legalità
delle modalità di scelta e di assunzione del potente. In
buona sostanza non si ha il potere in base a ciò che si
è dalla nascita, ma in base a ciò che si sa fare.
È la tensione che in sociologia si impara subito come
opposizione tra ascrittività ed acquisività.
Ovviamente si tenga comunque sempre presente la natura tipico-ideale di
queste semplificazioni. Ecco il terzo tipo di legittimazione
di potere: quello carismatico. Esso non ha nulla di razionale,
né apparentemente né nella sostanza, almeno
così pare. Anzi, forse non c’è nulla di
più irrazionale dell’affidarsi ad un soggetto per
la sola forza del suo carisma. Gustave Le Bon, nel suo La
psicologia delle folle (1895) aveva già parlato di
come avviene il contratto silenzioso di potere tra una
personalità carismatica e un popolo sottostante. Bastano
pochi accorgimenti: la ripetizione, l’utilizzo di formule
semplici ed immediate, la ridondanza… e magari (o forse
soprattutto) una bella faccia. La personalità carismatica
è il tipo ideale del potere del nostro tempo, per quanto la
legittimazione legal-razionale sembri forse più adeguata in
questo ruolo. Certo si elegge legalmente, si vota, si presentano le
candidature, si fa mostra di un eloquio tecnico, è ovvio. Ma
la sostanza che modifica la concezione di uno o di un altro individuo
non sta nella considerazione razionale delle parole o delle
realizzazioni di un candidato o di una schiera di candidati.
C’è un fatto che sta al di sotto di questo. Il
carisma, appunto. Elemento irrazionale, fatto di umori e di profumi
più che della certezza del fatto. E il carisma è
ciò che può nascere proprio in una situazione in
cui l’estrema razionalizzazione di determinati ambiti non fa
altro che disincantare l’individuo, che renderlo, a questo
punto, soggetto non più interrogativo. E sì che
una delle maggiori ammissioni sartriane è proprio che lo
squilibrio esistenziale tra il mondo e l’uomo pone
quest’ultimo, nei confronti dell’essere,
“in atteggiamento interrogativo” (1943). Ci si
abbandona al carisma quando non ci si chiede il perché delle
cose, quando la faccia resta atteggiata in una posa millenaria di
attesa passiva, senza che possano esistere particolari stati
d’animo. Il carisma è assimilabile ad un qualsiasi
stato di stupore isterico, ci si lascia andare dalle cose. Si diventa
parte di un tutto di cui non si conosce la forma generale, e si
è sicuri del funzionamento di questo tutto pur non sapendone
veramente nulla. Allora si immagini il volto di Achille e
della tartaruga sotto questa nuova luce. Magari Achille, allora, non
raggiunge la tartaruga perché si soffermerà a
chiedersi il perché delle cose, il perché circa
il fatto che potrebbe o non potrebbe raggiungere la sua avversaria
nella corsa. E se la tartaruga, invece di correre con le proprie forze,
prendesse una scala mobile?
:: letture ::
— J. L. Borges, Discusión, 1932,
trad. it. Discussione, Adelphi, Milano, 2002.
— G. Le Bon, Psychologie des foules, 1895, trad. it. Psicologia
delle folle, TEA, Milano, 2004.
— J. P. Sartre, L'être et le néant,
1943, trad. it. L’essere e il nulla, Il
Saggiatore, Milano, 1997.
— M. Weber, Wissenschaft als Beruf, 1919,
trad. it., La scienza come professione in ID, La
scienza come professione. La politica come
professione, Edizioni di Comunità, Milano, 2001.
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