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Giù, in fondo al senso di colpa, fino a sfiorarne la superficie
di 
Erika Dagnino
colpa

Uomo o donna? Mostro, decisamente
Jean Genet, Il Funambolo


La radice della coscienza come rapporto di sé al proprio operato. Mettere di fronte a una tale radicalità di sentire se stessi anche e soprattutto al di là di ogni evidenza, per quello che si evoca: l’evocazione è la vera riconoscibilità di se stessi. Non solo come atto meccanico: tutto quello che si fa per venire incontro alle proprie radici, alle radici profonde e fonde della propria persona e del proprio stare nel mondo. Quasi circolasse un elemento sanguinoso che è certamente un sangue fisico, ma è anche e soprattutto un sangue dell’anima. 

Sono trascinato dentro la finestra del pianterreno di una casa mediante una fune intorno al collo e sollevato, sanguinante e dilaniato, senza riguardo, come da uno che sia disattento, attraverso tutti i soffitti delle stanze, i mobili, i muri e i solai, finché in alto sul tetto appare il laccio vuoto che soltanto allo spezzarsi delle tegole ha perduto anche i miei resti. (Kafka, 2002, p. 372).

Se consideriamo il senso di colpa, non quello indotto logicamente da consueti e consentiti principi morali, ma inteso e coincidendo con il senso del terrore, ne riconosciamo la necessità. Vero esame del proprio comportamento riconosciuto come sbagliato. Come un essere nel mondo che distanzia da ogni prova di immortalità. Allo stesso modo il perdono assume, o meglio, ha, un senso radicale, consistendo in un qualcosa che lavora dentro. Ancora, con una radicalità assoluta. Di un’assolutezza che va ben al di là della citazione, persino al di là della stessa coscienza e comprensione del mondo. Se non indotto da banali logiche morali, il senso di colpa ha comunque un referente etico, restando sempre l’interiorizzazione di una norma, e anche un assorbimento. Come nel caso di Kafka rispetto al padre con accezione di legge.

Tu invece un vero Kafka in quanto a forza, salute, appetito, potenza di voce, capacità oratoria, autosufficienza, senso di superiorità, tenacia, presenza di spirito, conoscenza degli uomini, e per una certa generosità, naturalmente con tutti i difetti e le debolezze tipici di questi pregi, verso i quali ti sospingono il tuo carattere e, a volte, la tua irascibilità. (Kafka, 1987, p.13). 

Sempre si evidenzia un riferimento esterno che diventa interiore.

Anche dentro la cabina mi facevo pena, non solo davanti a te, ma davanti al mondo intero, perché tu eri per me la misura di tutte le cose. (Kafka, 1987, p.15). 

Forse, in caso contrario, non ci sarebbe senso di colpa, che nel momento stesso in cui si innesca assume in sé elementi di incoercibile, di ineluttabile, una sorta di nemesi greca.
Qui ci si prova a credere poco al pentimento lucido razionale che porta a pensare di non commettere una seconda volta, se non addirittura ripetutamente, un medesimo errore, il quale, certo, dal momento che è già stato compiuto ha avuto e continua ad avere in qualche modo influenza. Il senso di colpa rischia di essere una sorta di congelamento della norma dentro di sé, che può essere tragico. Adozione di un comportamento libero utopisticamente da norme e norma stessa interiorizzata, può rivelarsi devastante anche perché il senso di colpa è memoria dell’ineludibile: ormai il passato è commesso, i fatti, i moti, movimenti, i gesti. Ma non coincide necessariamente con quella forma di pentimento che può essere portatrice di cambiamento: il senso di colpa si configura al contrario, e al di sopra della propria volontà, come una sorta di coma, inteso cioè non come stato dinamico, ma giacente, per questo può manifestarsi ed essere tanto doloroso e buio, immutabile: e l’immutabilità è dello stesso e dallo stesso senso di colpa. Si rimane inchiodati a ciò che si è commesso o a ciò a cui riconduce il senso di colpa. Il passato a cui si resta rivolti riporta a qualcosa che permane per sempre. Fatto per non spegnersi, il senso di colpa è autoalimentazione, autofagocitazione, se ad un aumento della sua stessa natura congelata, fredda, immutabile, al tempo stesso sempre più gravosa, corrisponde una dinamica, questa si muove come sommatoria, non per evoluzione, ma, involvente, gira su se stesso l’unico mutamento possibile, avvenendo per quantità, non per qualità. Il senso di colpa, somma di tutti i sensi di colpa possibili, è una sorta di costante rinnovarsi nel senso quantitativo, pura configurazione materiale. Quindi il dramma. Per definizione eterno soffrire, tribolare, tornare su se stessi, permanere in una perenne dannazione. Un piccolo inferno privato, si accetti l’immagine banale. Mancanza di libertà, blocco, congelamento, ghiaccio che è paralisi per antonomasia. 
La tragedia di tutto questo è una sorta di umbratilità, entro la stessa corporeità a cui per sua natura appartiene il senso di colpa, e viceversa. Permanendo l’interiorizzazione anche di qualcosa di molto aereo, difficile da definire, trasparenza di qualcosa di molto materiale, senso di colpa che, pur addicendosi in misura maggiore allo spirito, è anche assolutamente fisico.
Siamo così di fronte al congelamento del fiume dell’anima. Gelido, glaciale, gelido; sorta di dimensione di tortura; un continuo rimanere crocifissi. Non dimentichiamo che il senso di colpa può scaturire anche per qualcosa che si potrebbe fare, che ancora non si è fatto, ma la maggior tragedia, il profondamente drammatico, è il senso di colpa non per quello che si fa, il fare, ma per quello che si è, l’essere.

L’aria della campana di vetro mi premeva intorno come bambagia e io non avevo la forza di muovermi. (Plath, 2004, p. 427).

È in effetti anche lo sguardo degli altri che normalizza o colloca al di fuori della norma. Non c’è senso di colpa senza riferimento: è per definizione sociale. Se poi la socialità sia la voce dentro di sé e non degli altri, permane comunque e sempre un riferimento altro. Un senso di colpa che dunque divora se stessi perché non si può non essere quelli che si è. L’io è l’agente della propria vita, ma congelamento significa anche solidificazione di qualcosa che dovrebbe essere fluido. Quindi senso di colpa anche come impermeabilità al mutamento della propria situazione. Può essere morte, stasi, anti-dinamicità, immobilità, sorta di sonno senza sogni, cessazione di ogni funzione vitale. Anche come impenetrabilità nelle due direzioni, da interno da esterno.

Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo. (Plath, 2004, p.478).

Cosa potrebbe consentire di penetrare, di rompere il ghiaccio? Il vero senso di colpa come assolutizzazione di uno stato non lascia spazi alla penetrazione, è un blocco inerziale assoluto. 
Parliamo sempre di una sorta di radiografia istantanea dell’anima. Quasi assolutizzando, comunque restando questo stato paralisi e immobilità ma non silenzio, al contrario può essere permeato da fin troppe voci. Il senso di colpa parla, urla, per definizione non può tacere. Tutto si traduce invece, verbale extraverbale, voce, emozione come voce, emozione, sorta di impazzimento, di riconduzione a se stessi nell’impotenza più assoluta. Sorta di tortura inerziale, di assoluta refrattarietà a tutto ciò che esce ed entra. Il senso di colpa è per sua stessa natura il momento, perpetuo, della tortura. Parlando in termini figurati, come un Prometeo che è sempre lì a farsi cogliere, a farsi beccare. 
Il silenzio risultando esterno, poiché è il singolo stesso, sorta di doccione eterno, che non ha la minima opportunità di contrapporre alle voci qualcosa di esterno o di interno che possa risultare udibile. Immobilità silenzio esteriore, orrore interiore, senza possibilità di contrapposizione udibile esternamente. Più che la paura, si addensa il raccapriccio, come qualcosa che si sente giungere dall’esterno ma viene da dentro di sé. La direzione è importante, sembra essere sì una norma da fuori, ma anche da sé stessi si auto produce, nell’impotenza assoluta fino a cui può arrivare a ridurre.

Chi mi salva? E dentro di me, quell’affollamento, nel profondo, quasi irraggiungibile con lo sguardo. Io sono come un reticolato vivente, un cancello che sta ritto e vuol cadere. (Kafka, 2002, p. 426).

Esiste anche un senso di irrimediabilità del fatto compiuto, in generale gli atti i fatti compiuti sembrano avere una propria rimediabilità, il fatto, per riprovato che sia, in qualche modo appare rimediabile. Investendo una dimensione prettamente etica. Ma dove il senso di colpa coincide con quello che si è, ecco l’innescarsi del senso dell’irrimediabile. Si vuole qui ammettere che prima esiste l’essere e poi il fare, non asserendo che siamo la somma di ciò che abbiamo e non abbiamo fatto, affermiamo che la scaturigine di ogni atto deriva da come si è. E qualsiasi atto non è lo stesso se chi lo mette in essere è in un modo piuttosto che in un altro. Il senso di colpa dell’essere riguarda una modalità di espressione nel mondo, altra parola chiave, sempre in termini di concetti, è l’asserzione su se stessi, che riguarda la propria identità o quella che pensiamo di essere. Ancora, ci si sente in colpa. Ma si sta vedendo sé stessi come si è realmente o si sbaglia nel vedersi? Un senso di colpa per quello che si è parte dall’esistenza e presenza dell’io e noi vediamo quello che siamo davvero? Questo deve essere il presupposto. Diamo quindi per scontato il rapporto di autenticità con se stessi. E se c’è l’io stesso che si sente in colpa per quello che è, ci sono allora due atti distinti: l’io in quanto tale e, come se ci fossero due ego, in qualche modo la propria soggettività che si distacca scindendosi in quella che vede e che si vede. Ma la funzione del senso di colpa a cosa si collega? È l’io che si sente in colpa per la sua vera essenza, o per le manifestazioni accessorie, i comportamenti, le modalità? 
Essere quello che si è, è il vero problema, perché investe il nucleo portante dell’io stesso, che si manifesta proprio attraverso i suoi atti. C’è qualcosa in più del compiere atti? Esiste prima l’io e poi esistono gli atti? Sì, prima l’essere, poi il fare.
Se si parte dal senso dell’io che oltrepassa gli atti che compie allora si ‘riduce’ a quello che si è il senso di colpa. Non semplicemente senso di colpa perché si ha rubato, mentito, o chi sa cosa d’altro, ma per quello che effettivamente è il rapporto tra io e se stessi, il proprio io che viene visto specchiato dentro di sé. Il senso di colpa risulta in qualche modo riflettersi in qualche zona, qualora sia deformante resta comunque sempre un vedersi: il soggetto coinvolto si vede: si piace o non si piace. Se non si vedesse mai non si sentirebbe in colpa, probabilmente. Importante lo sguardo collegato al senso di colpa. Ritorno sui propri passi legato strettamente alla dimensione di guardare se stessi. Il rapporto tra esteriorizzazione e interiorizzazione è un guardarsi estrinseco o intrinseco, cosa si guarda di sé quando ci si sente in colpa per quello che si è? È sguardo che potremmo definire scritto: il senso di colpa è sempre comparazione alla norma, anche perché si presuppone il conflitto di un’idea di sé che non si è, secondo una regola ritenuta come quella “giusta”, e fare in modo di aderire il più possibile a questo modello, se non ideale, almeno di quello che il soggetto in questione identifica tale. Il senso di colpa si delinea come uno scarto da una norma, alligna proprio lì dove c’è lo scarto, è una sorta di vuoto di non partecipazione in concreto, presupponendo una assenza. Dal partecipare, dall’essere uno scarto di essere. Scarto nel senso di non allineamento, di non partecipazione, estraneità, essere inteso come moto da luogo, fuori da qualcosa. Il senso di colpa consiste quindi in una certa mancanza di pienezza dell’essere, quasi in termini geografico-qualitativi, definibile in termini di scarto-mancanza, poiché manca la scadenza dell’essere: mancato appuntamento dell’essere a se stesso, alla sua compiutezza, l’essere non si compie. L’inerzia, lo scarto, lo stato inerziale bloccano, raggelano; raggelamento, congelamento, stati ricorrenti anche nell’opera di Pirandello: quando l’essere guarda se stesso c’è una forma di paralisi, finanche alla paralisi del guardarsi famosi in Quando si è qualcuno (2000), si raggela, si blocca anche nel senso meccanico del termine. Sorta di paralisi quasi psicomotoria, in senso metaforico, in senso fisico anche: l’essere sentendosi in colpa immobilizza le sue funzioni e si sente inadeguato anche a compierle.
Quindi senso di colpa come sguardo, sempre e comunque, e immobilità al tempo stesso.

dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia stessa aria mefitica. (Plath, 2004, p. 427) 

Di Prometeo si riferiscono quattro leggende…Secondo la seconda Prometeo per il dolore dei colpi di becco si addossò sempre più alla roccia fino a diventare una sola cosa con essa. (Kafka, 1995, p. 279)

Viene prima lo sguardo o il bloccarsi? Si presuppone la contemporaneità, con la persistenza dello sguardo come funzione corporea ed extracorporea che rimane in atto. Il senso di colpa diventa un urlo congelato, sorta di urlo di Munch, una ribellione all’essere quello che si è e non voler esserlo, tale da impedire l’emissione di suono. Sorta di rifiuto anche della propria comunicatività, in quanto radicale rifiuto del proprio essere. Rende muti, nella sua assolutezza il senso di colpa è una paralisi totale, non parziale o contingente. È una assoluta immersione nel nulla: rifiutando quello che si è non si esiste più. Ma proprio perché presuppone un io che lo prova, si viene a creare un cortocircuito: tutto è paralizzato, fuorché lo sguardo che rimane l’unico aspetto vivo. Immobilizzazione totale con i soli occhi che si muovono, ma permanere di quell’invisibile ingombro che spesso trascolora nella fin troppo evidente visibilità. Restò l’inspiegabile montagna rocciosa. (Kafka, 1995, p. 279).
Il dramma fosco la mancanza di remissione, sentirsi in colpa per quello che si è: se si pensa al suicidio, persino il suicidio come uscita dal senso di colpa si pone fuori dalla paralisi. Azione, atto, non può essere una o la via d’uscita. Il congelamento è talmente radicato nel proprio modo di essere, che nemmeno il suicidio può far uscire. Non si interrompe, permane la dimensione di pura fisicità, pura materia, pura pietra, entro uno stato di consapevolezza. Come una persona paralizzata che a causa della sua stessa forma paralizzante non avrebbe neanche facoltà effettiva, tecnica di suicidarsi, perpetuando quella sorta di urlo muto che dura per l’eternità. Con una continuità talmente potente da risultare inestinguibile. L’immagine dell’immobilizzazione nella sua stessa fisicità, la paralisi, non ci impedisce di evocare l’uscita da Sodoma e Gomorra, il divieto di girarsi per guardarle distrutte, il tramutarsi in statua di sale della moglie di Lot. 

Il Signore distrusse quelle città e tutti i loro abitanti, tutta la pianura e la vegetazione del territorio. Ma la moglie di Lot si voltò indietro a guardare e divenne una statua di sale. (La Bibbia, 1985, p. 39). 

Il proprio io è composto da infiniti gesti, atti, ribadendo infiniti sensi di colpa perché ogni gesto è una conferma del proprio io, quindi della propria colpa, si materializza così una sorta di inferno della gestualità.
Persino ogni parola confermerebbe il senso di colpa, è quindi il sacrificio dell’io a se stesso, nel momento in cui non può più fare nulla non agisce, ma il dramma assoluto è che il soggetto non può fare nulla mentre il suo io permane nell’impossibilità di spegnere il proprio io. Senza rimedio, congelamento nell’eternità nel dramma più totale. Che diventa una vera e propria dimensione di pietra da cui resta impossibile uscire. Non un soffocare, poiché la propria fisicità continua a essere, facendosi beffe del soggetto stesso.

Sono infatti come di pietra, sono come il mio monumento funebre, e qui non c’è spazio per il dubbio o la fede, per amore o ripugnanza, per coraggio o paura in particolare o in generale, ma vive soltanto una vaga speranza non migliore delle iscrizioni sulle pietre sepolcrali. (Kafka, 2002, p. 124).

Ma se si vuole guardare al potenziale: non può esistere un dolore fecondo? Non è ammesso convivere con tutto ciò in cui il senso di colpa può consistere? L’unico modo, forse, è tacerlo. 
Facendo le dovute proporzioni, con riferimento a una figura che ha subito irrimediabilmente le conseguenze di un suo modo di essere, citiamo l’esempio di Torquato Tasso, rinchiuso per anni come pazzo nell'ospedale di Sant'Anna, a Ferrara, per ordine del duca Alfonso II d'Este, poiché insultato dallo stesso poeta durante la celebrazione delle sue nozze con Margherita Gonzaga. Un Torquato Tasso lacerato da dubbio e angoscia per La Gerusalemme Liberata, per la correttezza di dottrina e di morale. Più volte spintosi ad atto di pubblica autoaccusa, con richiesta di essere processato dal tribunale dell’Inquisizione.
Il senso di colpa è una sorta di morte dell’anima. Non ha rimedio: per spegnere il senso di colpa si dovrebbe essere un’altra persona, nemmeno col suicidio, lo si ripete, che è un atto, e ne sarebbe solo una conferma. Ci possono essere cause, concause, ma il fenomeno senso di colpa è e rimane essere murati irrimediabilmente in maniera assoluta e definitiva dentro il proprio io. Come condanna e dannazione.

Avere la sensazione di essere legato e ad un tempo l’altra che, quando uno fosse sciolto, sarebbe ancor peggio. (Kafka, 2002, p. 124).

La parola più consona al senso di colpa sembra dunque essere strazio: è straziante, irrimediabile, perché in quanto tale non accetta remissione. Insopportabilità in assoluto. Che però impedisce persino la morte. La morte potrebbe essere, certo avviene, ma come estrema conferma, non come via di fuga, uscita. Conferma postuma del senso di colpa provato.

 


 

:: letture ::

— La Bibbia, Genesi 19, 25-26, Elle Di Ci, Leumann, To, United Bible Societies, 1985.

— Kafka F., Diari, Mondadori, Milano, 2002.

— Kafka F., Lettera al padre, SE, Milano, 1987.

— Kafka F., Tutti i racconti, Newton Compton, Roma, 1995.

— Pirandello L., Quando si è qualcuno, in Opere, Mondadori, Milano, 2000.

— Plath S., I capolavori di Sylvia Plath, Mondadori, Milano, 2004.

— Tasso T., La Gerusalemme liberata, Garzanti, Milano, 2003.