Uomo
o donna? Mostro, decisamente Jean
Genet, Il
Funambolo
La radice della coscienza come rapporto di sé al
proprio operato. Mettere di fronte a una tale radicalità di
sentire se stessi anche e soprattutto al di là di ogni
evidenza, per quello che si evoca: l’evocazione è
la vera riconoscibilità di se stessi. Non solo come atto
meccanico: tutto quello che si fa per venire incontro alle proprie
radici, alle radici profonde e fonde della propria persona e del
proprio stare nel mondo. Quasi circolasse un elemento sanguinoso che
è certamente un sangue fisico, ma è anche e
soprattutto un sangue dell’anima.
Sono
trascinato dentro la finestra del pianterreno di una casa mediante una
fune intorno al collo e sollevato, sanguinante e dilaniato, senza
riguardo, come da uno che sia disattento, attraverso tutti i soffitti
delle stanze, i mobili, i muri e i solai, finché in alto sul
tetto appare il laccio vuoto che soltanto allo spezzarsi delle tegole
ha perduto anche i miei resti.
(Kafka, 2002, p. 372).
Se consideriamo il senso di colpa, non quello indotto
logicamente da consueti e consentiti principi morali, ma inteso e
coincidendo con il senso del terrore, ne riconosciamo la
necessità. Vero esame del proprio comportamento riconosciuto
come sbagliato. Come un essere nel mondo che
distanzia da ogni prova di immortalità. Allo stesso modo il
perdono assume, o meglio, ha, un senso radicale, consistendo in un
qualcosa che lavora dentro. Ancora, con una radicalità
assoluta. Di un’assolutezza che va ben al di là
della citazione, persino al di là della stessa coscienza e
comprensione del mondo. Se non indotto da banali logiche
morali, il senso di colpa ha comunque un referente etico, restando
sempre l’interiorizzazione di una norma, e anche un
assorbimento. Come nel caso di Kafka rispetto al padre con accezione di
legge.
Tu invece un vero Kafka in quanto a
forza, salute, appetito, potenza di voce, capacità oratoria,
autosufficienza, senso di superiorità, tenacia, presenza di
spirito, conoscenza degli uomini, e per una certa
generosità, naturalmente con tutti i difetti e le debolezze
tipici di questi pregi, verso i quali ti sospingono il tuo carattere e,
a volte, la tua irascibilità. (Kafka,
1987, p.13).
Sempre si evidenzia un riferimento esterno che diventa interiore.
Anche dentro la cabina
mi facevo pena, non solo davanti a te, ma davanti al mondo intero,
perché tu eri per me la misura di tutte le cose.
(Kafka, 1987, p.15).
Forse, in caso contrario, non ci sarebbe senso di colpa, che
nel momento stesso in cui si innesca assume in sé elementi
di incoercibile, di ineluttabile, una sorta di nemesi greca.
Qui
ci si prova a credere poco al pentimento lucido razionale che porta a
pensare di non commettere una seconda volta, se non addirittura
ripetutamente, un medesimo errore, il quale, certo, dal momento che
è già stato compiuto ha avuto e continua ad avere
in qualche modo influenza. Il senso di colpa rischia di essere una
sorta di congelamento della norma dentro di sé, che
può essere tragico. Adozione di un comportamento libero
utopisticamente da norme e norma stessa interiorizzata, può
rivelarsi devastante anche perché il senso di colpa
è memoria dell’ineludibile: ormai il passato
è commesso, i fatti, i moti, movimenti, i gesti. Ma non
coincide necessariamente con quella forma di pentimento che
può essere portatrice di cambiamento: il senso di colpa si
configura al contrario, e al di sopra della propria volontà,
come una sorta di coma, inteso cioè non come stato dinamico,
ma giacente, per questo può manifestarsi ed essere tanto
doloroso e buio, immutabile: e l’immutabilità
è dello stesso e dallo stesso senso di colpa. Si rimane
inchiodati a ciò che si è commesso o a
ciò a cui riconduce il senso di colpa. Il passato a cui si
resta rivolti riporta a qualcosa che permane per sempre. Fatto per non
spegnersi, il senso di colpa è autoalimentazione,
autofagocitazione, se ad un aumento della sua stessa natura congelata,
fredda, immutabile, al tempo stesso sempre più gravosa,
corrisponde una dinamica, questa si muove come sommatoria, non per
evoluzione, ma, involvente, gira su se stesso l’unico
mutamento possibile, avvenendo per quantità, non per
qualità. Il senso di colpa, somma di tutti i sensi di colpa
possibili, è una sorta di costante rinnovarsi nel senso
quantitativo, pura configurazione materiale. Quindi il dramma. Per
definizione eterno soffrire, tribolare, tornare su se stessi, permanere
in una perenne dannazione. Un piccolo inferno privato, si accetti
l’immagine banale. Mancanza di libertà, blocco,
congelamento, ghiaccio che è paralisi per
antonomasia. La tragedia di tutto questo
è una sorta di umbratilità, entro la stessa
corporeità a cui per sua natura appartiene il senso di
colpa, e viceversa. Permanendo l’interiorizzazione anche di
qualcosa di molto aereo, difficile da definire, trasparenza di qualcosa
di molto materiale, senso di colpa che, pur addicendosi in misura
maggiore allo spirito, è anche assolutamente fisico. Siamo
così di fronte al congelamento del fiume
dell’anima. Gelido, glaciale, gelido; sorta di dimensione di
tortura; un continuo rimanere crocifissi. Non dimentichiamo che il
senso di colpa può scaturire anche per qualcosa che si
potrebbe fare, che ancora non si è fatto, ma la maggior
tragedia, il profondamente drammatico, è il senso di colpa
non per quello che si fa, il fare, ma per quello
che si è, l’essere.
L’aria
della campana di vetro mi premeva intorno come bambagia e io non avevo
la forza di muovermi. (Plath, 2004,
p. 427).
È in effetti anche lo sguardo degli altri che
normalizza o colloca al di fuori della norma. Non
c’è senso di colpa senza riferimento: è
per definizione sociale. Se poi la socialità sia la voce
dentro di sé e non degli altri, permane comunque e sempre un
riferimento altro. Un senso di colpa che dunque divora se stessi
perché non si può non essere quelli che si
è. L’io è l’agente della
propria vita, ma congelamento significa anche solidificazione di
qualcosa che dovrebbe essere fluido. Quindi senso di colpa anche come
impermeabilità al mutamento della propria situazione. Può essere morte, stasi, anti-dinamicità,
immobilità, sorta di sonno senza sogni, cessazione di ogni funzione vitale. Anche come impenetrabilità nelle due direzioni, da interno da esterno.
Per
chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato
come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo.
(Plath, 2004, p.478).
Cosa potrebbe consentire di penetrare, di rompere il ghiaccio?
Il vero senso di colpa come assolutizzazione di uno stato non lascia
spazi alla penetrazione, è un blocco inerziale
assoluto. Parliamo sempre di una sorta di
radiografia istantanea dell’anima. Quasi assolutizzando,
comunque restando questo stato paralisi e immobilità ma non
silenzio, al contrario può essere permeato da fin troppe
voci. Il senso di colpa parla, urla, per definizione non può
tacere. Tutto si traduce invece, verbale extraverbale, voce, emozione
come voce, emozione, sorta di impazzimento, di riconduzione a se stessi
nell’impotenza più assoluta. Sorta di tortura
inerziale, di assoluta refrattarietà a tutto ciò
che esce ed entra. Il senso di colpa è per sua stessa natura
il momento, perpetuo, della tortura. Parlando in termini figurati, come
un Prometeo che è sempre lì a farsi cogliere, a
farsi beccare. Il silenzio risultando esterno,
poiché è il singolo stesso, sorta di doccione
eterno, che non ha la minima opportunità di contrapporre
alle voci qualcosa di esterno o di interno che possa risultare udibile.
Immobilità silenzio esteriore, orrore interiore, senza
possibilità di contrapposizione udibile esternamente.
Più che la paura, si addensa il raccapriccio, come qualcosa
che si sente giungere dall’esterno ma viene da dentro di
sé. La direzione è importante, sembra essere
sì una norma da fuori, ma anche da sé stessi si
auto produce, nell’impotenza assoluta fino a cui
può arrivare a ridurre.
Chi mi salva? E dentro
di me, quell’affollamento, nel profondo, quasi
irraggiungibile con lo sguardo. Io sono come un reticolato vivente, un
cancello che sta ritto e vuol cadere.
(Kafka, 2002, p. 426).
Esiste anche un senso di irrimediabilità del fatto
compiuto, in generale gli atti i fatti compiuti sembrano avere una
propria rimediabilità, il fatto, per riprovato che sia, in
qualche modo appare rimediabile. Investendo una dimensione prettamente
etica. Ma dove il senso di colpa coincide con quello che si
è, ecco l’innescarsi del senso
dell’irrimediabile. Si vuole qui ammettere che prima esiste
l’essere e poi il fare,
non asserendo che siamo la somma di ciò che abbiamo e non
abbiamo fatto, affermiamo che la scaturigine di ogni atto deriva da come
si è. E qualsiasi atto non è lo stesso se chi lo
mette in essere è in un modo piuttosto
che in un altro. Il senso di colpa dell’essere
riguarda una modalità di espressione nel mondo, altra parola
chiave, sempre in termini di concetti, è
l’asserzione su se stessi, che riguarda la propria
identità o quella che pensiamo di essere. Ancora, ci si
sente in colpa. Ma si sta vedendo sé stessi come si
è realmente o si sbaglia nel vedersi? Un senso di colpa per
quello che si è parte dall’esistenza e presenza
dell’io e noi vediamo quello che siamo davvero? Questo deve
essere il presupposto. Diamo quindi per scontato il rapporto di
autenticità con se stessi. E se c’è
l’io stesso che si sente in colpa per quello che
è, ci sono allora due atti distinti: l’io in
quanto tale e, come se ci fossero due ego, in qualche modo la propria
soggettività che si distacca scindendosi in quella che vede
e che si vede. Ma la funzione del senso di colpa a cosa si collega?
È l’io che si sente in colpa per la sua vera
essenza, o per le manifestazioni accessorie, i comportamenti, le
modalità? Essere quello che si
è, è il vero problema, perché investe
il nucleo portante dell’io stesso, che si manifesta proprio
attraverso i suoi atti. C’è qualcosa in
più del compiere atti? Esiste prima l’io e poi
esistono gli atti? Sì, prima l’essere,
poi il fare. Se si
parte dal senso dell’io che oltrepassa gli atti che compie
allora si ‘riduce’ a quello che si è il
senso di colpa. Non semplicemente senso di colpa perché si
ha rubato, mentito, o chi sa cosa d’altro, ma per quello che
effettivamente è il rapporto tra io e se stessi, il proprio
io che viene visto specchiato dentro di sé. Il senso di
colpa risulta in qualche modo riflettersi in qualche zona, qualora sia
deformante resta comunque sempre un vedersi: il soggetto coinvolto si
vede: si piace o non si piace. Se non si vedesse mai non si sentirebbe
in colpa, probabilmente. Importante lo sguardo collegato al senso di
colpa. Ritorno sui propri passi legato strettamente alla dimensione di
guardare se stessi. Il rapporto tra esteriorizzazione e
interiorizzazione è un guardarsi estrinseco o intrinseco,
cosa si guarda di sé quando ci si sente in colpa per quello
che si è? È sguardo che potremmo definire scritto:
il senso di colpa è sempre comparazione alla norma, anche
perché si presuppone il conflitto di un’idea di
sé che non si è, secondo una regola ritenuta come
quella “giusta”, e fare in modo di aderire il
più possibile a questo modello, se non ideale, almeno di
quello che il soggetto in questione identifica tale. Il senso di colpa
si delinea come uno scarto da una norma, alligna proprio lì
dove c’è lo scarto, è una sorta di
vuoto di non partecipazione in concreto, presupponendo una assenza.
Dal partecipare, dall’essere uno scarto di essere.
Scarto nel senso di non allineamento, di non partecipazione,
estraneità, essere inteso come moto da luogo, fuori da
qualcosa. Il senso di colpa consiste quindi in una certa mancanza di
pienezza dell’essere, quasi in termini
geografico-qualitativi, definibile in termini di scarto-mancanza,
poiché manca la scadenza dell’essere: mancato
appuntamento dell’essere a se stesso, alla sua compiutezza,
l’essere non si compie. L’inerzia, lo scarto, lo
stato inerziale bloccano, raggelano; raggelamento, congelamento, stati
ricorrenti anche nell’opera di Pirandello: quando
l’essere guarda se stesso c’è una forma
di paralisi, finanche alla paralisi del guardarsi famosi in Quando
si è qualcuno (2000), si raggela, si blocca anche
nel senso meccanico del termine. Sorta di paralisi quasi psicomotoria,
in senso metaforico, in senso fisico anche: l’essere
sentendosi in colpa immobilizza le sue funzioni e si sente inadeguato
anche a compierle. Quindi senso di colpa come sguardo, sempre
e comunque, e immobilità al tempo stesso.
…dovunque
mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di
Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a
respirare la mia stessa aria mefitica. (Plath,
2004, p. 427)
Di
Prometeo si riferiscono quattro leggende…Secondo la seconda
Prometeo per il dolore dei colpi di becco si addossò sempre
più alla roccia fino a diventare una sola cosa con essa.
(Kafka, 1995, p. 279)
Viene prima lo sguardo o il bloccarsi? Si presuppone la
contemporaneità, con la persistenza dello sguardo come
funzione corporea ed extracorporea che rimane in atto. Il senso di
colpa diventa un urlo congelato, sorta di urlo di Munch, una ribellione
all’essere quello che si è e non voler esserlo,
tale da impedire l’emissione di suono. Sorta di rifiuto anche
della propria comunicatività, in quanto radicale rifiuto del
proprio essere. Rende muti, nella sua assolutezza il senso di colpa
è una paralisi totale, non parziale o contingente.
È una assoluta immersione nel nulla: rifiutando quello che
si è non si esiste più. Ma proprio
perché presuppone un io che lo prova, si viene a creare un
cortocircuito: tutto è paralizzato, fuorché lo
sguardo che rimane l’unico aspetto vivo. Immobilizzazione
totale con i soli occhi che si muovono, ma permanere di
quell’invisibile ingombro che spesso trascolora nella fin
troppo evidente visibilità. Restò
l’inspiegabile montagna rocciosa. (Kafka, 1995, p.
279). Il dramma fosco la mancanza di remissione, sentirsi in
colpa per quello che si è: se si pensa al suicidio, persino
il suicidio come uscita dal senso di colpa si pone fuori dalla
paralisi. Azione, atto, non può essere una o la via
d’uscita. Il congelamento è talmente radicato nel
proprio modo di essere, che nemmeno il suicidio può far
uscire. Non si interrompe, permane la dimensione di pura
fisicità, pura materia, pura pietra, entro uno stato di
consapevolezza. Come una persona paralizzata che a causa della sua
stessa forma paralizzante non avrebbe neanche facoltà
effettiva, tecnica di suicidarsi, perpetuando quella sorta di urlo muto
che dura per l’eternità. Con una
continuità talmente potente da risultare inestinguibile.
L’immagine dell’immobilizzazione nella sua stessa
fisicità, la paralisi, non ci impedisce di evocare
l’uscita da Sodoma e Gomorra, il divieto di girarsi per
guardarle distrutte, il tramutarsi in statua di sale della moglie di
Lot.
Il Signore distrusse quelle
città e tutti i loro abitanti, tutta la pianura e la
vegetazione del territorio. Ma la moglie di Lot si voltò
indietro a guardare e divenne una statua di sale.
(La Bibbia, 1985, p. 39).
Il proprio io è composto da infiniti gesti, atti,
ribadendo infiniti sensi di colpa perché ogni gesto
è una conferma del proprio io, quindi della propria colpa,
si materializza così una sorta di inferno della
gestualità. Persino ogni parola confermerebbe il
senso di colpa, è quindi il sacrificio dell’io a
se stesso, nel momento in cui non può più fare
nulla non agisce, ma il dramma assoluto è che il soggetto
non può fare nulla mentre il suo io permane
nell’impossibilità di spegnere il proprio io.
Senza rimedio, congelamento nell’eternità nel
dramma più totale. Che diventa una vera e propria dimensione
di pietra da cui resta impossibile uscire. Non un soffocare,
poiché la propria fisicità continua a essere,
facendosi beffe del soggetto stesso.
Sono infatti come di
pietra, sono come il mio monumento funebre, e qui non
c’è spazio per il dubbio o la fede, per amore o
ripugnanza, per coraggio o paura in particolare o in generale, ma vive
soltanto una vaga speranza non migliore delle iscrizioni sulle pietre
sepolcrali. (Kafka, 2002, p. 124).
Ma se si vuole guardare al potenziale: non può
esistere un dolore fecondo? Non è ammesso convivere con
tutto ciò in cui il senso di colpa può
consistere? L’unico modo, forse, è
tacerlo. Facendo le dovute proporzioni, con
riferimento a una figura che ha subito irrimediabilmente le conseguenze
di un suo modo di essere, citiamo l’esempio di Torquato
Tasso, rinchiuso per anni come pazzo nell'ospedale di Sant'Anna, a
Ferrara, per ordine del duca Alfonso II d'Este, poiché
insultato dallo stesso poeta durante la celebrazione delle sue nozze
con Margherita Gonzaga. Un Torquato Tasso lacerato da dubbio e angoscia
per La Gerusalemme Liberata, per la correttezza di
dottrina e di morale. Più volte spintosi ad atto di pubblica
autoaccusa, con richiesta di essere processato dal tribunale
dell’Inquisizione. Il senso di colpa è
una sorta di morte dell’anima. Non ha rimedio: per spegnere
il senso di colpa si dovrebbe essere un’altra persona,
nemmeno col suicidio, lo si ripete, che è un atto, e ne
sarebbe solo una conferma. Ci possono essere cause, concause, ma il
fenomeno senso di colpa è e rimane essere murati
irrimediabilmente in maniera assoluta e definitiva dentro il proprio
io. Come condanna e dannazione.
Avere la sensazione di essere
legato e ad un tempo l’altra che, quando uno fosse sciolto,
sarebbe ancor peggio. (Kafka, 2002,
p. 124).
La parola più consona al senso di colpa sembra
dunque essere strazio: è straziante,
irrimediabile, perché in quanto tale non accetta remissione.
Insopportabilità in assoluto. Che però impedisce
persino la morte. La morte potrebbe essere, certo avviene, ma come
estrema conferma, non come via di fuga, uscita. Conferma postuma del
senso di colpa provato.
:: letture ::
— La Bibbia, Genesi 19, 25-26, Elle Di Ci, Leumann, To, United Bible Societies, 1985.
— Kafka F., Diari, Mondadori, Milano, 2002.
— Kafka F., Lettera al padre, SE, Milano, 1987.
— Kafka F., Tutti i racconti, Newton Compton, Roma, 1995.
— Pirandello L., Quando si è qualcuno, in Opere, Mondadori, Milano, 2000.
— Plath S., I capolavori di Sylvia Plath, Mondadori, Milano, 2004.
— Tasso T., La Gerusalemme liberata, Garzanti, Milano, 2003.
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