Per quella capacità, se non potenza, che ha la
narrazione cinematografica di offrire una visione unitaria di
situazioni molto eterogenee farcite di persone, oggetti e ambienti che
mal si concilierebbero attraverso altre esperienze narrative, ecco che
il cinema si presenta come un’ottima occasione per un
suggestivo gioco di anacronismi. Capita così che le storiche
uniformi blu degli yankee vincitori della guerra
civile e gli abiti tradizionali degli indiani d’America
s’aggirino tra i semafori e le boutique di Parigi, in uno dei
più grotteschi film italiani. Verso la metà degli
anni Settanta, in Non toccare la donna bianca,
Marco Ferreri offre infatti, alla sua maniera, originale e senza mezzi
termini, una rappresentazione della battaglia di Little Bighorn. Si
tratta dell’epica impresa dei nativi americani contro
l’esercito statunitense, condotta il 25 giugno 1876 dalle
forze unite dei Lakota e dei Cheyenne, questi ultimi una delle
tribù massacrate lungo il fiume Sand Creek in Colorado nel
1864. Le guerre indiane del resto furono definite da alcuni storici
“guerre civili”, anche se il popolo dei pellerossa
fu colpevole, come sentenziano nelle prime riprese i rappresentanti del
potere economico, di non riconoscere “i valori della
proprietà privata e i vantaggi che ne derivano”, e
di rifiutare “il sano egoismo di cui la Provvidenza ha
nutrito l’animo umano”. Il western, che
aveva attratto gran parte degli sforzi creativi e produttivi italiani
negli anni Sessanta, è in questa occasione utilizzato da
Ferreri come quelle opere di fantascienza che parlano più
del presente che del futuro, con le opportunità narrative e
stilistiche che il genere concede all’autore. È
tutta qui la chiave del regista milanese che per la sua opera si
avvalse dello stesso team italo-francese del suo film più
noto e controverso, La grande abbuffata. A
rappresentare con le proprie qualità interpretative,
già affermate ai tempi delle riprese, troviamo infatti
Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret e Michel Piccoli,
ciascuno in un ruolo costruito quasi al fine di parlare più
della storia del Novecento, che dell’episodio storico in
questione. Mastroianni è George Armstrong Custer,
motore sia della vicenda storica che del film: fanatico del corpo a
corpo, lo squadrista Custer si lancia nell’impresa al grido
di “Dio, Patria e Settimo cavalleggeri!”,
quest’ultimo la sua famiglia, abbracciata dieci anni prima
della disfatta e del proprio decesso: era il 1866 quando il generale
Sheridan gli assegnò il reggimento di nuova formazione,
allontanando così la prospettiva di Custer, deluso dal
trattamento serbato a molti ufficiali dopo la guerra civile, di
raggiungere in Messico l’imperatore Massimiliano
d’Austria, impegnato nella repressione dei ribelli di Benito
Juárez. Philippe Noiret è
interprete di un generale Terry, avido di oro e non meno spregevole
negli intenti rispetto a Custer, più propenso il primo ai
vantaggi di una guerra condotta con strumenti di morte moderni e
sofisticati: Terry era infatti attratto dallo spietato fascino delle
armi dai colpi dalla traiettoria parabolica, mentre Custer prediligeva
il tiro con la pistola e la scherma, le sole due discipline, insieme
alla destrezza con il cavallo, nelle quali pare essersi distinto
durante un suo apprendistato a West Point. Ugo Tognazzi
è Mitch, uno scout al soldo di Custer, che incarna la
spregevole combinazione di spietato mercenario e invidioso ruffiano.
Dileggiato dai pellerossa a lanci di pomodori e fragorose pernacchie,
non esita tuttavia a dare la giusta dritta a Cavallo Pazzo per far
fuori il suo generale, reo di trattarlo da indiano. Inoltre quello di
non avere come oggetto del proprio desiderio la donna
dell’uomo bianco è il monito che il generale
rivolge ripetutamente a Mitch, proibizione questa a cui si deve anche
il titolo del film. A Michel Piccoli tocca la parte di un'altra icona
mistificata dall’epopea western al pari di quella di Custer,
ovvero Buffalo Bill. Se il generale ebbe in sorte una carriera militare
favorita più dai demeriti dei suoi pari durante la guerra
civile statunitense, che dalle proprie capacità, spesso
salvata da influenti amicizie nelle alte sfere dell’esercito
dell’Unione, il celebre cacciatore di bisonti fu per lungo
tempo celebrato per aver sfamato gli operai impiegati nella costruzione
della ferrovia, ma in realtà fu il simbolo di uno scempio
ecologico, minore solo al genocidio dei pellerossa.
L’irriverente parodia di Piccoli restituisce un William
Frederick Cody narratore delle proprie imprese, perfetto loser
quanto un De Niro nelle prime scene di Toro
scatenato e malinconico come quello cantato da De Gregori
nell’album del 1976, nonostante la storia lo ricordi anche
come abile impresario. A rendere più
fertile nel film il gioco degli anacronismi, contribuiscono anche le
caratterizzazioni degli altri personaggi, interpretati da attori di
rilievo a cominciare da Catherine Deneuve, qui angelica nobildonna
mossa da un discutibile senso di generosità verso il
prossimo, purché di pelle bianca. Votata alla causa degli
yankee, alterna la meraviglia per il cielo stellato
all’altrettanto stupore per l’ostinazione degli
indiani d’America a popolare una terra che Dio ha concesso ai
bianchi, e per questo convinta che scacciarli ad ogni costo sia un atto
non solo legittimo ma che ne giustifica anche lo sterminio:
“sono belle le missioni umanitarie”, esclama
Marie-Hélène de Boismonfrais, alla quale Ferreri
concede il ruolo da protagonista nella scena decisamente più
comica del film, quando da timida e ritrosa alle avanche
di Custer, si trasforma in energica amante capace di sollevare lui e
condurlo a letto. Tra gli indiani, spiccano i volti
di due celebrità del cinema internazionale, Serge Reggiani e
Alan Cuny, nei rispettivi ruoli dei leggendari Cavallo Pazzo e Toro
Seduto, due nomi che riflettono due atteggiamenti diversi nei confronti
della crudeltà dei bianchi: il primo non a caso scalpita per
attaccare gli usurpatori con un’azione collettiva di
resistenza condotta da tante tribù (accomunate, nel film, a
meridionali e palestinesi) così unite da formare un popolo;
il secondo, statico nello sguardo come nei gesti, agli inizi
più riflessivo, convinto che i barbari attacchi subiti dalla
sua gente siano frutto dell’indisciplina dei soldati,
all’insaputa del presidente Nixon, del quale
anacronisticamente il generale Terry conserva il ritratto nel proprio
ufficio. Ad alimentare quello strano concetto di pace, che
serve, come lamenta Cavallo Pazzo, a preparare una nuova guerra,
c’è inoltre il personaggio interpretato da Paolo
Villaggio, vorace divoratore di patatine fritte ma soprattutto
indispensabile manovalanza intellettuale per la supremazia imperialista
statunitense (la pax americana), ma che non
disdegna di venire ai fatti adoperando con destrezza fucili di quelli
tipo Mannilicher-Carcano, dal ’63 abbinato
all’icona di Lee Harvey Oswald e ai tragici fatti della Dealy
Plaza di Dallas. Come sempre paffuto, ma meno impacciato di un Fantozzi
o Fracchia, l’attore genovese nella vicenda si presenta come
un professore di antropologia con il nome di Pinkerton, forse omaggio
al fondatore dell’omonima agenzia investigativa, la prima mai
creata, e passato alla storia per aver salvato da un complotto Lincoln,
al tempo candidato alle presidenziali. Il personaggio di Villaggio
ostenta con orgoglio le proprie credenziali mostrando le foto di due
vittime illustri della Cia, il “Che” e Lumumba, per
poi abbandonare la scena poco prima della battaglia, annunciando
un’inquietante sua prossima presenza in Cile. Non
manca, tra gli attori, lo stesso regista nei panni di un fotoreporter
al servizio dei potenti, esaltando il grande ruolo che la fotografia,
madre della settima arte, ebbe nella stessa storia statunitense a
partire dalla guerra di secessione. Quanto ai temi
caldi del film, uno di essi è senz’altro la
rappresentazione della violenza, qui perpetrata nei confronti di un
intero un popolo. Sotto un piano formale, ecco che a tal riguardo
spicca l’originalità di Ferreri e del
co-sceneggiatore Rafael Azcona (con la collaborazione di Darryl Cowl,
nel film anche attore): se Fernaldo di Giammatteo e Roberto Campari
avevano sottolineato che la violenza nel genere western non si
risolveva mai in un gesto irresponsabile, se non addirittura folle, del
singolo (tipica del gangster movie), oppure in un’azione
collettiva (come nei film di guerra; cfr. Campari, Di Giammatteo, vol.
II, pag. 189). Ferreri, giocando sul piano della
follia pianificata, ossimoro di tutte le guerre, sovverte la regola
presentando l’omicidio in tutte le salse. Il regista non
risparmia al pubblico neanche l’assassinio barbaro, fine a se
stesso, perpetrato contro donne e bambini per diletto dai soldati, e
reso attraverso una sequenza che rimanda alla carneficina del Sand
Creek, così come al genocidio di Auschwitz. Nel
finale la panoramica del quartiere ormai sventrato di Les Halles
restituisce alla memoria dello spettatore dei nostri giorni
un’immagine di Ground Zero, concedendo un ennesimo gioco
anacronistico, non certo voluto.
:: letture ::
- Campari R., Di Giammatteo F., Western, in
Di Giammatteo F. (a cura di), Dizionario universale del cinema,
Roma, Editori Riuniti, 1990.
:: visioni ::
- Ferreri M., Non
toccate la donna bianca (Touche pas à la
famme blanche), Italia-Francia, 1974, Medusa Home
Entertainment, 2006.
:: ascolti ::
- De Gregori F., Bufalo Bill, RCA Italiana,
1976.
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