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Universi alternativi, il west di Marco Ferreri
di 
Andrea Sanseverino

ferreri.jpg Per quella capacità, se non potenza, che ha la narrazione cinematografica di offrire una visione unitaria di situazioni molto eterogenee farcite di persone, oggetti e ambienti che mal si concilierebbero attraverso altre esperienze narrative, ecco che il cinema si presenta come un’ottima occasione per un suggestivo gioco di anacronismi. Capita così che le storiche uniformi blu degli yankee vincitori della guerra civile e gli abiti tradizionali degli indiani d’America s’aggirino tra i semafori e le boutique di Parigi, in uno dei più grotteschi film italiani. Verso la metà degli anni Settanta, in Non toccare la donna bianca, Marco Ferreri offre infatti, alla sua maniera, originale e senza mezzi termini, una rappresentazione della battaglia di Little Bighorn. Si tratta dell’epica impresa dei nativi americani contro l’esercito statunitense, condotta il 25 giugno 1876 dalle forze unite dei Lakota e dei Cheyenne, questi ultimi una delle tribù massacrate lungo il fiume Sand Creek in Colorado nel 1864. Le guerre indiane del resto furono definite da alcuni storici “guerre civili”, anche se il popolo dei pellerossa fu colpevole, come sentenziano nelle prime riprese i rappresentanti del potere economico, di non riconoscere “i valori della proprietà privata e i vantaggi che ne derivano”, e di rifiutare “il sano egoismo di cui la Provvidenza ha nutrito l’animo umano”.
Il western, che aveva attratto gran parte degli sforzi creativi e produttivi italiani negli anni Sessanta, è in questa occasione utilizzato da Ferreri come quelle opere di fantascienza che parlano più del presente che del futuro, con le opportunità narrative e stilistiche che il genere concede all’autore. È tutta qui la chiave del regista milanese che per la sua opera si avvalse dello stesso team italo-francese del suo film più noto e controverso, La grande abbuffata. A rappresentare con le proprie qualità interpretative, già affermate ai tempi delle riprese, troviamo infatti Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret e Michel Piccoli, ciascuno in un ruolo costruito quasi al fine di parlare più della storia del Novecento, che dell’episodio storico in questione.
Mastroianni è George Armstrong Custer, motore sia della vicenda storica che del film: fanatico del corpo a corpo, lo squadrista Custer si lancia nell’impresa al grido di “Dio, Patria e Settimo cavalleggeri!”, quest’ultimo la sua famiglia, abbracciata dieci anni prima della disfatta e del proprio decesso: era il 1866 quando il generale Sheridan gli assegnò il reggimento di nuova formazione, allontanando così la prospettiva di Custer, deluso dal trattamento serbato a molti ufficiali dopo la guerra civile, di raggiungere in Messico l’imperatore Massimiliano d’Austria, impegnato nella repressione dei ribelli di Benito Juárez. 
Philippe Noiret è interprete di un generale Terry, avido di oro e non meno spregevole negli intenti rispetto a Custer, più propenso il primo ai vantaggi di una guerra condotta con strumenti di morte moderni e sofisticati: Terry era infatti attratto dallo spietato fascino delle armi dai colpi dalla traiettoria parabolica, mentre Custer prediligeva il tiro con la pistola e la scherma, le sole due discipline, insieme alla destrezza con il cavallo, nelle quali pare essersi distinto durante un suo apprendistato a West Point.
Ugo Tognazzi è Mitch, uno scout al soldo di Custer, che incarna la spregevole combinazione di spietato mercenario e invidioso ruffiano. Dileggiato dai pellerossa a lanci di pomodori e fragorose pernacchie, non esita tuttavia a dare la giusta dritta a Cavallo Pazzo per far fuori il suo generale, reo di trattarlo da indiano. Inoltre quello di non avere come oggetto del proprio desiderio la donna dell’uomo bianco è il monito che il generale rivolge ripetutamente a Mitch, proibizione questa a cui si deve anche il titolo del film. A Michel Piccoli tocca la parte di un'altra icona mistificata dall’epopea western al pari di quella di Custer, ovvero Buffalo Bill. Se il generale ebbe in sorte una carriera militare favorita più dai demeriti dei suoi pari durante la guerra civile statunitense, che dalle proprie capacità, spesso salvata da influenti amicizie nelle alte sfere dell’esercito dell’Unione, il celebre cacciatore di bisonti fu per lungo tempo celebrato per aver sfamato gli operai impiegati nella costruzione della ferrovia, ma in realtà fu il simbolo di uno scempio ecologico, minore solo al genocidio dei pellerossa. L’irriverente parodia di Piccoli restituisce un William Frederick Cody narratore delle proprie imprese, perfetto loser quanto un De Niro nelle prime scene di Toro scatenato e malinconico come quello cantato da De Gregori nell’album del 1976, nonostante la storia lo ricordi anche come abile impresario. 
A rendere più fertile nel film il gioco degli anacronismi, contribuiscono anche le caratterizzazioni degli altri personaggi, interpretati da attori di rilievo a cominciare da Catherine Deneuve, qui angelica nobildonna mossa da un discutibile senso di generosità verso il prossimo, purché di pelle bianca. Votata alla causa degli yankee, alterna la meraviglia per il cielo stellato all’altrettanto stupore per l’ostinazione degli indiani d’America a popolare una terra che Dio ha concesso ai bianchi, e per questo convinta che scacciarli ad ogni costo sia un atto non solo legittimo ma che ne giustifica anche lo sterminio: “sono belle le missioni umanitarie”, esclama Marie-Hélène de Boismonfrais, alla quale Ferreri concede il ruolo da protagonista nella scena decisamente più comica del film, quando da timida e ritrosa alle avanche di Custer, si trasforma in energica amante capace di sollevare lui e condurlo a letto. 
Tra gli indiani, spiccano i volti di due celebrità del cinema internazionale, Serge Reggiani e Alan Cuny, nei rispettivi ruoli dei leggendari Cavallo Pazzo e Toro Seduto, due nomi che riflettono due atteggiamenti diversi nei confronti della crudeltà dei bianchi: il primo non a caso scalpita per attaccare gli usurpatori con un’azione collettiva di resistenza condotta da tante tribù (accomunate, nel film, a meridionali e palestinesi) così unite da formare un popolo; il secondo, statico nello sguardo come nei gesti, agli inizi più riflessivo, convinto che i barbari attacchi subiti dalla sua gente siano frutto dell’indisciplina dei soldati, all’insaputa del presidente Nixon, del quale anacronisticamente il generale Terry conserva il ritratto nel proprio ufficio.
Ad alimentare quello strano concetto di pace, che serve, come lamenta Cavallo Pazzo, a preparare una nuova guerra, c’è inoltre il personaggio interpretato da Paolo Villaggio, vorace divoratore di patatine fritte ma soprattutto indispensabile manovalanza intellettuale per la supremazia imperialista statunitense (la pax americana), ma che non disdegna di venire ai fatti adoperando con destrezza fucili di quelli tipo Mannilicher-Carcano, dal ’63 abbinato all’icona di Lee Harvey Oswald e ai tragici fatti della Dealy Plaza di Dallas. Come sempre paffuto, ma meno impacciato di un Fantozzi o Fracchia, l’attore genovese nella vicenda si presenta come un professore di antropologia con il nome di Pinkerton, forse omaggio al fondatore dell’omonima agenzia investigativa, la prima mai creata, e passato alla storia per aver salvato da un complotto Lincoln, al tempo candidato alle presidenziali. Il personaggio di Villaggio ostenta con orgoglio le proprie credenziali mostrando le foto di due vittime illustri della Cia, il “Che” e Lumumba, per poi abbandonare la scena poco prima della battaglia, annunciando un’inquietante sua prossima presenza in Cile.
Non manca, tra gli attori, lo stesso regista nei panni di un fotoreporter al servizio dei potenti, esaltando il grande ruolo che la fotografia, madre della settima arte, ebbe nella stessa storia statunitense a partire dalla guerra di secessione. 
Quanto ai temi caldi del film, uno di essi è senz’altro la rappresentazione della violenza, qui perpetrata nei confronti di un intero un popolo. Sotto un piano formale, ecco che a tal riguardo spicca l’originalità di Ferreri e del co-sceneggiatore Rafael Azcona (con la collaborazione di Darryl Cowl, nel film anche attore): se Fernaldo di Giammatteo e Roberto Campari avevano sottolineato che la violenza nel genere western non si risolveva mai in un gesto irresponsabile, se non addirittura folle, del singolo (tipica del gangster movie), oppure in un’azione collettiva (come nei film di guerra; cfr. Campari, Di Giammatteo, vol. II, pag. 189). 
Ferreri, giocando sul piano della follia pianificata, ossimoro di tutte le guerre, sovverte la regola presentando l’omicidio in tutte le salse. Il regista non risparmia al pubblico neanche l’assassinio barbaro, fine a se stesso, perpetrato contro donne e bambini per diletto dai soldati, e reso attraverso una sequenza che rimanda alla carneficina del Sand Creek, così come al genocidio di Auschwitz.
Nel finale la panoramica del quartiere ormai sventrato di Les Halles restituisce alla memoria dello spettatore dei nostri giorni un’immagine di Ground Zero, concedendo un ennesimo gioco anacronistico, non certo voluto.

 


 

:: letture ::

- Campari R., Di Giammatteo F., Western, in Di Giammatteo F. (a cura di), Dizionario universale del cinema, Roma, Editori Riuniti, 1990.

 


 

:: visioni ::

- Ferreri M., Non toccate la donna bianca (Touche pas à la famme blanche), Italia-Francia, 1974, Medusa Home Entertainment, 2006.

 


 

:: ascolti ::

- De Gregori F., Bufalo Bill, RCA Italiana, 1976.