TOTEM, TABÙ E TAM TAM MEDIATICI |
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di Adolfo Fattori
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Nel 1970 Robert Anson Heinlein pubblica un romanzo dal titolo decisamente biblico (Salmi, 23:4), destinato a realizzarsi oggi in modo perfido e deformato: I Will Fear No Evil (Non temerò alcun male, nella traduzione italiana del 1972). Il romanzo tratta di Johann Sebastian Bach Smith, ricchissimo tycoon, sopravvissuto, seppur decrepito, fino al Duemila ed oltre (i nostri anni, insomma) grazie ad apparecchiature e cure mediche, che decide, potendosi permettere di oltrepassare qualsiasi legge e qualsiasi governo, di dare una svolta radicale a quella che solo con immenso ottimismo può definire “vita”: piuttosto che lasciarsi morire, cambiare corpo, visto che il suo ormai è diventato inservibile. Questa decisione prometeica, frankensteiniana, potremmo dire, gli riserva però una sorpresa: si ritrova, lui, vecchio bizzoso, maschilista e conservatore, nei panni di una giovane – bellissima – donna. La cosa non gli fa piacere, ma da tipico rappresentante dell’ottimismo modernista, applica la massima maoista del “trasformare la debolezza in forza”, e per soprammercato, usando il suo seme precedentemente congelato e conservato, ingravida se stess… o/a., conquistandosi un’immortalità per così dire al quadrato. Un’immortalità che è stata, ed è tuttora, l’ossessione dell’uomo della modernità. Completamente diverso l’atteggiamento degli antichi, come quello di un certo Guglielmo il Maresciallo (un personaggio storico di cui scrive Georges Duby), che, dopo aver avuto un malore, sapendo di dover morire, “organizza” la sua morte, cominciando a preparare con adeguato anticipo se stesso e la sua gente all’evento: prepara il giaciglio finale, organizza il banchetto, mette sull’avviso le autorità – temporali e, naturalmente, religiose. Un modo completamente diverso di attendere la “grande mietitrice” da quello dei moderni, così magistralmente estremizzato da Heinlein. Le società arcaiche, immerse nella tradizione e nel sacro, accettano la morte, sanno che fa parte dell’ordine del cosmo, non ne soffrono, non ne hanno paura. Scendono eventualmente a patti, come il cavaliere del Settimo sigillo di Ingmar Bergman. Noi moderni e contemporanei temiamo che con la nostra morte possiamo svanire nell’oblio, nella dimenticanza, nel nulla – oppure, come nel caso di Johann Sebastian Bach Smith, forse non vogliamo liberarci della coazione al controllo sulle cose, sugli altri, sul mondo… |
Ora,
questo bisogno di immortalità, di continuità
infinita della nostra vita, da pulsione legittimamente privata, intima,
da aspirazione all’eternità come forma di
libertà dal degrado del corpo e della mente, rischia di
diventare una coazione di competenza statale, pubblica, istituzionale. Fonte di un accanimento che non è
più solo terapeutico, ma giuridico, burocratico, totalitario
– integrale. | |||||