 La trama del
romanzo giallo è un canovaccio versatile quanto asfittico.
Ciò che si va narrando non deve oltrepassare certi standard.
Deve
restare ancorato ad una sequenza ineluttabile: fatto criminoso,
sgomento, dubbio, certezza, soluzione. Tutto deve stare in queste
cinque fasi: la psicologia dei personaggi, la descrizione dei paesaggi,
la sequenza degli avvenimenti; che si scelga una forma narrativa o che
se ne scelga un’altra non importa, bisogna calpestare questo
sentiero
già segnato per il romanzo giallo. Motivo per cui, forse, si
legge un
giallo nelle collane da edicola o sulle spiagge, perché,
bene o male,
non ci si aspetta nulla di nuovo, sebbene lo scopo del giallo stesso
sia la scoperta. Friedrich Dürrenmatt applica fino
ad un certo punto
questo schema alle sue storie, la sua preoccupazione non è
quella di
trasportare il lettore attraverso una strada da percorrere scegliendo
la destra o la sinistra di un bivio. Risiede piuttosto in un
chiarimento ancora più grande, che oltrepassa le angustie di
una trama
canonica. Per cui la realtà del giallo è il mezzo
attraverso cui
discutere della natura della realtà stessa, delle sue
fessure e dei
suoi interstizi come di elementi caratterizzanti di una gigantesca
allucinazione ipnagogica: la realtà. Non serve conoscere
l’assassino
(non soltanto), secondo Dürrenmatt, serve conoscere il
perché, e
soprattutto il come, la colpa si sostanzi nel profilo di un
personaggio. La tensione canalizzata dalle sue storie sta a
testimoniare di un ragionamento che principia con un lapalissiano credo
quia absurdum, e che termina con un per nulla lapalissiano credo-quia
absurdum.
L’assurdo è un teatro del grottesco, per
Dürrenmatt quello
dell’esistenza, un teatro in cui la trama del giallo ha senso
nello
svelamento delle cose per quello che sembrano essere, un testardo
rimando alla fallacia di un tragitto già segnato.
È
la storia il
principale protagonista delle narrazioni dello scrittore svizzero, una
storia che si impossessa dei personaggi, quasi a voler racchiudere le
potenzialità espressive e pratiche del soggetto in una rete
dal sapore
vagamente post-strutturalista. Il soggetto sembra perdersi,
perché il
soggetto di Dürrenmatt non è altro che un
accidente, quasi una
contingenza che appartiene alla trama in quanto strumento di un disegno
più ampio di quello che lui, da solo, potrebbe dipingere.
Per questo la
realtà si viene formalizzando come uno schema ineludibile,
inappellabile, che i personaggi lo vogliano o meno. E così
si trascina
una visione sfiduciata della giustizia, dei metodi di indagine, delle
pratiche comuni dello svelamento. La realtà si va
letteralmente
costruendo, e lo fa quasi da sé. Basti prendere come
esempio, come filo
conduttore, due dei più riusciti lavori brevi della
narrativa dello
scrittore svizzero, Il giudice e il suo boia (1952)
e Il sospetto
(1953). In entrambi il protagonista (quello apparente) è il
commissario
Bärlach, un vecchio funzionario di polizia che si trova, a
pochi passi
dalla sua morte, ad essere soggiogato da due episodi ricomparsi dalle
maglie del suo passato come un dono prepensionistico dei più
onerosi. A
leggere i romanzi uno dopo l’altro, Bärlach appare
come posizionato al
centro di un palindromo ideale, in cui la realtà
può essere letta (o
costruita) da una parte come dall’altra.
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