Nati
quasi “per gioco” negli anni Cinquanta del XX
secolo, ma
esplosi a partire dagli anni Settanta, i videogiochi sono ormai una
delle galassie più ricche e varie dell’universo
virtuale. Passati rapidamente da una dimensione rudimentale e
sussidiaria – si pensi all’ormai archeologico Pong
che
girava sui Commodore – ad una straordinaria
variabilità, si sono
espansi in molteplici direzioni, approfittando al massimo degli esiti
della ricerca sviluppata dal cinema degli effetti speciali e di quella
connessa in generale alla mimesi del reale attraverso il digitale e
contemporaneamente declinando la loro ricerca –
sostanzialmente
narrativa – in moltissime direzioni, generi e
sottogeneri. Se
ha senso o no parlare di generi videoludici oggi è difficile
dirlo ma,
ad ogni modo, è sempre esistita una tendenza a classificare
ed
etichettare i videogame affinché il pubblico di riferimento
di quel
genere potesse riconoscerlo ed esserne attratto. In principio vi erano
distinzioni nette tra “macro generi”: vi erano lo
sparatutto, il
picchiaduro, l’arcade, lo strategico (in tempo reale o a
turni), e
ancora altro… Ma ha ancora senso parlare di generi
quando la
produzione di videogame è sempre più orientata
alla costruzione di
metalinguaggi fatta di innumerevoli contaminazioni – con
cinema e
fumetti in primis - e sempre più orientata alla convergenza?
Se Street Fighters, nato nel 1987 (Capcom), era
senza dubbio classificabile come “picchiaduro”, Soul
Calibur IV
(2008, Bandai-Namco) di certo non è il più
classico fra questi poiché
in esso vi ritroviamo elementi che riguardano l’acquisizione
di
esperienza, il “level upping” dei personaggi, che
consente loro di
apprendere nuove skills e sbloccare nuovi equipaggiamenti ed armi
sempre più letali. E ancora, se prima Quake (1996,
ID Software) era uno sparatutto in prima persona puro, i suoi epigoni,
come Fallout 3
(2008, Bethesda Softworks), di certo non sono dello stesso genere e
sostanza, in quanto contengono elementi che consentono al giocatore di
modificare il proprio personaggio, l’arma ed i relativi upgrade
sparsi nei livelli che alterano completamente la dinamica di gioco. Da
qui la domanda: è ancora possibile parlare di
classificazione dei
generi videoludici? Dopo la TV, un altro media affronta la commistione
dei generi, trasformando cancellando e ricreando ciò che
esisteva, per
dar luce a qualcosa di nuovo. La convergenza di cui stiamo parlando in
questa trattazione è relativa ad una sempre più
frequente ibridazione
dei diversi generi con elementi GDR (acronimo di Gioco Di Ruolo), ossia
un gameplay che risulti vieppiù
appagante con il trascorrere
del tempo e che garantisca un alto grado di longevità e
ri-giocabilità
perché per definizione, è un prodotto mass-customizable.
Una
tale ibridazione si realizza a partire dalla metà degli anni
Novanta,
permessa dagli sviluppi delle tecnologie e delle piattaforme che li
supportano, ma anche dall’evoluzione delle nuove interfacce player-oriented
che garantiscono comfort e sicurezza ai giocatori ed infine, senza
dubbio, dalla capacità e dall’abilità
dei giocatori stessi che, con gli
anni, divengono sempre più esperti ed avveduti nel gestire
situazioni
ormai diventate topoi. Un videogioco di ruolo è un tipo di
videogioco
che tradizionalmente usa elementi di gioco presi da giochi di ruolo
“carta e penna”, il più famoso dei quali
è Dungeons & Dragons (D&D).
La gran parte di essi assegna numerose caratteristiche personalizzabili
dal giocatore come health points, mana points, level, e
statistiche di base (base stats)
come forza, agilità ed intelletto, che possono essere
modificate col
tempo dall’acquisizione di nuovi oggetti e/o portando a
compimento le
molteplici quest (obiettivi di gioco). Il
genere di videogioco GDR nasce con l’avvento
nell’ormai lontanissimo 1980 di Rogue
(A.I. Design), un gioco avente l’intera interfaccia testuale
composta
da soli caratteri ASCII, nel quale il giocatore assume il ruolo di un
avventuriero immerso in un’ambientazione fantasy: il
personaggio inizia
dal livello più superficiale di un enorme antro sotterraneo,
pieno di
mostri e tesori. L'obiettivo è di combattere per raggiungere
il fondo
dei sotterranei, recuperare l'Amuleto di Yendor e
tornare in
superficie. Fino al ritrovamento dell'amuleto il giocatore non
può
risalire le scale che ha usato per scendere. Contrariamente a molti dei
videogiochi d'avventura suoi contemporanei, però, ogni
livello è randomized-dungeon,
ossia generato casualmente, rendendo ogni partita unica.
Successivamente in quegli anni nacque un gioco che di per sé
fece
nascere il genere: la serie di Ultima (Origin
System),
una pietra miliare che, tutt’oggi, è considerato
il più longevo GDR
della sua porzione di mercato, se non della totalità di
esso. Nascevano
in quegli anni anche le software house ed i relativi titoli che
avrebbero di lì a poco segnato la storia e dato i natali ad
una folta
schiera di proseliti: Dragon quest (Enix) e Final
Fantasy (Squresoft),
entrambi ancora oggi giocati e diffusi in tutto il mondo. In questo
periodo, oltre a coprire ogni genere di ambientazione, dal western al
Giappone feudale, dalla space opera ai manga, il gioco di ruolo compie
quello che tutt’oggi è il suo salto maggiore: si
“anima”, diventa vivo,
e si diffonde il genere fantasy. Fino ad allora le
azioni del
proprio avatar erano gestite e descritte in forma scritta, ma
d’ora in
poi si “recitano” attraverso una loro
rappresentazione grafica iconica:
non si tratta più di muovere un personaggio usando le parole
come
interfaccia, ma di interpretarlo calandosi nella parte: il
“flavour” e
l’estetica acquisiscono un’importanza centrale1. Se
negli anni Ottanta
la caratteristica che contraddistingueva il GDR era la
complessità del
sistema di gioco, a partire dagli anni Novanta in poi si è
avuto uno
snellimento delle regole accompagnato al contempo dalla progressiva
complessità del mondo di gioco e del proprio avatar, ormai
divenuto
tridimensionale e ricco di particolari per attirare anche il pubblico
più giovane, che prima non era affatto contemplato nei
target di
riferimento. È in questo periodo che nascono capolavori
della narrativa
videoludica come Final Fantasy VII (1997,
Squaresoft) e The Legend of Zelda: A Link to the Past
(1991, Nintendo), quest’ultimo dotato di una
varietà di situazioni ed
ambienti assolutamente incredibile, tanto che gli abitanti di Hyrule
(il mondo di Zelda) sembravano dotati di vita propria e l'interazione
con essi e con l'ambiente circostante era tale da far credere di essere
realmente nei panni del piccolo elfo Link.
Sino ad allora a farla da padrona – almeno per
quanto riguarda i
giochi su console – erano i giochi di ruolo di matrice
nipponica, i
cosiddetti JRPG, ampiamente diffusi e conosciuti in
tutto il
globo per le loro sceneggiature e i loro personaggi affascinanti e per
storie intrise di spiritualità ma poco personalizzabili. I
personaggi
sono simili a quelli degli anime, talvolta con
aspetti “pupazzosi” in stile superdeformed,
la cui razza è sovente limitata ad umani, bestie ed
evocazioni divine.
Solo più recentemente il panorama dei GDR si è
diversificato, a tal
punto da creare due famiglie principali: lo stile del gioco di ruolo di
matrice giapponese da un lato, dall’altro invece uno stile di
gioco che
propone un’avventura caratterizzata da maggior
libertà e
personalizzazione del proprio avatar. Questo tipo di gioco di ruolo
è
definito “alla occidentale”: esiste un mondo
complesso, con numerose
razze – tra le quali elfi nani, orchi, non-morti - dove il
proprio
personaggio può vivere infinite avventure e dove, a
differenza della
controparte orientale, egli non è ben definito, non ha un
nome - spesso
è attribuito dal giocatore o, semplicemente, viene omesso
durante
l’intera narrazione – e le scelte cui il giocatore
si trova di fronte
possono alterare il prosieguo della storia, concedendo una
varietà di
situazioni e annessi finali differenziati a seconda delle decisioni
prese. Archetipi del genere sono la serie di The Elder Scrolls
(1995, Bethesda), Diablo (1996, Blizzard), Baldur’s
Gate (1998, Bioware), Ghotic (2001,
Piranha Bytes), Neverwinter Nights (2002,
Infogrames), e Fable (2004,
Lionhead studios), quest’ultimo considerato da molti il primo
vero
tentativo di rendere unica ed estremamente personalizzabile
l’avventura
in un gioco risultante di una ibridazione action-adventure-GDR. Se il
primo capitolo è rimasto disatteso per quanto riguarda i
risultati, il
secondo (in vendita da poche settimane) rappresenta una sua diretta
evoluzione: come nel capitolo precedente, vi è implementato
un sistema
di morphing del personaggio che si trasforma e
cresce in
funzione delle avventure, delle decisioni, degli scontri e degli
incontri che il nostro eroe “innominato”
intrattiene con gli altri PNG
(Personaggi Non Giocanti). Se il primo capitolo della serie poteva
essere per certi versi considerato un capolavoro mancato, il sequel
rappresenta invece un GDR di rara fattura, con dialoghi ed azioni ben
scriptate e molteplici opzioni di personalizzazione che alterano la
narrazione e ne prolungano la giocabilità. Soffermiamoci
ulteriormente
sui titoli della Lionhead: dal punto di vista della nostra trattazione,
Fable e Fable 2 2, possono essere
considerati casi
particolari, in quanto paiono due videogiochi con
un’impostazione
tutt’altro che ruolistica: Peter Molineaux ha progettato il
mondo di
gioco, l’interfaccia d’interazione e i comandi in
maniera da
assomigliare più ad un’action-adventure
game piuttosto
che ad un GDR classico, quasi come se questi elementi ruolistici
fossero stati inseriti in un secondo momento, per rendere il prodotto
“più appetibile”ad un pubblico
più vasto ed eterogeneo. Questa
impostazione, ormai sempre più diffusa da origine a
videogame che non
possono avere una precisa definizione del loro genere
d’appartenenza.
La commistione di generi avventura-azione-GDR è quella
più famosa, ma
vanno diffondendosi altri ibridi che riscuotono enorme successo:
parliamo degli FPS e, primo fra tutti, parliamo del caso Deus
Ex (2000, Ion Storm), sparatutto Sci-fi
con anima da gioco di ruolo in prima persona. Tale titolo si spinge
oltre i limiti usualmente imposti dai videogiochi di ruolo tramite un
sistema di interazione con gli oggetti e PNG totalmente innovativo:
ogni azione del giocatore sembra avere ripercussioni con le successive
interazioni, tanto direttamente quanto indirettamente: se, volutamente
o per sbaglio, entrassimo nel bagno delle signore (il nostro avatar
è
forzatamente uomo) sul luogo di lavoro, non solo verremmo cacciati ed
insultati dalle signore che potremmo trovare all’interno di
essi
(conseguenza diretta), ma saremo sgridati e invitati a non ripetere il
gesto anche dal nostro capo del dipartimento, durante il seguente
briefing di missione (conseguenza indiretta). Inoltre
l’esperienza di
gioco è arricchita dalla necessità di doversi
immedesimare nell’avatar
per poter scegliere che strategia adottare per portare a termine le
missioni attraverso tattiche di gioco e sistemi di potenziamento del
personaggio, sia corporei che dell’equipaggiamento. Allo
stesso modo, Bioshock (2007,
2k Games), rappresenta un felice esempio di ibridazione del genere
sparatutto con una solida base ruolistica, reso capolavoro grazie al gameplay
sci-fi horror
frenetico ed immediato e dalla sua sceneggiatura che chiama in causa
problematiche etiche quali la folle utopia di una
società che crede
nella ricerca e nella sperimentazione bio-genetica sugli esseri
viventi, in particolare sugli esseri umani, con le conseguenti
aberrazioni che essa produce. Nel 2004 si assiste ad
un sostanziale
cambiamento nel panorama dei giochi di ruolo: “se non
è online non è”
recitavano molte testate del settore videoludico. In
quell’anno infatti
vedeva i natali il quanto mai blasonato World of Warcraft (Blizzard),
MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Game) che surclassa il
successo dei suoi predecessori – Ultima Online
e Dark age of Camelot su
tutti – proponendo un sistema di gioco a cavallo tra il gioco
di ruolo,
la strategia e l’azione. Ma ciò che ha fatto di
World of Warcraft un
successo planetario forse non è né
l’interfaccia, né la componente
ruolistica di customizzazione del proprio personaggio, ma la sua
community che, nel 2008, contava ben oltre le 11 milioni di iscrizioni
attive. Il gioco di ruolo del terzo millennio diventa GDR online;
l’esperienza di “condivisione delle
esperienze” si sposta
progressivamente dai blog ai mondi fantastici dei videogames, spesso
con rimandi dagli uni agli altri, così come accade in Second
Life (2003,
Linden lab), enfatizzando la componente “real” in
un mondo virtuale:
dal mondo di gioco è possibile acquistare, attraverso le
giuste
conoscenze e la giusta “reputazione”, oggetti del
mondo reale come una
chitarra o un I-pod, semplicemente recandosi nel virtual store
appropriato. Insomma, definire cosa è o non è un
gioco di ruolo oggi è
arduo, poiché i confini diventano mobili. Così
come per la tv, per la
quale non è più necessario redigere semplicemente
i testi da mandare su
schermo, per i videogames si prospetta la medesima situazione: il
lavoro più importante non riguarda la costruzione di un format
di gioco che rientri nei canoni di categorizzazione vigenti,
bensì la costruzione di una trama avvincente, di un gameplay
che risulti conseguentemente valido ed appagante, per poter garantire
un’esperienza di gioco che sia vieppiù
entusiasmante e in grado di
essere ripetuta. Ciò che i designer devono saper prevedere
in anticipo
è la meccanica di gioco, cioè
l’organizzazione degli eventi e dei
dialoghi, mentre il resto accade “in game”, per
mezzo del giocatore,
sulla base di una competenza intertestuale presupposta e condivisa da
entrambi. Molti giochi sono pubblicizzati come forniti di
“elementi di
gioco di ruolo”, talvolta essi sono completamente lineari e
non offrono
opportunità di gioco di ruolo maggiori di quelle possedute
guardando un
film o leggendo un libro, anche se ciò non è
generalizzabile all’intero
panorama dei video-GDR. Anche se ovvie limitazioni tecniche e pratiche
confermano che un videogioco di ruolo non possa essere aperto e libero
come i giochi di ruolo “carta e penna” stile
D&D - dove l’unica
limitazione reale agli eventi che si svolgono è
l’immaginazione dei
partecipanti - è opportuno ribadire che diversi giochi
permettono una
considerevole varietà nel modo in cui raccontano la loro
storia, a
seconda delle decisioni del giocatore e della
“personalità” del suo
avatar, che siano essi picchiaduro, sparatutto, adventure, strategici o
giochi online. Dal punto di vista sociologico, talune scelte di design,
in un contesto commerciale consumistico come il nostro, riguardano
soprattutto la creazione di strumenti che attivano la componente
ruolistica messi a punto dai programmatori e gestita dai giocatori, che
sono in grado di estendere la vita del gioco anche quando esso
è stato
completato al 100%: più a lungo la gente gioca e ri-gioca un
GDR, più a
lungo ne parla diventando essi stessi veicoli e strumenti preziosi di
marketing. Will Wright, autore della serie Sim City
(1989, Maxis ) e The Sims (2000,
Maxis ), paragona questo processo alla diffusione di un virus:
“Se
riesco a far giocare gli utenti il doppio del tempo, posso vendere una
quantità di copie dieci volte superiore!”. La rete
di relazioni che si
instaura tra giocatori è probabilmente l’elemento
principale di
sostenimento dell’industria videoludica, alla pari
– se non in maggior
misura – degli upgrade hardware delle piattaforme che li
supportano o
degli algoritmi di intelligenza artificiale più innovativi.
È opportuno
chiedersi: perché è la componente ruolistica ad
attivare siffatti
meccanismi? A differenza degli altri generi videoludici il genere GDR,
soprattutto quello online ma non solo - si prenda ad esempio Fable
2,
GDR offline il cui mondo di gioco persiste e “vive”
anche a console
spenta! - sono in grado di coinvolgere una popolazione di gamer pari a
quella di una città di medie dimensioni, con mondi ed
ambientazioni che
sono permanenti, indipendentemente dal fatto che un giocatore vi sia
collegato o meno. I mondi sintetici di questi videogame, infatti, non
svaniscono quando un utente si disconnette dal server, ma ci sono forze
(interne o risultanti dalle azioni di altri giocatori) perennemente
all’opera: proprio il senso di continuità del
mondo contribuisce a dare
profondità al gioco e incoraggia i giocatori a tornare
all’interno del
“virtual world” in maniera costante, onde evitare
situazioni di crisi
con gli altri player o, nel caso dei GDR offline, con taluni PNG che
alterano il loro allineamento nei confronti dell’eroe.
Potremmo
asserire che alla nebulosità del concetto di genere
videoludico si
affianchi, oggi, quella del concetto di “partita”,
poiché la durata di
ognuna può dilatarsi sino a coprire un arco di tempo di
diversi mesi.
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:: visioni ::
. Baldur’s
Gate, Bioware 1998
. Bioshock, 2k Games 2007
. Dark Age of Camelot, Mythic
Entertainment 2001
. Deus Ex, Ion Storm 2000
. Diablo, Blizzard 1996
. Dragon quest, Enix
1986
. Fable, Lionhead 2004
. Fable 2, Lionhead 2008
. Fallout 3, Bethesda Softworks 2008
. Final Fantasy VII, Squresoft
1997
. Ghotic, Piranha Bytes 2001
. Neverwinter Nights, Infogrames 2002
. Quake, ID Software 1996
. Rogue, A.I. Design 1980
. Sim City, Maxis
1989
. Second Life, Linden Lab 2003 |
. Ultima Online, Origin Systems 1997 . World of Warcraft, Blizzard 2004 . Soul Calibur IV,
Bandai-Namco 2008
. Street Fighters, Capcom 1987
. The Elder Scrolls, Bethesda
1995
. The Legend of Zelda: A Link to the Past,
Nintendo 1991
. The Sims, Maxis 2000
. Ultima, Origin Systems 1980 :: letture ::
. Blog di Mattia Zabini: http://www.flyingcircus.it/forum/ quattro_chiacchere_tra_noi/mattia_zabini_da_la_sua_definizione_del_gioco_di_ruolo
. F. Calamosca, “Final Fantasy. Vivere tra gli indigeni del cyberspace”, edizioni Unicopli
:: note ::
1. Blog di Mattia
Zabini: http://www.flyingcircus.it/forum/ quattro_chiacchere_tra_noi/mattia_zabini_da_la_sua_definizione_del_gioco_di_ruolo
2. Cfr.
F. Calamosca, “Final
Fantasy. Vivere tra gli indigeni del cyberspace”,
edizioni Unicopli, p. 194. |
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