Nel 1985
Donna Haraway pubblica il Manifesto Cyborg, testo
fondamentale, diventato luogo di dibattito e fonte di ispirazione per
la teoria culturale femminista, in quanto nella tecnologia si leggono
potenzialità radicali di cambiamento per le
donne. L’originalità
del pensiero di Haraway sta soprattutto nel situare la creazione del
cyborg come critica alla ragione centrata sul soggetto, ovvero alla
tesi che l’uomo, quella creatura autonoma e universale, altro
non è che
una costruzione moderna, manifestazione del nostro sapere e potere. Per
Haraway, le tecnologie del corpo che producono il soggetto moderno
diventano sempre più deboli e vengono di volta in volta
sostituite da
tecnologie di un ordine completamente diverso. I limiti delle
configurazioni moderne di potere, quei limiti di demarcazione tra io e
altro, si stanno dissolvendo dando luogo a nuovi
“limiti” imprecisi e
fluidi, che rompono i dualismi tra io/altro, idealismo/materialismo,
mente/corpo, umano/animale. Nuovi limiti resi possibili dal dispiegarsi
graduale delle tecnologie cibernetiche nel campo della biologia e
medicina, nella logica della dominazione delle corporazioni
multinazionali, nei luoghi di lavoro, negli ambienti militari. Nuovi
limiti che sviluppano nuove configurazioni di potere e di sapere e che
creano nuovi “soggetti” postmoderni. Nel
1986 negli Stati Uniti esce Mirrorshades: the cyberpunk
anthology, un’antologia
di racconti di fantascienza curata dallo scrittore Bruce Sterling, che
inaugura il movimento letterario del cyberpunk, cui fondatore
sarà
anche William Gibson. Per il cyberpunk la tecnologia è
cambiata, è
divenuta qualcosa di intimo, non è fuori ma dentro le teste,
sotto la
pelle: è il personal computer, il Walkman Sony, il telefono
cellulare,
le lenti a contatto, come spiega Sterling nell’introduzione a
Mirrorshades
(Sterling 1994, pag. 19-20). Non si tratta più di protesi o
strumenti,
ma di organi di senso, di elaborazione e motori accrescitivi delle
facoltà umane, estensioni, perfezionamenti in direzione
della
progettazione di un essere post-biologico, e si assiste, di
conseguenza, ad un mutamento nell’immaginario relativo al
rapporto uomo
e macchina1. Per
il mirrorshades group simbolo di
anticonformismo sono gli occhiali a specchio, dato che hanno la
capacità di nascondere gli occhi dell’individuo,
impedendo al mondo
delle regole condivise di contaminarlo, con la funzione di rigettare,
riflettendola, la realtà. Caratteristica dei romanzi
cyberpunk è la
descrizione dei futuri sviluppi dell’alta tecnologia nel
campo
dell’informazione e del capitalismo multinazionale, il
degrado
ambientale, il corpo modificato tecnologicamente, enclavi culturali
post-nazionali e, in particolare il cyberspace,
termine coniato da William Gibson nel romanzo cult Neuromancer
del 1984, che trova la sua origine nella parola greca kyber,
che vuol dire “navigare”. Nel suo romanzo Gibson
descrive uno spazio
digitale e navigabile, un mondo elettronico nel quale individui e
società interagiscono attraverso le informazioni. Nello
specifico si
tratta di un mondo nel quale multinazionali, corporazioni e pirati
informatici si scontrano per la conquista dei dati e delle
informazioni. Qualche anno dopo, nel 1991, la
scrittrice americana Marge Piercy pubblica He, She and It,
romanzo che si inserisce nel solco della narrativa cyberpunk e che nel
1994 vince il premio intitolato Arthur C. Clarke, assegnato annualmente
ai migliori romanzi di fantascienza. Sono trascorsi solo pochi anni
dallo “scoppio” della rivoluzione informatica e
telematica, della
diffusione di tecnologie come il satellite, il cavo in fibra ottica e
il telefono cellulare, del primo boom degli accessi alla rete e la
costituzione di vere e proprie comunità deterritorializzate,
che usano
la rete sia come spazio di interazione personale che di comunicazione
pubblica, sia canale di condivisione di ricerche scientifiche. In
He, She and It,
Marge Piercy adotta la topografia tipica del paesaggio cyberpunk, il
cyberspace, però a differenza del cyberpunk, qui il
cyberspace non è un elemento per
“rigettare” la realtà, ma è
un’ “arena che riflette le tensioni sociali del
mondo reale. I protagonisti del romanzo sono tutti
impegnati attivamente nel mondo in cui vivono, con
corpi e menti in co-operazione con altre persone” (Federici
1997, pag. 119; trad. it e cors. mio),
in altre parole la narrativa cyberpunk le permette di presentare il
futuro in termini di presente e di criticarne, quindi, gli aspetti
socio-culturali. Diviso in ventinove capitoli, nel romanzo gli
avvenimenti narrati non avvengono in successione, in modo sequenziale,
ma si svolgono su terreni di referenza diversi, attraverso la fusione
di linguaggio tecnico-scientifico e linguaggio
dell’immaginazione, che
apre la strada ad una pluralità di percorsi interpretativi,
sfuggendo
in questo modo al riferirsi unilaterale proprio dell’ordine
del
discorso, che fa delle parole uno strumento di produzione e
rappresentazione. He, She and it
si caratterizza, infatti,
per una scrittura che potremmo considerare cyborg, essendo
assolutamente non unitaria e identitaria ma presentandosi come un
ibrido di passato, presente e futuro, come una mescolanza di generi
diversi e di storie differenti che crea una particolare
intertestualità
tra romanzo storico, filosofico e fantascientifico. Una scrittura,
cioè, “onnivora, che si nutre di un patrimonio
attinto da più
tradizioni e da più culture” (Fortunati 2002, pag.
89). Siamo nel
2059 e il mondo è diviso in ventitré enclavi,
governate dalle multis,
grandi imprese multinazionali. La maggior parte della popolazione vive
fuori da queste enclavi, nel Glop, in cui dominano povertà,
violenza,
gangs e legge del più forte. Ci sono, poi, le
città libere, come quella
di Tikva, abitata da una comunità ebrea
d’artigiani high-tech del
software, in lotta contro il potere delle multinazionali che dominano
il mondo. La storia inizia con il divorzio di Shira,
una tecnologa
protagonista del romanzo che, in seguito alla separazione dal marito
Josh e alla perdita della custodia del figlio Ari, decide di lasciare
la Yakamura-Stichen – la multinazionale per la quale lavora
– e di
ritornare nella città nativa di Tikva, dove vive sua nonna
Malkah, una
scienziata di fama. Qui Shira accetta il compito di aiutare lo
scienziato Avram ad ultimare la programmazione di Yod, un cyborg
indistinguibile dagli umani, da lui creato. Da subito si pone in
rilievo il problema dell’identità e delle
demarcazioni convenzionali di
genere, nonostante già il titolo del romanzo ne affronti la
questione,
a tal punto che avrebbe potuto intitolarsi, come ci suggerisce Krestin
Shands, “He, she or it” (Shands 1994, pag. 141):
è Yod, questo cyborg,
un uomo, una donna o una macchina? Questo interrogativo equivale a
rimettere in discussione le nostre credenze e convinzioni su cosa sia
l’uomo, quale sia la sua natura ma soprattutto, da un punto
di vista
linguistico, la sua definizione. A ciò si aggiunge la
volontà di
descrivere un mondo caratterizzato dalle possibilità
cibernetiche e dai
continui sviluppi in campo tecnologico, in cui noi stessi annulliamo la
linea di separazione tra uomo e macchina, tra fisico e non fisico:
Yod, ormai siamo tutti innaturali.
Io ho subìto un
trapianto di retine. Mi sono fatta inserire uno spinotto nel cranio per
poter interfacciare con un computer. Malkah ha
un’unità sottocutanea
che controlla e corregge la pressione sanguigna […]. Siamo
tutti
cyborg, Yod. Tu sei soltanto una forma più pura verso cui
tutti tendiamo (Piercy 1991; trad.it.: 176).
Si riprende qui l’idea del cyberpunk, secondo cui la
tecnologia è
diventata qualcosa di molto più intimo, nel senso che
è sotto la pelle,
dentro di noi, e il rapporto che s’instaura porta a
trasformarci, in
realtà, tutti in cyborg, risultato dell’unione di
organismo biologico e
cibernetica. Ma non si tratta solo di una questione fisica. Attraverso
le parole di Yod, infatti, Marge Piercy sottolinea come noi uomini
siamo, in un certo senso, programmati e costruiti da codici, da
pratiche e discorsi socio-culturali attraverso i quali abbiamo
sviluppato e fissato le funzioni da svolgere:
Sai nuotare Yod? Si,
anche se è una delle mie
capacità che non ho mai messo alla prova. Sono programmato
perché mi
piaccia esercitare le mie funzioni (ibidem: 120).
E ancora: Veramente
non trovi bello questo vestito? Un po’ sexy? Shira
non afferro il concetto. Devi pur
capire l’attrazione, Yod, visto che sei attratto da me. Ma
non perché hai un certo aspetto. Non
ci credo. Non
ho alcun criterio in base a cui giudicare l’aspetto umano.
Non sono
stato programmato per questo. Mi piace come sei fatta, ma mi piace
anche come è fatta Malkah. Trovo molte persone interessanti
da guardare. Lei
si ritrasse, offesa. […] Malkah gli sembrava altrettanto
attraente. Non
avrebbe mai dovuto preoccuparsi del proprio aspetto visto che lui
sembrava incapace di accorgersi dei suoi momenti peggiori come quelli
migliori, esattamente come le gattine non l’avrebbero mai
giudicata per
quelle che erano le sue sembianze. Spesso con Yod, quando lei assumeva
i comportamenti che le erano abituali con gli uomini, si ritrovava a
giocare da sola. Molti dei comportamenti uomo-donna non erano
semplicemente possibili. Non avrebbero mai discusso
sull’abbigliamento,
su ciò che lui trovava sexy, su ciò che lei
trovava degradante portare
o non portare, se era troppo grassa o troppo magra (ibidem:
283).
Yod non giudica le apparenze, in questo differisce dagli
esseri
umani; ma, come gli uomini, è capace di sviluppare proprie
ambizioni e
valori, è in grado di creare metafore, di amare, di godere,
di
desiderare, di manifestare insicurezza e ci tiene a chiarire la
differenza tra le funzioni che deve svolgere assegnategli da Avram, e
lo sviluppo di una sua personalità:
Mi ha prodotto, ha scelto di farmi
esistere ma non
come individuo, non per quello che sono, solo per alcune delle cose che
posso fare (ibidem: 142).
Anche nella descrizione dell’incontro sessuale tra
Yod e Shira,
leggiamo lo stupore di quest’ultima nello scoprire il cyborg
meno
“meccanico” degli altri suoi amanti umani, ponendo
in primo piano la
questione che produrre robot umani o macchine
“meccanizza” tutti noi
(Shands, op.cit., pag. 93), ricollegandosi,
in questo modo, a
ciò che sostiene Haraway quando scrive che nel rapporto tra
umano e
macchina non è chiaro chi crea e chi è creato
(Haraway, 1991, pag.
177). Yod rappresenta la creatura post-genere,
è un connubio di
he, she e it e trascende, in questo modo, le categorie di genere
maschile/femminile: nasce in un laboratorio, con le caratteristiche
fisiche di un maschio e infine viene “programmato”
da Malkah per
sviluppare un certo livello di autodeterminazione, in modo da sfuggire
al progetto di dominazione da parte del suo creatore:
Avram lo ha fatto maschio, in
tutto. Avram pensava
che fosse questo l’ideale: pura ragione, pura logica, pura
violenza. Ma
il mondo è scampato a stento ai maschi di questo tipo.
Così ho cercato
di dargli un lato più delicato, cominciando con
l’enfatizzare l’amore
per la conoscenza e allargandosi poi al piano emotivo e personale,
creando un bisogno di contatti… (Piercy, op.cit.,
pag. 167).
Ci sono due aspetti da sottolineare in questo passaggio: il
primo è
il tema del desiderio della procreazione da parte dell’uomo,
dello
scienziato Avram che lavora in segreto nel suo laboratorio
(“Yod is a
secret project of my own” [ibidem, pag. 73]), che tanto ci
ricorda il Frankenstein
di Mary Shelley; il secondo riprende l’idea di Haraway
dell’importanza
da parte delle donne di comprendere la presenza della cibernetica in
ogni aspetto della realtà sociale e di prendere parte
attivamente nella
costruzione dei nuovi limiti, come strumento di liberazione. Tutte le
donne in He, she and It, hanno conoscenze ed
esperienze
nell’ambito tecnico-scientifico al pari degli uomini, proprio
perché la
scrittrice vuole incoraggiarle a sentirsi partecipi nella costruzione
della futura tecnologia. Malkah, infatti, spiega a Yod
l’importanza del
ruolo da lei svolto nella sua creazione:
Avram mi ha proibito di vederti, ma
possiamo ancora
comunicare attraverso la Base ed è qui che creerò
le mie buba masiod,
le favole della nonna, per te. […] Sono la figura
[…] che ti insegna a
mitigare la violenza attraverso un rapporto umano (ibidem:
28).
È, come vediamo, Malkah a programmare Yod nello
sviluppo del suo
lato emotivo, a dargli un’educazione sentimentale iniziandolo
al
racconto della creazione del suo antenato, del Golem2 Joseph da parte
del rabbino Judah Loew nella Praga del 1600. Marge Piercy vuol
mostrarci come tra il 1600 e il 2059 ci siano tante differenze,
soprattutto culturali, ma come nello stesso tempo e allo stesso modo
Yod e Joseph sono espressione di subjects in process,
decentrati, che suggeriscono la possibilità di innumerevoli
altre
storie ma soprattutto tematizzano la costruzione
dell’identità
decostruendo, di conseguenza, le dicotomie su cui si basa il pensiero
occidentale. Viene, inoltre, evidenziato che
è il potere delle parole a creare la
realtà: il Golem prende vita quando sulla sua fronte viene
scritta la
parola emet, verità e può
essere distrutto trasformando la parola da emet a met,
ovvero morte; allo stesso modo Yod è il risultato di un
linguaggio di
programmazione, di un lavoro di studio, ricerca e
“inserimento di dati”
che lo rendano perfettamente integrabile nella società:
Bisogna insegnargli a parlare agli
umani, a comportarsi in società, a gestire le sue funzioni
(ibidem: 87).
E come un bambino che viene alla luce protestando e piangendo,
allo
stesso modo Yod vive la sua “nascita” con spavento,
sofferenza, come
spiega a Shira:
Ti ricordi l’equivalente
della tua nascita? Nel
momento in cui presi coscienza nel laboratorio tutto
cominciò a
precipitare verso di me. Sentii un dolore acuto,
terribile, bruciante.
Emisi un urlo di terrore. […] Tutto mi aggrediva. Il suono,
la vista,
il tatto, tutti i miei sensori mi inviavano enormi masse di dati, tutti
apparentemente di uguale importanza, ugualmente forti. Mi sentivo
bombardato fin quasi allo stordimento. […] Ho dovuto subire
l’esperienza di grandi flussi di informazioni casuali che si
facevano
strada nella coscienza. Ero tempestato da controlli interni,
temperature, distanze fra me e gli altri oggetti, analisi chimiche,
rapporti sulla temperature di parti diverse della mia pelle e
dell’atmosfera, definizioni di parole, calcoli di traiettorie,
funzioni
trigonometriche, algoritmi, ora esatta, storia locale e mondiale,
quaranta lingue. […] Ero troppo confuso e stravolto per
poter
distinguere le varie sensazioni. Non sapevo nemmeno cosa fossero.
Sapevo solo che sentivo male (ibidem: 140-142).
Leggendo questo passaggio notiamo come la descrizione della
nascita
avvenga attraverso l’impiego di termini scientifici, quasi a
porre
l’accento sulla sua natura di macchina, ma nello stesso tempo
siamo
coinvolti emotivamente dalla sofferenza e dalla confusione che prova,
proprio come essere umano. Ancora una volta ci troviamo di fronte
all’impossibilità di definire, di inserire Yod in
una categoria fissa,
stabile. La stessa difficoltà che incontriamo nella
scrittura, dato il
susseguirsi degli eventi senza una continuità logica. Una
scrittura
che, per questo, potrebbe considerarsi cyborguesca, per riprendere il
termine coniato da Giulia Colaizzi (2006), da cyborg e dalla nozione di
corpo grottesco di Bachtin, ovvero un corpo non confinato in se stesso,
ma che vive in un rapporto di simbiosi con altri corpi, di
trasformazione e rinnovamento, ricorrendo anche a mescolamenti e
contaminazioni che non conoscono soluzione di continuità tra
umano e
non umano, animale e vegetale, organico e inorganico. Secondo
Giulia
Colaizzi il corpo cyborguesco è un corpo che eccede
costantemente i
suoi limiti, non è chiuso in una totalità ma
è un corpo dialogico,
identico a se stesso e nello stesso tempo altro, un corpo strutturato
come un’articolazione di discorsi e differenze, che si ha nel
e
attraverso il linguaggio. Quindi scrittura cyborguesca
poiché non è
chiusa in una totalità, ma è eterogenea,
risultato della fusione di
linguaggio magico, mitico della tradizione cabalistica attraverso
l’uso
del passato e linguaggio informatico, scientifico rappresentato dal
mondo virtuale con l’uso del presente/futuro. Le
unità di tempo, di
spazio vengono completamente stravolte e la scrittura si pone come la
grottesca parodia di ogni forma di coerenza. Di conseguenza, i
canoni della narrativa basata su criteri di verosimiglianza e
naturalismo, che offre una visione monolitica e chiusa del mondo,
vengono sconvolti. Qui, alla monologicità della parola, si
sostituisce
la pluralità di voci e punti di vista dei personaggi che
popolano il
romanzo e che non s’inquadrano in un progetto unico e
unitario. La
Piercy, infatti, si nasconde, si rende invisibile e lascia che siano i
suoi personaggi a narrare e narrarsi. Realizza, cioè, il suo
discorso
attraverso un gioco di rinvii da interpretato ad interpretante,
cosicché la sua parola “si situa in un dialogo
infinito” (Cfr. Ponzio
2004), non si lascia imprigionare nella sua realtà, ma rompe
i confini
del suo tempo e rivive nel dialogo con gli interpretanti di mondi
differenti: quello futuro ricco di suggestioni cyberpunk e quello
passato, della tradizione orale, della magica atmosfera della Praga
secentesca. Nel “ri-scrivere” il mito
della figura del doppio, del
non-definibile, del non-circoscrivibile, come quella cyborg e
del
Golem, la scrittura di Marge Piercy trasgredisce i confini,
permettendoci di uscire dal labirinto dei dualismi (Haraway, 1991, pag.
181) e presentandosi come una lotta al diverso, al molteplice,
soprattutto per l’impossibilità di rinchiuderla in
una sola lettura.
Non ci mostra, infatti, un solo “volto”, ma si apre
alla pluralità
delle interpretazioni possibili: si apre, cioè,
all’eteroglossia in
quanto si pone fuori dalla produzione di un senso che si propone
rassicurante e immutabile, fuori da un sapere che pretende di dargli un
corpo preciso, che abbia appunto senso. Il mio credere
profondamente
nella possibilità di un cambiamento positivo, viene
confortato dalla
scrittura di Marge Piercy, nel senso che i suoi testi mi permettono di
intravedere le infinite possibilità che il nostro vivere
quotidiano
soffoca e, soprattutto, rafforzano in me la convinzione che
l’immaginazione sia lo strumento di liberazione
più potente: se non
siamo capaci di concepire qualcosa di diverso, non possiamo sperare di
ottenerlo.
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:: note ::
1. È
interessante riportare la riflessione di Antonio Caronia in merito al
film Videodrome di
Cronenberg del 1982 che presenta la figura di un “cyborg
assolutamente
inedito”, un corpo la cui integrazione con la tecnologia non
è l’esito
di un’operazione chirurgica o di una produzione ad alta
tecnologia,
bensì il risultato di un processo sociale, di una
particolare
configurazione del flusso comunicativo. “…per la
prima volta è
direttamente la società, e in particolare
quell’apparato sociale
essenziale per la modernità che è il sistema dei
media, a secernere
l’ibrido spaventoso tra uomo e macchina: e lo produce
direttamente
dalla sua quotidianità, dal suo funzionamento abituale.
[…] Cronenberg
ci mostra un mondo che è inequivocabilmente il nostro, con
una
televisione pervasiva, morbosa ma domestica, elemento costitutivo della
nostra vita quotidiana ma al tempo stesso catalizzatrice di pulsioni
così potenti da trasformare il mondo intorno a noi, da
cancellare ogni
confine stabile tra l’esterno oggettivo, dato al di fuori di
noi, e
l’interno del vissuto psichico, delle fantasie sessuali e
delle
pulsioni di morte” (Caronia 2001, pag. 79-80).
2. Quella del Golem è
un’antica leggenda ebraica sul mito dell’uomo
artificiale creato da un altro uomo mediante la costruzione di un
simulacro d’elementi naturali, la terra, che prende vita
grazie a
formule magiche.
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