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Truman Show, firmato Dick.2 di Adolfo fattori | |
Uno degli approdi della ricerca e delle riflessioni di Jean Baudrillard, a partire almeno dalla scrittura di Lo scambio simbolico e la morte (Baudrillard, 1976), è una considerazione apodittica e radicale: la televisione ha ucciso la realtà, sottotitolo del suo penultimo libro importante, Il delitto perfetto (Baudrillard, 1996). Il “delitto perfetto” è, secondo il filosofo francese, appunto quello perpetrato dalla TV, che, con la sua immanenza e pervasività, ha ucciso la realtà sostituendo ad essa la sua simulazione: Simulazione, nel senso che tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale… Emancipazione del segno: svincolati da questa esigenza “arcaica” che aveva di designare qualcosa, esso diventa infine libero per un gioco strutturale, o combinatorio, secondo un’indifferenza e un’indeterminazione totale. (Baudrillard, 1976, pag. 18) Queste considerazioni, espresse agli albori della riflessione sui fenomeni connessi allo sviluppo dei nuovi media, fanno riferimento ai riflessi del passaggio dalle tecnologie analogiche di riproduzione della realtà (fotografia, cinema) a quelle digitali, alla base del virtuale. In effetti, di pari passo ai processi di deterritorializzazione e individualizzazione che hanno scandito il passaggio verso il postindustriale, la TV ha progressivamente sostituito il cinema come strumento di diffusione dell'immaginario, e ha nello stesso tempo generalizzato la logica della serializzazione applicandola all'immagine, sintetizzando così spettacolo cinematografico, serialità narrativa, informazione di massa – raffreddandone la natura rispetto al calore della sala cinematografica e della carta stampata, ma forse solo adeguando i veicoli dell'immaginario alle nuove condizioni imposte dal sociale. Cercando una sponda sul versante della produzione estetica per illustrare le sue riflessioni, ne trova uno d’elezione in Philip K. Dick. E non poteva essere diversamente, visto che lo scrittore americano di science fiction aveva presto cominciato a mettere in scena, nei suoi lavori, situazioni in cui è sempre più difficile, per i protagonisti, districarsi in situazioni in cui sono continuamente costretti a interrogarsi sulla autenticità delle proprie percezioni, sullo statuto della propria identità, sulla veridicità di quella che percepiscono come realtà. I personaggi delle sue storie vivono perennemente nel dubbio che le loro percezioni siano alterate e che siano le vittime di un grandioso “inganno metafisico” ai loro danni, e che la loro percezione del reale, fino alla stessa identità che percepiscono come propria, sia solo un’illusione, una simulazione. In pratica, Dick applica al formato del racconto di fantascienza il meccanismo su cui si era basato il formato del racconto fantastico: il perturbante (Freud, 1969). Anche la TV aveva riproposto il dispositivo individuato dal viennese, attraverso una delle serie più importanti per la storia dell’intreccio tra TV e science fiction: The Twilight Zone. Una serie televisiva che vide fra i suoi sceneggiatori, fra l’altro, maestri del perturbante narrativo al servizio della stampa periodica come Richard Matheson. E in particolare, al rischio costituito dallo strapotere dei media e in particolare della TV Dick dedica esplicitamente nel 1976 un romanzo, Scorrete lacrime, disse il poliziotto (Dick, 2007). Siamo nel 1988. Si intuisce, implicitamente, che l’intera Terra è sotto il controllo di uno stato poliziesco. C’è una rigidissima divisione in caste, basate sul codice genetico.Il protagonista, Jason Taverner, ha un codice genetico potenziato, ed è il cantante e il conduttore di uno show televisivo trasmesso in tutto il mondo. A causa di un incidente, finisce in ospedale, poi, privo di coscienza, in una topaia di ultima categoria. Jason ricorda chi è, ma scopre di essere stato cancellato dalla memoria del mondo: nessuno lo ricorda, non ha documenti, non esiste più traccia di lui in nessun archivio: rischia di essere arrestato ad ogni istante. Nei due giorni successivi alla scoperta della sua “scomparsa”, Jason fugge e indaga sul suo destino, per recuperare la propria identità o trovare un posto dove nascondersi in un mondo che improvvisamente gli si è rivoltato contro, diventando alieno e ostile, che “… prodotto di sofisticati livelli di dominio tecnologico (gli) mostra inopinatamente lo stesso volto orchesco di una natura arcaica e selvaggia” (Formenti, 1986, pag. 56), e poter scoprire il mistero della propria scomparsa sociale. Viene in mente il capolavoro di Fredric Brown, Assurdo Universo (Quaderni D’Altri tempi numero cinque), la storia di Keith Winton, un giovane inconsapevolmente precipitato in un universo parallelo leggermente “scostato” dal suo. La metafora di Dick è esplicita: Taverner esiste solo sullo schermo. “Uscito” di lì, non esiste più. E così, sia Jason Taverner che Keith Winton sperimentano l’angoscia e la disperazione già provata da tanti personaggi di racconti fantastici: proiettati in un territorio fra il reale e l’incubo incapaci di decidere sullo statuto degli eventi cui assistono, indecisi fra la follia e l’illusione. Solo che, se nel caso del fantastico il dubbio pendola fra caduta nella follia del protagonista e irruzione dell’irrazionale nel mondo, con la science fiction il rischio proviene da filtri, interfacce su base tecnologica – chimica, meccanica, virtuale… Anche se, concretamente, in Scorrete lacrime… lo scrittore americano prefigura un mondo, sì, controllato da un potere autoritario, ma caratterizzato dal fatto che la forma con cui questo potere si protegge non è solo nella forza poliziesco/psichiatrico/medica (evidentemente Dick aveva letto Michel Foucault: la Storia della follia nell’età classica e Nascita della clinica erano stati pubblicati in Francia nel 1963, mentre Sorvegliare e punire è del 1975), ma anche il potere dei media – i “sofisticati livelli di dominio tecnologico” di cui scrive Formenti… Fra questi due poli – il primo legato all'immaginazione tecnologica, il secondo al delirio psicotico – per tornare all'oggi, si colloca quindi il dispositivo televisivo, riflesso e cardine della tarda modernità e delle trasformazioni – anche antropologiche – che le sono associate: la TV diventa per certi versi il mediatore sociale per eccellenza, il modo privilegiato per accedere al reale, per scandire il tempo personale, per cartografare lo spazio – uno spazio sempre più virtualizzato, fruito dal salotto di casa, esperito attraverso uno schermo che diventa finestra privilegiata sulla realtà (Pecchinenda, 1997). Per certi versi il Jason di Scorrete lacrime è contiguo a Truman Burbank, il protagonista del bellissimo The Truman Show girato da Peter Weir, 1998, uno dei film sicuramente ispirati agli universi dickiani, che pone al suo centro proprio la capacità della televisione di progettare mondi possibili e di renderli reali. L’unica differenza è che Truman è del tutto inconsapevole di essere un divo, testimonial suo malgrado di un paese dei balocchi televisivo che promuove un mondo in cui tutto il potere – immaginario – sia ai consumatori (Fucile, 2008). Vale la pena di ripercorrere rapidamente la vicenda narrata. Truman Burbank è il classico bravo ragazzo americano, che lavora per una agenzia di assicurazioni, è sposato con una ragazza che gli vuole bene, ha un amico con cui si confida, è circondato da persone che lo stimano e lo trattano con grande affetto. Vive a Seahaven, una cittadina da sogno, tranquilla e solare, e conduce una vita che definire regolare è poco: ogni mattina esce di casa alla stessa ora, saluta sempre con la stessa battuta i suoi vicini di colore, passa dall’edicola a prendere riviste e giornali, e va al lavoro. È un ragazzone vivace ed ingenuo, allegro e disponibile, ma ha un unico grave problema: una terribile fobia per il mare, che gli è nata quando, a otto anni, durante una gita in barca col padre, si è improvvisamente scatenata una tempesta, durante la quale il padre è stato scagliato fuori dall’imbarcazione ed è annegato. Inoltre, nasconde un segreto: con la scusa di comprarla per la moglie, acquista ogni giorno una rivista di moda, da cui di nascosto in ufficio strappa pagine con particolari di lineamenti femminili. Si potrebbe pensare a qualche mania inconfessabile e morbosa. Niente di tutto questo: Truman cerca di ricostruire il volto dell’unica ragazza di cui si era davvero innamorato – che gli è stata subito strappata via, per poi sparire. Da questo episodio proviene l’unico sogno che ha: partire per andare a cercarla. Ma questo gli è impedito, un po’ dalla sua paura dell’acqua, un po’ da circostanze sempre diverse. Truman è, insomma, una persona perfettamente integrata. Solo, a un certo punto, comincia ad avere qualche perplessità. Una mattina quasi gli precipita addosso un’enorme faro, che reca un’etichetta con il nome di una stella. L’autoradio comincia a mandare strani messaggi. Truman comincia a sentirsi osservato. Fin quando, per strada, non gli si avvicina il padre, invecchiato e malridotto, che subito viene condotto via con la violenza da due losche persone. Truman prova a confidarsi, a indagare. Cerca di scappare da Seahaven, ma ogni volta gli viene impedito. Scopre, man mano che procede nei suoi tentativi, di essere al centro di un colossale inganno – e decide di fuggire. Alla fine ci riesce, superando la sua paura e fuggendo in barca a vela (forse percependo che anche la tempesta in cui è “morto” il padre è stata una finzione), fino ad urtare con la barca contro lo sfondo del suo “mondo”, una quinta che simula l’orizzonte, e lascia la scena con la stessa battuta che ogni giorno rivolgeva alla coppia di vicini “E se non dovessi rivedervi, buon pomeriggio, buona sera, e buona notte!” Noi spettatori del film da subito sappiamo che in realtà Truman Burbank è il protagonista involontario e inconsapevole di una pluridecennale soap opera, cominciata alla sua nascita e proseguita fino ai suoi trent’anni ventiquattro ore su ventiquattro. Siamo, ovviamente, nel futuro, in un futuro in cui la tecnologia ha permesso la costruzione di un’enorme cupola che simula il cielo, all’interno del quale è costruita la città di Seahaven, luogo incantato, luminoso, dall’atmosfera dei tardi anni Cinquanta, proprio come li descrive Fredric Jameson in Postmodernismo (Jameson, 2007, pag. 282 e segg.). Il giovane è il frutto di una gravidanza indesiderata, ed è stato selezionato dal creatore del programma fra altri bambini per una serie di circostanze casuali: è nato proprio quando lo show doveva partire. Circondato da comparse ed attori professionisti – e da cinquemila telecamere nascoste – è l’unica persona “vera” (in inglese true man significa uomo vero, ndr) fra tutti gli abitanti della cittadina in cui vive, e conduce la sua vita di protagonista involontario dello spettacolo più seguito del mondo. La sua identità corrisponde esattamente alla sua vita, non c’è niente di più di quello che gli accade – frutto di una sceneggiatura perfetta e puntuale. Queste informazioni vengono rivelate allo spettatore un poco alla volta, attraverso i cambi di scena che Weir fa sugli spettatori incollati ai televisori e sui produttori e tecnici del programma. Scopriamo così che Truman è solo, senza veri parenti o amici. Cruciale diventa la risposta, che Christof, il “creatore” di Truman, da ad un intervistatore che gli chiede come è possibile che il giovane non si sia mai accorto di nulla: “E perché dovrebbe? Noi accettiamo la realtà del mondo così come ci si presenta (corsivo nostro, ndr).” Una traduzione in senso letterale del concetto sociologico di “realtà come costruzione sociale” (Berger, Luckmann, 1969), realizzata però attraverso la dimensione produttiva dell’industria televisiva – e la complicità degli spettatori – ai danni (o perlomeno all’insaputa) del protagonista di questa stessa realtà. Anche in questo caso viene proposto un esempio di come la propria realtà possa essere il frutto di una mera simulazione, con Truman che crede di vivere, di decidere, di agire, mentre tutti i suoi atti sono il frutto, diretto o indiretto, di decisioni altrui. Abitante di un mondo simulato, Truman Burbank vive fuori del tempo reale, in una cittadina ferma alla data della sua nascita, in cui non c'è storia, una sorta di paese dei balocchi sospeso nel tempo e nello spazio, in cui gli unici eventi degni di nota sono un ascensore che precipita, un guasto alla centrale nucleare – tutti creati per lui, per turare le falle che si aprono nella sceneggiatura quando lui comincia a capire, e ad agire fuori degli schemi che aveva fino ad allora seguito. Come Jason Taverner, Truman è esattamente quello che ricorda di essere, tutta la sua vita è evidente e chiara. A differenza di Jason, lo è anche per i milioni di spettatori che seguono le vicende dello show, con i suoi momenti di farsa, di commedia, di dramma. In questa sorta di messinscena metafisica – e mediatica – il ragazzo si muove in un mondo che – reale solo per lui – si istituisce come luogo e tempo mitico per gli spettatori: una sorta di età dell’oro, rassicurante ed eterna. La sua identità, seppure frutto di un artificio, è vera – così come si è sviluppata in una realtà che egli considera tale, nel senso che dal suo punto di vista è il frutto di una catena di eventi concreti, reali, davvero esperiti durante quella che in effetti è la sua vera biografia. Pure, sono bastati due eventi, due perdite – quella del presunto padre, e quella della ragazza – a incrinare il progetto prometeico di Christof: scavando dal profondo, gli effetti di questi due avvenimenti, uniti alle piccole incrinature che si verificano nel suo mondo – finiscono per distruggere la stabilità del programma che era stato costruito attorno a Truman. Alla fine, Truman si prende la sua libertà nel momento in cui scopre che – in effetti – la sua identità è frutto di una colossale bugia perpetrata a sua sola insaputa. “La vita è effimera”, dichiara per telefono il giovane ad una cliente, come è effimera la vita sullo schermo o l’attenzione dei telespettatori, che – dopo aver trepidato e pianto per lui, e dopo aver gioito quando il loro eroe conquista davvero la libertà, uscendo dallo schermo – cambiano serenamente canale e si dedicano ad un altro programma, come spegnendo un interruttore per accenderne un altro. Truman sparisce dietro una porticina sul fondo del set, ma sparisce per certi versi anche a se stesso: la sua identità era determinata da Seahaven, il mondo esterno è nulla per lui – solo dei nomi su una carta geografica. E’ come svanire da un universo, per entrare in un altro. E diventare un altro. La discussione sulla storia che ci viene raccontata da Weir in The Truman Show non sarebbe completa se non si allargasse ad una riflessione sui mezzi di comunicazione di massa, e sulla televisione di fine millennio in particolare. L’identità di Truman Burbank, abbiamo visto, è frutto di un artificio, ma di un artificio molto particolare: lui ha vissuto una vita vera, ma questa vita in qualche modo è stata programmata, guidata, corretta volta per volta dall’esigenza di dare all’audience quello che ci si aspettava questa richiedesse. In qualche modo il pubblico – consapevole o meno – si specchia in questa identità, e se ne fa partecipe, agendo e sentendo come il suo eroe: dorme quando lui dorme, soffre quando lui soffre, si libera (di lui, e del programma) quando lui sceglie la libertà. È questo credo il senso del cambiare canale degli spettatori alla fine della vicenda: la liberazione da quella che per tutti era diventata una gabbia. Ma questo ci porta a riflettere su un aspetto della presenza dei media nella società tardomoderna, e sui riflessi che hanno sulla formazione dell’identità – quelli di cui Dick, seppur metaforicamente aveva in anticipo percepito l’avvento. Noi ci percepiamo attraverso la relazione con gli altri, certo, ma anche – molto più banalmente – attraverso la percezione che abbiamo di noi stessi attraverso le immagini che ci rappresentano: foto, video, ritratti in cui appariamo, ma, prima di tutto, lo specchio in cui ci riconosciamo ogni mattina – come Truman, che regala inconsapevolmente ai suoi fans, quotidianamente, una scenetta che è privata solo per lui. Nella società della comunicazione, la situazione si fa più complessa. Intanto, per noi, la vista è forse il senso più importante attraverso cui facciamo esperienza della realtà circostante. In particolare, pensando alla percezione che abbiamo di noi stessi, questo è vero anche per quella frazione di realtà che definiamo identità, sia la nostra che quella altrui. Proseguiamo in questo ragionamento. “Il peso che, nella percezione della nostra identità, attribuiamo all’immagine d’essa che ci perviene attraverso gli organi della vista, è tale da permetterci di affermare che ciò che vediamo riflessa non è solamente, appunto, l’immagine della nostra identità, ma l’identità in quanto tale.” (Pecchinenda, 1997, pag. 77). Nella società tardomoderna la mediazione degli schermi, e la loro capacità di proporre una realtà possibile anche se simulata, amplifica le sorgenti della formazione dell’identità. Scrive sempre Pecchinenda che “… nell’ambito di una situazione in cui la TV e i nuovi media, investendo sempre di più all’interno della vita reale, fanno vacillare le certezze sull’esistenza di una realtà oggettiva, conducendo ad una condizione in cui ‘l’immagine non può più immaginare il reale, poiché coincide con esso’, bisogna effettivamente cominciare a ripensare – anche fenomenologicamente – alcuni importanti baluardi epistemologici su cui si basa la nostra visione dell’identità.” (Pecchinenda, ibidem, pag. 85). Ma se la nostra identità si forma attraverso i dispositivi di socializzazione che ci coinvolgono con gli altri importanti per noi – prima di tutto i nostri genitori, ma anche gli insegnanti e i pari – cosa succede in una società in cui la televisione è uno dei principali strumenti della socializzazione stessa? Il rispecchiamento con i modelli televisivi diventa un’eventualità più che plausibile. E quindi, il siparietto davanti allo specchio del bagno rubato quotidianamente dalle telecamere all’intimità di Truman diventa la traccia per la giornata degli spettatori. Quella del protagonista del film è una identità senza intimità, quotidianamente e per sempre esposta alla vista di tutti, trasparente e senza profondità: si ha quasi l’impressione che Truman non abbia inconscio, che il suo sé sia monodimensionale. La nostra identità si nutre anche del nostro dialogo interno – che rimane un discorso con noi stessi, conflittuale, a volte, comunque dialettico. Ma che spazio rimane per un sé esposto perennemente alla vista di un pubblico planetario? Truman è il loro modello e la loro speranza – il suo mondo è il mondo che tutti sperano di abitare. Un’operazione, quella di Christof, il regista della soap opera, che addirittura lascia in secondo piano, e rende accettabili e quasi subliminali, le pubblicità dei prodotti di consumo di cui sono costellati gli interventi della moglie e dell’amico. Quella che Christof – attraverso Truman Burbank – vende non è una lista di categorie merceologiche, ma la vita stessa. Una dimensione che, grazie alla maestria di Weir, coinvolge anche gli spettatori del film, quando non riescono più a distinguere l’occhio della cinepresa che racconta la storia, dall’occhio della telecamera che riprende Burbank nella sua spontaneità pilotata, in un gioco di scatole cinesi – o di specchi nidificati l’uno nell’altro – che replica la relazione fra Truman e i telespettatori. Nulla sappiamo del destino che attende Truman una volta uscito dalla porticina che si apre al limite estremo del mondo simulato in cui è nato. Finita la notorietà dovuta allo show, potrebbe sparire nel nulla con la sua ragazza e consegnarsi con lei al silenzio e all’oblio – cosa che, forse, non gli dispiacerebbe nemmeno… Così Truman si unisce alla serie dei protagonisti dei romanzi di Dick, che costituiscono bene un repertorio di personaggi sfortunati, tormentati, difficili: dropouts marginali ed eccentrici, diversi di varie specie, che condividono un tratto fondamentale – il disagio verso la società che li circonda; e un desiderio condivisibile – la fuga verso una realtà più gratificante. Hanno i tratti della nevrosi, se non quelli della psicosi o del ritardo mentale, e funzionano da simboli della distanza dal mondo di tutti coloro che non si adattano – o che sono considerati inadatti – allo stato delle cose. In fondo, sono spesso personaggi autobiografici, ma che rappresentano bene una fase cruciale nella storia del secolo: il periodo che parte dalla fine dell'ultima guerra e prosegue fin quasi all’oggi – periodo di grandi trasformazioni e di svolte epocali, segnato dalla paura e dalla dislocazione sociale. Per certi versi, una riedizione se si vuole seriale e strisciante della grande trasformazione che caratterizzò il passaggio dall'Ottocento al Novecento, e che fu così ben rappresentata nel romanzo novecentesco di Robert Musil, Thomas Mann, Hermann Broch, Franz Werfel – e che in questo cinquantennio non poteva essere raccolta e rielaborata se non dalla narrativa di massa, come forma più adeguata ad esprimerla e a renderla comprensibile. Personaggi minori, alla fine, che non vogliono avere la statura di un Ulrich, di un Marcel, di un Bloom, di uno Hugenau, ma che sono simili – e per questo si rivolgono direttamente – alla massa degli abitanti di metropoli ormai in trasformazione, in un tessuto sociale che si avvia verso il disfacimento: a quelli che cominciano a essere definiti "giovani", come categoria sociale frutto dello sviluppo e del benessere, dagli anni Cinquanta in poi, e che poi mostreranno il loro disagio attraverso i movimenti beat, e hyppie, il Sessantotto, i suoi cascami (Fattori, Fucile, 2008). All'incrocio, quindi, fra le mutazioni radicali, catastrofiche, che hanno segnato gli ultimi cinquant'anni e i modi del confronto delle nuove generazioni con esse, ritroviamo alcune costanti: gli approdi della tecnologia, prima di tutto, e le strategie dell'immaginario; ma anche le esigenze della fruizione, quindi i bisogni immaginativi da soddisfare, e gli strumenti e i modi attraverso i quali la dinamica produzione/consumo di immaginazione si dispiega e si arricchisce. Al posto di un set televisivo, ci si può rifugiare in una nicchia nella Rete, o in una setta, o in un viaggio intenso, ma sempre effimero e troppo breve, in qualche paradiso empatico. Ancora la chimica, o l'elettronica, o anche il misticismo d'accatto, come strade verso un'identità fittizia, e qualche emozione sintetica, o addirittura una biografia simulata.
:: letture :: Abruzzese, Alberto, La Grande Scimmia, Napoleone Roma, 1979 (ora Luca Sossella, Roma, 2007). Albano, Lucilla, La caverna dei giganti, Pratiche, Parma, 1992. Balló, Jordi, Perez, Xavier, Io sono già stato qui Fiction e ripetizione, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2007. Berger, Peter L., Luckmann, Thomas, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1969. Brown, Fredric, Assurdo Universo, Mondadori, Milano, 1982. Dick, Philip K., L’uomo dei giochi a premio, Mondadori, Milano, 1968; attualmente Tempo fuor di sesto, Fanucci, Roma, 2006. Dick, Philip K., Scorrete lacrime, disse il poliziotto, Fanucci, Roma, 2007. Dick, Philip K., L'occhio nel cielo, Mondadori, Milano, 1959. Dick, Philip K., Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Libra, Bologna, 1968. Dick, Philip K., Noi Marziani, Nord, Milano, 1973. Eco, Umberto, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano, 1964. Formenti, Carlo, Prometeo e Hermes, Liguori, Napoli, 1986. Foucault, Michel, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1976. Foucault, Michel, Nascita della clinica, Einaudi, Torino, 1969. Foucault, Michel, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993. Freud, S., Il perturbante, in Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, Torino, 1969. Pecchinenda, Gianfranco, Lo schermo e lo specchio, in “Media Philosophy”, Costa & Nolan, Genova, 1997. "Quaderni d’Altri Tempi” n. 5 viaggio "Quaderni d’Altri Tempi” n. 5 apocalisse Fattori, A., Viaggio psichedelico all’alba dell’era neoterica, in “Quaderni d’Altri Tempi” n. 14, maggio 2008 Fucile, Gennaro, Se una notte dell’inverno 1968 un viaggiatore, in “Quaderni d’Altri Tempi" n. 14, maggio 2008 |