“La Silenziosa” è una villa su cui incombe una terribile maledizione
risalente agli antichi misteri egizi. Quando Sara decide di riaprire
quella casa, che era appartenuta ai suoi genitori, si ritrova a
piombare in un incubo senza via d’uscita. La maledizione torna a
colpire attraverso il suo terribile emissario, l’Ouroboros, il serpente
del diavolo. È questo in sintesi, il plot di Dove muore il silenzio
(Edizioni Cento Autori, 2008), il primo ed atteso romanzo di Simonetta
Santamaria. Un’opera horror che si muove tra il passato ed il presente,
tra le atmosfere tipicamente italiane e quelle misteriose ed esoteriche
dell’Antico Egitto. La giornalista e scrittrice napoletana si è
procurata, grazie ai numerosi racconti pubblicati fino ad oggi,
l’appellativo di "Signora della suspense made in Italy". Basta leggere
racconti come Quel giorno sul Vesuvio – vincitore dell'XI° Premio Lovecraft nel 2004 –, o Confessione di un apprendista di bottega (in Partenope Pandemonium, a cura di Giuseppe Cozzolino, Larcher Editore, 2007) per rendersi conto che la definizione del quotidiano La Repubblica è più che mai appropriata. Con la sua inquietante antologia al femminile Donne in Noir
(Edizioni Il Foglio, 2005), la Santamaria si è svelata a lettori ed
addetti ai lavori come una potente narratrice, capace di condensare in
poche pagine l’essenza della paura, con una prosa semplice, ma da cui
scaturisce una suspense degna dei migliori film di Dario Argento. Di
lei stessa dice: “Non mi prendo mai troppo sul serio, altrimenti sarei
una serial killer.” E allora, per i più temerari segnaliamo i suoi
riferimenti su Internet: www.simonettasantamaria.net e
www.myspace.com/simonettasantamaria. Le abbiamo rivolto alcune
domande sul suo ultimo romanzo, ma anche su cosa significa scrivere
horror in un paese come l’Italia e con il Bel Paese come sfondo.
Con il racconto Quel giorno sul Vesuvio hai vinto il Premio Lovecraft 2004: cosa ha significato questo prestigioso riconoscimento per la tua carriera? Come
ho spesso detto, mi sento un po’ figlia del Lovecraft; devo molto a
questo premio, grazie a lui il mio nome ha cominciato a radicare nel
mondo non facile della scrittura horror e anch’io ho iniziato a
crederci davvero!
La tua prima raccolta di racconti, Donne in Noir, come dice lo stesso titolo, raccoglie racconti che hanno per protagoniste delle donne. Come mai questa scelta? Un
omaggio alle difficoltà che la vita ancora troppo spesso riserva alle
donne. All’epoca collaboravo con alcune testate nel settore cronaca e
mi capitava di ascoltare storie che a volte superavano la fantasia. In
alcuni racconti non ho fatto altro che miscelare la realtà con una dose
di surreale, in altre ho dato libero sfogo alla mia ormai connotata
macabra immaginazione. Storicamente, la donna è vittima designata
rispetto all’uomo; mi pareva un doveroso tributo, questo viaggio nel
loro profondo lato oscuro. Dopo la lettura di Donne in Noir nessun uomo le guarderà più con gli stessi occhi, te lo garantisco.
Come scrittrice hai sempre dichiarato il tuo debito nei confronti
di Stephen King: in cosa ti ha influenzato lo scrittore americano? Ci
sono altri scrittori che ti hanno formato come scrittrice? Nessuno
più di lui. King ha ripreso un po’ le orme di E. A. Poe, altro
scrittore che ho amato moltissimo: ha creato un nuovo modo di scrivere
horror; non più solo vampiri, lupi mannari, zombie, ma paure
quotidiane. Il nostro vicino di casa, un cane, un camion, una
stiratrice industriale o un’organizzazione esperta in diete: sono
queste le cose che ci terrorizzano di più, elementi a noi talmente
familiari da farci rabbrividire quando ne incontriamo uno. E che, dopo
che hai chiuso il libro, ti fanno scrutare nel buio.
Descrivici il tuo processo creativo: come nasce una storia di Simonetta Santamaria? Partendo
dall’assunto che ho la tendenza a vedere il macabro dappertutto, anche
in una festa di bambini, a volte mi basta un nome o un antico portone
socchiuso per far scoccare la scintilla che darà vita a un racconto.
Basta guardarsi intorno, lasciare che i luoghi ti parlino. Dallo stesso
elemento può scaturire una favola o una storia spaventosa, il resto
dipende poi dalla propria immaginazione e dalla capacità di renderla
tangibile.
Quali sono, a tuo avviso, gli elementi fondanti di una storia horror? La
Paura, innanzitutto. Non sono il sangue o i plateali sbudellamenti a
terrorizzare, quelli generano ribrezzo, disgusto. La Paura è un’altra
cosa. È come una corsa sulle montagne russe: la Paura deve correre con
il lettore, sulla sua vettura, deve renderlo consapevole che una volta
salito, quando la barra lo inchioderà al sedile, non ci sarà più
scelta, si scende solo a giro finito. Non è la descrizione dell’evento
fine a se stessa ma la concatenazione degli eventi che devono strozzare
il respiro, non dare tregua, far schizzare il battito cardiaco. A
parole è facile, lo so. In realtà non so neppure se io stessa ci riesco
ma è quello che ricerco quando scrivo e quando leggo o vedo un film. E
comunque niente di tutto ciò è possibile se dietro un progetto horror
non c’è prima di tutto una buona storia da raccontare.
Qual è lo stato di salute della narrativa di genere in Italia, secondo il tuo punto di vista di scrittrice? Abbiamo
un bel numero di scrittori da sottobosco, e in questi mi ci metto
anch’io. Ma la grossa editoria tende ancora a preferire il nome
straniero al neofita italiano. Perché l’editoria è pur sempre un
business, spesso non conta il prodotto ma il nome in copertina: è
quello che vende. Ecco perché può capitare che dietro un grosso autore
prima o poi ti becchi la fregatura. E poi ci sono i diktat della
distribuzione che penalizza la piccola editoria e decide chi va in
libreria e chi no. Sono convinta che non sia sempre necessario
acquistare un bestseller per avere un buon libro tra le mani, infatti
ne compro tantissimi di autori non pubblicizzati e ho avuto la fortuna
di leggere delle storie bellissime. Se tutti quanti ragionassimo in
questi termini, se non ci facessimo influenzare dalla massa,
probabilmente decollerebbe anche quella che viene definita “letteratura
di genere”.
Parliamo del tuo romanzo, Dove il silenzio muore. È stato difficile passare dal passo breve del racconto a quello lungo del romanzo? Radicalmente
diverso. Sul romanzo ci devi lavorare duro per fare in modo che tutti i
fili che hai steso facciano muovere in maniera armonica la stessa
marionetta. Alla fine tutto deve quadrare, non è solo una questione di
fantasia. È logico che poi lo scrittore ricerchi il consenso del
lettore: è l’unica cosa che può compensare una faticaccia simile. Ma
dopo, quando hai il libro tra le mani e lo guardi come se fosse tuo
figlio, perché di un vero e proprio parto si è trattato, la
soddisfazione è immensa.
Il romanzo ha una tipica ambientazione italiana, anche se Borgo
Marina Piccola è un paesino inesistente. Tu hai sempre sostenuto una
via italiana all’horror, sia nelle ambientazioni sia nei personaggi. Ne
hai quasi fatto un manifesto culturale. Ci puoi spiegare che cosa
significa per te scrivere una storia horror ambientata in Italia? Significa dare uno scacco a quelli che ancora vedono la narrativa horror propria di un altrove,
fuori dai nostri confini. Si tratta appunto della subcultura del
bestseller, inteso come termine straniero stavolta. Per carità, tanto
di cappello ai vari King, Deaver, Rice, Higgins Clark, ma perché solo
loro? Il loro percorso è uguale al nostro, nessuno merito maggiore se
non il giusto riconoscimento di un talento, dunque perché continuare a
pubblicare i loro libri e non tenere conto della nostra produzione?
L’Italia è ricca di menti geniali, luoghi e tradizioni che sono ideali
per ambientare storie. Lasciarli al palo mi pare un delitto. In questo
devo dare onore e merito alla Cento Autori che coraggiosamente ha
deciso di investire sui miei scritti. Ce ne fossero, di case editrici
così lungimiranti…
Anche in Dove il silenzio muore la protagonista è una donna di nome Sara. Quanto di autobiografico c’è in questo personaggio? Credo
ci sia sempre qualcosa di autobiografico nei personaggi di uno
scrittore, è impossibile distaccarsene completamente; a me serve per
sentirmelo più addosso, mi aiuta in quella interazione indispensabile
per immergermi nella storia. Sara è una donna forte, volitiva seppure
con le sue debolezze. Come me, avverte la mancanza della madre con la
quale in età adulta avrebbe volentieri condiviso una fetta di vita, ama
gli animali e, come me ha un cane e un gatto, che si chiama Byron, come
quello del libro. E ha una casa dove accadono cose strane…
Il romanzo si muove parallelamente su un doppio binario
temporale: il passato ed il presente. La stessa protagonista deve fare
i conti con il suo passato per affrontare il presente. In effetti il
romanzo potrebbe essere considerato una sorta di discesa nell’animo
umano. Sei d’accordo con questa definizione? Direi che ognuno di
noi, prima o poi, deve fare i conti col proprio passato. Il passato è
la strada, ci insegna dove mettere i piedi. Nel romanzo il passato
s’intreccia nel presente, ne diviene parte e dà vita a un futuro.
Proprio come un Ouroboros, il mitico serpente che si morde la coda,
simbolo di rigenerazione ed eternità. Da lui parte tutta la storia; da
un capitolo Zero si arriva a un capitolo Zero. Il cerchio si chiude. E
tutto potrebbe ricominciare.
Ci parli dei tuoi progetti futuri? A parte lavorare a
spalla con la Cento Autori per far sì che il mio romanzo esca dai
soliti confini, ci saranno partecipazioni ad alcune antologie, e poi
sto lavorando a un secondo romanzo, sempre ambientato a Napoli. Però
stavolta il protagonista è un uomo. Per par condicio. |