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Blade Runner, o l’Edipo replicato* 
di Antonio Cavicchia Scalamonti

blade runnerL’anno è il 2019, in una Los Angeles cupa, angosciosa, spazzata da una pioggia incessante, spaventosamente inquinata da piogge acide, in un’atmosfera di decadenza industriale, sovraffollata da una popolazione variegata che parla lingue diverse e mangia cibi eterogenei. Un insieme di etnie senza niente in comune che vivono gomito a gomito in una città senza alcuna traccia di verde e con un’architettura bastarda in cui costruzioni avveniristiche si mischiano a fatiscenti baracche in una confusione il cui modello urbanistico è forse Hong Kong. Una megalopoli o una Babilonia…
Alcuni “replicanti” guardano con occhio non umano l’infernale panorama caratterizzato da gigantesche ciminiere che eruttano gas velenosi nell’atmosfera. Sono robot molto sofisticati prodotti nei primi anni del XXI secolo dalla Tyrell Corporation, un’azienda che ha perfezionato l’evoluzione robotica, dando vita ad esseri virtualmente identici agli umani, i “Nexus-6”. Questi androidi non sono imitazioni ma riproduzioni “autentiche”, letteralmente indistinguibili dagli esseri umani. Essi, di molto superiori in forza e agilità agli uomini, ma uguali in intelligenza agli ingegneri che li hanno creati, vengono usati nelle colonie Extra-Mondo nella pericolosa esplorazione e colonizzazione degli altri pianeti. Sono anche dotati di quei sentimenti che si riteneva fossero necessari per i loro compiti, ma chi li ha creati, temendo da parte loro una minaccia all’ordine costituito, ha inserito nei loro meccanismi una specie di valvola di sicurezza che li avrebbe “terminati” in un breve lasso di tempo: quattro anni. Il tempo massimo di durata della loro esistenza. Dopo un sanguinoso ammutinamento da parte di un commando Nexus-6 (i più recenti e i più perfezionati) in una colonia Extra-Mondo, i replicanti erano stati dichiarati illegali e banditi dalla Terra, sotto pena di morte. Una speciale squadra di polizia, l’unità Blade Runner, (da cui il titolo del film girato da Ridley Scott nel 1982) ha l’ordine di uccidere ogni replicante che tenti di violare lo spazio proibito. Questa operazione però non è chiamata esecuzione. È chiamata “Ritiro”.

Blade Runner o la minaccia all’Ordine
Il film è la storia di un gruppo di replicanti in cerca del loro creatore sulla Terra, e di un cacciatore di androidi, Rick Deckard (nel film un attonito Harrison Ford). Nel romanzo (Dick, Roma, 2000), che ispira il film Philip K. Dick si pone il difficile compito di individuare quella sottile zona di separazione che dovrebbe dividere l’essere umano dalla macchina. In ogni caso le differenze principali tra l’uomo e i replicanti sono, secondo l’autore, sostanzialmente due: l’incapacità che hanno questi ultimi di provare empatia. Questo spiegherebbe la loro indifferenza al dolore altrui e forse, anche – almeno lo pensa Dick – la loro ferocia; la mancanza di una infanzia, cioè di una socializzazione primaria e di conseguenza di un passato personale, essendo stati costruiti già “adulti”, pronti per eseguire i loro difficili compiti, E poiché lo slogan della Tyrell era “Più umano dell’umano”, per renderli il più umani possibile, gli ingegneri avevano dotato questi perfezionatissimi androidi di un supporto mnemonico, un insieme di ricordi che però non gli appartenevano ma erano stati vissuti da altri, per dar loro l’impressione di avere un passato personale come tutti gli uomini. Per combattere il pericolo ch’essi costituivano, era stato appositamente costruito un test psico-emotivo, il cosiddetto Voigt-Kampff, studiato per individuarli.
L’incapacità empatica, la fragilità identitaria e il difficile controllo delle loro pulsioni, avrebbero dovuto essere il loro marchio ed anche la loro condanna a morte. Ma questo test può non bastare per i replicanti “Nexus-6”. È per questo che le autorità hanno richiamato in servizio Rick Deckard il cui compito è d’individuare questi replicanti e di “ritirarli”. Rick ci appare come il tipico personaggio della letteratura noir americana: snervato, psicologicamente stanco, nauseato della sua vita da killer, cinico e individualista. Chiamato dalla polizia, egli intuisce subito, come noi insieme a lui, che quanto detto su questi esseri non corrisponde appieno alla verità. Anzi, tra lui e loro s’instaurerà un qualche profondo e drammatico legame: un legame inizialmente tra cacciatore e prede, che poi s’invertirà. Nel corso delle vicende successive, infatti, due volte uno di essi gli salverà la vita e, a sua volta egli salverà la vita ad un androide (Rachael) di cui s’innamorerà. È, forse, per cercare di capire quanto, al momento, egli semplicemente intuisce, che si recherà a trovare il progettista capo Tyrell, un geniale bioingegnere che è al vertice dell’enorme e fantascientifica struttura industriale che porta anche il suo nome. 
Questi lo accoglie – in un palazzo che sembra un microchip ingigantito – manifestamente fiero e orgoglioso delle sue straordinarie creature, e gli presenta Rachael, un androide d’ultimissima generazione che però ha – unica tra i Nexus-6 – la particolarità d’ignorare di esserlo. Una donna bellissima, apparentemente del tutto umana, ma che Deckard intuisce – senza bisogno di alcun  test - non esserlo affatto. Tyrell, a mo’ di sfida, chiede a Deckard di provare il test Voigt-Kampff sulla stessa Rachael, poiché è curioso di scoprire se il suo ultimo e sofisticatissimo modello possa superare indenne la prova. Stranamente è Rachael stessa che domanda a Deckard di sottoporsi al test. D’altronde il carattere di Rick, che non manifesta emozioni, ed il suo comportamento ripetitivo, quasi meccanico, fanno sorgere i primi sospetti che anche lui sia un androide. Dei sospetti che lo stesso regista sparge qui e lì facendolo intuire. Deckard fa ritorno a casa, e trova proprio Rachael ad aspettarlo; lei è desiderosa solo di spiegargli, gli mostra le preziose foto del suo passato, che quindi dimostrano la sua “umanità”, la sua “identità di essere umano”. Le fotografie sono le prove di una “storia”, ma ai replicanti è stata sì data una storia, ma non l’esperienza diretta di quella storia. Ed è proprio questa mancata esperienza che rende la loro storia priva di certezze. Rick la fa accomodare e la precede, disincantato, nel racconto della sua stessa infanzia, anticipando fatti che solo lei poteva conoscere. “Innesti!” spiega lui: potevano essere ricordi di chiunque, reminiscenze che erano state inserite nella sua mente poiché lei, un androide, non poteva avere un passato da ricordare. 
Rick resta però sorpreso che, dopo la sua rivelazione, le cose non vadano poi come avrebbero dovuto: Rachael piange e scappa via, mostrando un comportamento che non è tipico di un androide, e che lo sconcerta. Egli si rende conto che lei prova dolore! Nel frattempo, il Blade Runner e gli altri androidi procedono quasi parallelamente. I primi, alla ricerca del loro creatore per cercare di ottenere un’eventuale moratoria, l’altro, alla loro caccia, per accelerare invece la loro morte. Il primo incontro avviene con Zhora. Deckard l’uccide dopo un drammatico inseguimento che mostra la violenta ferocia con cui il cacciatore uccide la sua preda. 
Deckard sembra però avvertire i primi sensi di colpa. Ma non sempre le cose sono così facili. Leon, il replicante che aveva già ucciso il funzionario di polizia, lo aggredisce e avrebbe la meglio se non fosse ucciso da Rachael. Intanto i due replicanti superstiti, Roy e Pris, arrivano a Tyrell, il padre-artefice, il demiurgo, in un disperato e fallimentare tentativo di cambiare la propria sorte. 
Il confronto tra i due è drammatico e rappresenta l’essenza del lavoro di Ridley Scott: il tema è quello della brevità dell’esistenza e dell’assurdità della morte. La domanda che Roy rivolge al suo creatore è semplice e diretta: “Può l’artefice tornare su ciò che ha fatto?”, cui segue l’imperiosa richiesta: 
“Io- voglio- più- vita - padre!”.

Ma Tyrell non può soddisfare la sua richiesta: la morte è iscritta nel codice genetico, e come una bomba ad orologeria inesorabilmente scoppierà. Poi il colloquio tra i due acquista modi inattesi. Per la prima volta Roy che appare sempre così sicuro di sé fino a sfiorare la iattanza, appare come intimidito dalla presenza del “padre”. Le loro teste si sfiorano. Ne viene fuori una sorta di singolare e inaspettata confessione tra Tyrell, che si sente e si comporta come un padre, e Roy che, almeno in questo momento, si sente e si comporta come un figlio, pervaso da un subitaneo e sincero – ma apparentemente incomprensibile, data la sua natura – senso di colpa. Il replicante, il freddo androide senza emozioni e senza sentimenti, si pente e si giustifica! Poi, Roy bacia il suo creatore, e lo uccide. Gli avvenimenti incalzano: Deckard raggiunge Pris: lei lo aggredisce e lui le spara uccidendola. 
Anche Roy fa ritorno da Pris, e la trova morta, riversa sul pavimento. Commosso, si china su di lei e la bacia come per prenderne commiato. Soffre, piange, così come soffre e piange un qualsiasi uomo di fronte ad una grave perdita. Poi si accorge della presenza di Deckard e, da lontano, inizia a provocarlo e a minacciarlo di morte. Oramai è solo; le sue membra ed i suoi muscoli avvertono l’epilogo. La vita sta lentamente abbandonandolo: sente avvicinarsi la fine. Ma ha ancora il tempo e le energie per una tremenda lezione. Bracca il suo cacciatore fin sull’esterno del palazzo, dove una pioggia incessante sottolinea drammatizzandola la caccia mortale. Oramai esausto, ferito, pronto ad arrendersi alla forza e alla furia dell’androide, Rick, nel tentativo di saltare da un balcone all’altro, scivola e resta appeso a una piccola trave sospesa nel vuoto. Roy sembra calmo. Ha una colomba in mano, e si avvicina alla sua vittima, guardandola dall’alto in basso: “Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere uno schiavo!”. Deckard, sfinito, lascia andare la presa, e Roy, con un gesto apparentemente inspiegabile, lo salva in extremis: lo solleva e lo adagia vicino a sé. Sorride.  Egli ha forse bisogno di un testimone per poter trasmettere quello che sa essere il suo testamento:

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi.
“Navi da combattimento in fiamme a largo dei bastioni di Orione…
“E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser…
“E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo… come lacrime nella pioggia…
“È tempo di morire…”.

Ebbene, in quel momento, egli sa che questi ricordi non sono posticci, non sono innestati da qualcheduno, ma rappresentano il suo autentico passato: egli dimostra nell’oggettivarli di avere una memoria – e ne è orgoglioso. Deckard è il suo testimone ed erede. Egli, salvandolo, lo ha scelto, conta su di lui. La colomba vola via e con essa la vita: il messaggio è partito. Roy Batty muore.
In una delle scene più belle della cinematografia moderna, il replicante Roy si fa emblema delle angosce del genere umano.
Rick resta attonito sotto la pioggia. Va alla ricerca di una spiegazione:

“Io non so perché mi salvò la vita…
“La mia vita....
“Tutto ciò che volevano - sembra constatare con meraviglia, - erano le stesse risposte che noi tutti vogliamo: da dove vengo, dove vado, quanto mi resta ancora…
Non ho potuto far altro che restar lì e guardarlo morire.”

Polisemia
Di questo splendido film ciò che intriga di più, come scrive giustamente Roy Menarini, è “questo infinito possibile rilancio, questa inesauribile scorta di percorsi interpretativi che sembrano esprimersi coerentemente tutti dall’inizio alla fine della pellicola” (Menarini, Torino, 2007). Le suggestioni religiose o semplicemente mitiche, ad esempio, abbondano. David Desser in un saggio molto citato (Desser, Usa, 1984), si concentra soprattutto sulla figura di Roy Batty visto come una straordinaria creatura di Dio (Tyrell) da lui destinata a vivere nel suo Eden che è poi l’Extra-Mondo. Ma di questa esistenza ai margini egli non si accontenta e vuole qualcosa di più, soprattutto vuole delle risposte adeguate ai suoi problemi esistenziali. L’arrivo su questa terra è paragonabile all’atto di cibarsi della conoscenza del bene e del male. Come punizione, egli è precipitato dall’Eden nella “città degli Angeli”, una città ormai maledetta che vive sotto un perenne diluvio universale con delle vere e proprie fiamme infernali che solcano il suo cielo plumbeo: il più bello e potente degli angeli che precipita dal paradiso dell’extra mondo all’inferno di questo mondo. In questa maniera nel film si sarebbero fusi due motivi che sono tipicamente biblici: la creazione dell’uomo e la rivolta degli angeli dannati. Roy Batty come un angelo ribelle uccide il padre, e lo uccide dove egli vive, in un ambiente che è una specie di ampia e solenne chiesa stracolma di candele, muore con una mano trafitta da un chiodo, pronuncia parole che sono ispirate ad un altro mondo che lui solo conosce, libera una colomba che ricorda lo spirito santo. Egli stesso sembra annunciarsi come un messia venuto per trasmettere un messaggio, ma un messia particolare che ha rinnegato il creatore, che annuncia una sorta di Vangelo Ateo e che in buona sostanza si propone come un’immagine rovesciata di Cristo. Su questa stessa falsariga Eric G. Wilson nel suo recente e articolato lavoro sul cinema gnostico interpreta Blade Runner come un tipico esempio di questo filone. (Wilson, Usa/Uk, 2006). Anche lui fa di Roy Batty il protagonista. Egli è l’eroe gnostico la cui superiorità rispetto a tutti gli altri (androidi e umani) è indiscussa. Secondo Wilson egli possiede un’identità ben costruita e la ferma consapevolezza di avere una conoscenza (visione) dei mondi che nessuno ha. Due volte nel film (di fronte a un cinese che costruisce occhi per i replicanti e a Deckard prima di morire) si vanta infatti di aver visto con quegli occhi cose che nessuno era stato mai in grado di vedere. Inoltre, parafrasando il Paradiso Perduto di John Milton, si autodefinisce come un angelo caduto. Intraprende una battaglia contro la prigione materiale che lo condanna ad una morte prematura, uccide il Demiurgo o mago cabalistico (Tyrell) che lo ha imprigionato in questo corpo mortale e come il Cristo crocifisso, l’anthropos caduto, annuncia la gnosi o le nuove e salvifiche conoscenze. Forse però, il richiamo al mito del Golem, (Mathière, Francia, 1988), mito che ha attraversato tutta l’evoluzione del mondo occidentale, è più euristicamente fruttifero. Il Golem è un essere artificiale che può essere creato con particolari accorgimenti da uomini dotati di particolari poteri. La versione più popolare di questo mito si riferisce però ad un celebre cabalista del ghetto di Praga: il Rabbino Loew, che secondo la leggenda diede vita ad una creatura – appunto il Golem – inserendogli nella testa una pergamena dopo avergli praticato un’incisione alla base del cranio. Ogni venerdì sera il Rabbino Loew toglieva la pergamena riducendo così il Golem a inerte argilla. Nelle versioni originali è estremamente presente la paura dell’usurpazione fatta dai cabbalisti del potere della creazione che è evidentemente riservato solamente a Dio. Attorno al Golem e alle sue varie versioni si coagularono nei secoli l’orgoglio dell’uomo creatore e la paura delle conseguenze della creazione. Il Golem sfuggiva sovente al controllo del suo creatore e diventava pericoloso. In una versione più tarda – descritta anche nei libri di Martin Buber – il ruolo del Golem veniva però invertito. Durante l’epoca dei pogrom contro gli ebrei il Mah’aral aveva creato un Golem per difendere gli ebrei contro le accuse rivolte loro. Con il passare del tempo, il mito acquistò caratteri con tonalità parzialmente diverse, meno connotate religiosamente o almeno magicamente e più adatte ai tempi. “Il Rabbino Loew divenne in alcune opere uno scienziato, un fisico, un chimico, un medico, un ingegnere o un orologiaio. Avendo rifiutato la trascendenza, egli si contentava di leggere nel libro della natura. Il Golem era il frutto della confidenza nel progresso e s’inseriva, per la verità, nella critica della civilizzazione tecnologica” (Mathière, ibidem). Poi, pur mantenendo le sue caratteristiche iniziali (un misto di paura e di orgoglio), il Golem ha acquisito quei caratteri che lo hanno reso l’antesignano degli androidi di cui stiamo trattando. Ci sono alcune opere dei primi anni del secolo scorso, che Catherine Mathière cita, in cui il Golem possiede una coscienza anche se ancora incompleta. Soprattutto in un film degli anni venti del regista Paul Wegener, in cui il Golem viene rappresentato, dice lo stesso regista, come: “un essere incompleto che lotta per accedere al mondo dei sentimenti e divenire un essere umano”(Wegener, Germania, 1920). Ambedue le interpretazioni accompagnate dall’evoluzione della figura del Golem, correggono quando non rovesciano il punto di vista che vede gli androidi come semplici macchine prive di empatia e senza un benché minima identità strutturata. Anzi, nelle interpretazioni diciamo “religiose” la figura del replicante (nel caso quella di Roy Batty) ha una statura di molto superiore a quella degli uomini in genere, mentre nel caso del Golem vi è una crescente evoluzione dell’androide verso una sensibilità sempre più umana. D’altronde se andiamo ad esaminare l’alternativa alle macchine, agli androidi, i cosiddetti “umani” quelli che – secondo i canoni – dovrebbero essere dotati d’empatia, sensibilità, identità certe, nel lavoro di Ridley Scott sono – a parte una folla indistinta che fa da sfondo ai protagonisti – tre: i due poliziotti e Tyrell l’artefice, il demiurgo. I due poliziotti sono personaggi un po’ squallidi, laidi, moralmente discutibili, chiaramente mossi da interessi poco chiari, se non poco puliti. Non è un caso che essi sono gli unici che non provano nessuna pietà per gli androidi. E l’impressione che suscitano è che essi non provano nessuna pietà per nessuno. Per quanto riguarda Eldon Tyrell, egli sembra laido e brutto come i suoi due scherani, una figura a metà strada tra il Rabbino Loew e lo scienziato moderno. Tra il mago, il cabbalista che gioca a rubare, colpevolizzandosi, l’onnipotenza divina, e lo scienziato moderno che, dietro l’apparente neutralità della sua scienza, finisce, con la sua razionalità fredda e strumentale, per sconvolgere il mondo. Insomma, sembra che anche gli umani abbiano gli stessi difetti che imputano agli androidi. Anche l’uomo, e questa è la paura che il film rappresenta, a dispetto della sua millenaria essenza, stava per confondersi con la macchina, nel senso che stava per disumanizzarsi, diventare cioè insensibile, incapace d’empatia, impossibilitato a condividere il dolore altrui, ed in procinto di perdere le sue più recenti conquiste, quelle su cui ha costruito la sua sensibilità e la sua identità moderna. E l’umanità tutta – in questa chiave interpretativa – non è che una massa in cui crescono e proliferano, come un virus inarrestabile, i replicanti, un insieme cioè in cui gli uomini autentici stanno scomparendo per essere sostituiti da semplici riproduzioni meccaniche. La trasformazione allora non è fisica, almeno non solo fisica, ma essenzialmente spirituale. Ma questa è solo una parte del film. E forse anche la più superficiale. Il discorso potrebbe anche essere, in un certo senso, rovesciato. Va detto infatti, che in questa proiezione collettiva vi è anche – e in modo evidente – un aspetto positivo e per di più venato dalla speranza. Sul replicante vengono proiettate non solo le nostre paure ed angosce di disumanizzazione (che ne richiedono e ne giustificano l’eliminazione), ma anche aspetti completamente opposti, fecondi, che, in qualche modo, ipotizzano un futuro (un nostro futuro di uomini) diverso e migliore. Nei loro confronti vi è un’ambiguità che è la stessa che nutriamo verso la tecnologia in particolare e verso il mondo moderno in generale. In poche parole, vi è tutta una parte del film che ci fa capire che gli uomini – nel senso pieno del termine, cioè gli “autenticamente umani” – non sono quelli che passano per tali, ma i replicanti stessi. D’altronde quali sono le loro caratteristiche e di che soffrono costoro? La loro esistenza è immersa in un vortice temporale spaventosamente accelerato. Non hanno una storia alle spalle e quindi non posseggono una vera e propria memoria. Per questo ne sono assolutamente ossessionati, ma non avendo criteri sufficienti per ricostruirla assorbono quella altrui. La loro visione temporale non possiede alcuna prospettiva: non solo gli manca il passato ma non riescono ad intravedere alcun futuro. Sanno che la morte è inevitabile perché inscritta nel codice genetico. Essi vivono in un mondo che ha oramai perso da tempo l’orientamento alla trascendenza, e che stenta ad adattarsi a questo destino mortale, e per questo vive letteralmente terrorizzato dalla morte; ciò li porta a chiedere disperatamente non un’altra vita, a cui non credono più, ma di allungare il più possibile la loro vita. Non posseggono una identità ben precisa e stabile nel tempo sia per la mancanza della memoria, sia per l’incapacità di fare ed assorbire l’esperienza che – come abbiamo visto altrove – gli sfugge da tutte le parti (Cavicchia Scalamonti, S.M. Capua Vetere, 1997). Sono privi di un Universo simbolico che, nell’integrare i loro valori e le loro conoscenze, dia un “senso” completo, alla loro esistenza. Ebbene, tutte queste caratteristiche che affliggono gli androidi sono quelle che affliggono l’uomo moderno o contemporaneo. Questi, oramai orfano di un insieme di perdute evidenze che non riescono a coinvolgerlo più, da tempo tenta di riorientare i suoi paradigmi conoscitivi e affettivi per ristabilire o riparare un ordine sociale che possa poi riflettersi su quello psicologico. 

L’Edipo e la nascita della coscienza morale
Vi è un episodio del lavoro di Ridley Scott, però, che permette di elaborare una particolare interpretazione. Andiamo a riconsiderare il tragico incontro tra Roy Batty e il suo artefice Tyrell. Quello che si è svolto è stato la messa in atto di un dramma edipico. Si può ipotizzare che proprio questo scontro padre-figlio, con il conseguente ed inevitabile assassinio, abbia paradossalmente reso il replicante finalmente umano. Che sia una scena edipica mi sembra evidente: Roy esplicitamente chiama Tyrell “Padre” e Tyrell lo definisce non solo figlio ma addirittura figliol prodigo. Roy ha una singolare soggezione di fronte al suo creatore, come si conviene a un figlio qualsiasi verso un padre amato e temuto. 
Questa soggezione, che è ancora più singolare per un essere che finora ha dimostrato solo la gelida potenza di una macchina formidabile, si traduce in una sincera e contrita confessione dei peccati che egli ha commesso... Peccati che il Padre si affretta ad assolvere, in nome delle straordinarie imprese che questo suo meraviglioso figlio ha compiuto. Inoltre, tutto questo breve ma significativo dialogo viene fatto a voce piana e con le teste che si sfiorano come avviene solitamente nell’interazione tra un padre confessore e il suo confessando. In poche parole, Roy Batty, mostra, in quel momento, degli espliciti sensi di colpa. Poi il dramma: un bacio e la violenza mortale: l’ambivalenza è al culmine ed è assolutamente evidente. Il dramma edipico viene, improvvisamente, inaspettatamente, e soprattutto concretamente consumato, agito. Roy ama e nello stesso tempo odia il padre e mette in pratica quella che, probabilmente, era l’intenzione originaria sua e dei suoi fratelli quando scesero sulla terra provenienti dalle colonie dell’Extra-Mondo. Sigmund Freud ipotizzava che il complesso d’Edipo fosse universale e riteneva che il suo superamento (attraverso una sorta di necessario assassinio simbolico) fosse la strada per una vita normale, ma riteneva anche che attraverso l’Edipo l’individuo interiorizzasse anche quell’istanza fondamentale che egli chiamava Super-io e che rappresenta la coscienza morale di ogni individuo. In seguito, in un suo saggio molto controverso, anche se molto affascinante – Totem e Tabù (Freud, Torino, 1976) – ritenne (con un geniale coraggio) che il complesso d’Edipo fosse il lascito, l’eredità di un avvenimento verificatosi nella lontana preistoria. Lì, in una specie di tempo originario – secondo un ipotesi fatta dallo stesso Charles Darwin e ripresa da altri antropologi – l’uomo o il proto-uomo avrebbe vissuto in piccole orde dominate da un maschio geloso che, sottomettendo e cacciando i giovani maschi, riservava tutte le femmine per sé. Un giorno, stanchi di questi soprusi, i fratelli uniti si ribellarono a questa situazione e uccisero e mangiarono il padre. Ma a causa dell’ambivalenza dei sentimenti che nutrivano verso di lui, essi si sentirono, forse per la prima volta, tremendamente colpevoli. Infatti, “Essi odiavano il padre, possente ostacolo al loro bisogno di potenza e alle loro pretese sessuali, ma lo amavano e lo ammiravano anche. Dopo averlo soppresso – così scrive Sigmund Freud – aver soddisfatto il loro odio e aver imposto il loro desiderio d’identificazione con lui, dovettero farsi sentire i moti di affetto nei suoi confronti fino a quel momento rimasti sopraffatti. Ciò accadde nella forma del rimorso, sorse un senso di colpa che coincide in questo esempio con il rimorso collettivo. Morto, il padre divenne più forte di quanto fosse stato da vivo, secondo un succedersi di eventi che ravvisiamo ancor oggi nel destino degli uomini. Ciò che prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora spontaneamente nella situazione psichica dell’<<obbedienza posteriore>>” (Freud, ibidem). Come conseguenza di ciò, essi decisero da una parte di rinunciare alle femmine e dall’altra d’idealizzare il padre morto. Di lì, i due divieti fondamentali per ogni raggruppamento umano: l’incesto e il parricidio. In un certo senso nasce la civiltà e nasce istituendo la prima grande separazione tra l’uomo e gli animali.
Nasce però con un ironico paradosso. In effetti, il Padre vince completamente e in profondità, solo dopo essere stato assassinato, perché la sua morte trasforma una minaccia esterna, fondata solo sulla forza e sulla prevaricazione, in un comandamento interno, fondato sul senso di colpa. Ancor più paradossalmente egli diventa il Padre (e quindi la Legge) solo nel momento in cui viene, dopo la sua morte, interiorizzato e riconosciuto come tale. Ma questa è esattamente la caratteristica dell’uomo che lo distingue dagli altri esseri: una coscienza morale che lo guida dall’interno. Ed è ciò che il replicante acquisisce per la prima volta, egli non è più l’androide manipolato ed eterodiretto da un potere esterno a lui, ma un uomo che si autodetermina. In poche parole, con il sacrificio del padre s’installa nel replicante la colpa e con essa la coscienza morale. Ed è solo a causa di questa coscienza che egli può diventare completamente uomo. In effetti, proprio da quel momento, il Golem, la macchina perfetta, il Nexus-6, si trasforma lentamente ma completamente. Con la morte del padre egli compie un passo importante, un passo che gli è necessario per diventare quanto nella sua breve vita ha sempre desiderato: uomo.
I cambiamenti sono immediati ed evidenti: prova cordoglio per la morte di quella che è, a tutti gli effetti, una sorella. Poi salva una vita. La macchina ha sviluppato un Super-io, una vera e propria coscienza morale. L’empatia con il suo corollario, la pietà per l’altro, sembrano in lui non installati da nessuno ma finalmente propri, perché creati ex novo a seguito delle circostanze e dalla sua storia personale, cioè dalle azioni compiute nella sua, sia pur breve, vita. Un fatto è certo: così come è successo milioni di volte nella nostra civiltà, un nuovo difensore dell’ordine, rappresentato da questi homines novi, ai confini del nostro Universo traccerà i nuovi limiti, le nuove frontiere, e si preoccuperà di difenderli. 
E anche in questa progressiva trasformazione i valori umani sembrano prevalere. Pur vittime di un mostro che abbiamo creato (l’esasperazione tecnologica) riusciamo a salvaguardare quanto di autenticamente umano l’uomo continua, nonostante tutto, a possedere. L’androide, in questa chiave, è l’uomo nuovo, colui che ricreerà un ordine abbondantemente in crisi, e lo farà fondandosi sui nuovi valori e sulla sua straordinaria potenza. Da questo punto di vista su di esso vengono proiettate quelle parti di noi – ora in crisi – che riteniamo essenziale salvaguardare e proteggere. Questa è la morale che questo film, al di là delle manifeste intenzioni degli autori, in qualche modo ci trasmette.

* Questo testo è una rielaborazione di “Blade Runner ovvero Gli incubi della tecnocrazia”,
in A. Cavicchia Scalamonti,
Le proiezioni della memoria, Ipermedium, S. M. Capua Vetere, 2008.

 



:: letture ::

Cavicchia Scalamonti, A., (a cura di), La lotofagia, Ipermedium, S. M. Capua Vetere, 1997.

Desser, D., “Blade Runner” – A Diagnostic Critique, Jump Cut, N° 29, Usa, 1984.

Dick, P. K., Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2000. 

Freud, S., Totem e Tabù, in Id., Opere complete, vol. 7. Boringhieri, Torino, 1976.

Mathière, C., voce «Golem» in Dictionnaire des Mythes Litteraires, Ed. du Rocher, Francia,1988.

Menarini, R., Ridley Scott, Blade Runner, Lindau, Torino, 2007. 

Wegener, P., Der Golem, wie er in die Welt kam, Germania, 1920.

Wilson, E. G., Secret cinema. Gnostic Vision in Film, Continuum International Publishing Group, New York/London, Usa/Uk, 2006.