L’anno
è il 2019, in una Los Angeles cupa, angosciosa, spazzata da
una pioggia incessante, spaventosamente inquinata da piogge acide, in
un’atmosfera di decadenza industriale, sovraffollata da una
popolazione
variegata che parla lingue diverse e mangia cibi eterogenei. Un insieme
di etnie senza niente in comune che vivono gomito a gomito in una
città
senza alcuna traccia di verde e con un’architettura bastarda
in cui
costruzioni avveniristiche si mischiano a fatiscenti baracche in una
confusione il cui modello urbanistico è forse Hong Kong. Una
megalopoli
o una Babilonia… Alcuni
“replicanti” guardano con occhio non umano
l’infernale panorama caratterizzato da gigantesche ciminiere
che
eruttano gas velenosi nell’atmosfera. Sono robot molto
sofisticati
prodotti nei primi anni del XXI secolo dalla Tyrell Corporation,
un’azienda che ha perfezionato l’evoluzione
robotica, dando vita ad
esseri virtualmente identici agli umani, i
“Nexus-6”. Questi androidi
non sono imitazioni ma riproduzioni “autentiche”,
letteralmente
indistinguibili dagli esseri umani. Essi, di molto superiori in forza e
agilità agli uomini, ma uguali in intelligenza agli
ingegneri che li
hanno creati, vengono usati nelle colonie Extra-Mondo nella pericolosa
esplorazione e colonizzazione degli altri pianeti. Sono anche dotati di
quei sentimenti che si riteneva fossero necessari per i loro compiti,
ma chi li ha creati, temendo da parte loro una minaccia
all’ordine
costituito, ha inserito nei loro meccanismi una specie di valvola di
sicurezza che li avrebbe “terminati” in un breve
lasso di tempo:
quattro anni. Il tempo massimo di durata della loro esistenza. Dopo un
sanguinoso ammutinamento da parte di un commando Nexus-6 (i
più recenti
e i più perfezionati) in una colonia Extra-Mondo, i
replicanti erano
stati dichiarati illegali e banditi dalla Terra, sotto pena di morte.
Una speciale squadra di polizia, l’unità Blade
Runner, (da cui
il titolo del film girato da Ridley Scott nel 1982) ha
l’ordine di
uccidere ogni replicante che tenti di violare lo spazio proibito.
Questa operazione però non è chiamata esecuzione.
È chiamata “Ritiro”.
Blade Runner o la minaccia
all’Ordine Il film è la
storia di un gruppo di replicanti in cerca del loro creatore sulla
Terra, e di un cacciatore di androidi, Rick Deckard (nel film un
attonito Harrison Ford). Nel romanzo (Dick, Roma, 2000), che ispira il
film Philip K. Dick si pone il difficile compito di individuare quella
sottile zona di separazione che dovrebbe dividere l’essere
umano dalla
macchina. In ogni caso le differenze principali tra l’uomo e
i
replicanti sono, secondo l’autore, sostanzialmente due:
l’incapacità
che hanno questi ultimi di provare empatia. Questo spiegherebbe la loro
indifferenza al dolore altrui e forse, anche – almeno lo
pensa Dick –
la loro ferocia; la mancanza di una infanzia, cioè di una
socializzazione primaria e di conseguenza di un passato personale,
essendo stati costruiti già “adulti”,
pronti per eseguire i loro
difficili compiti, E poiché lo slogan della Tyrell era
“Più umano
dell’umano”, per renderli il più umani
possibile, gli ingegneri avevano
dotato questi perfezionatissimi androidi di un supporto mnemonico, un
insieme di ricordi che però non gli appartenevano ma erano
stati
vissuti da altri, per dar loro l’impressione di avere un
passato
personale come tutti gli uomini. Per combattere il pericolo
ch’essi
costituivano, era stato appositamente costruito un test
psico-emotivo, il cosiddetto Voigt-Kampff, studiato per
individuarli. L’incapacità
empatica, la fragilità identitaria e il difficile controllo
delle loro
pulsioni, avrebbero dovuto essere il loro marchio ed anche la loro
condanna a morte. Ma questo test può non bastare per i
replicanti
“Nexus-6”. È per questo che le
autorità hanno richiamato in servizio
Rick Deckard il cui compito è d’individuare questi
replicanti e di
“ritirarli”. Rick ci appare come il tipico
personaggio della
letteratura noir americana: snervato,
psicologicamente stanco,
nauseato della sua vita da killer, cinico e individualista. Chiamato
dalla polizia, egli intuisce subito, come noi insieme a lui, che quanto
detto su questi esseri non corrisponde appieno alla verità.
Anzi, tra
lui e loro s’instaurerà un qualche profondo e
drammatico legame: un
legame inizialmente tra cacciatore e prede, che poi
s’invertirà. Nel
corso delle vicende successive, infatti, due volte uno di essi gli
salverà la vita e, a sua volta egli salverà la
vita ad un androide
(Rachael) di cui s’innamorerà. È,
forse, per cercare di capire quanto,
al momento, egli semplicemente intuisce, che si recherà a
trovare il
progettista capo Tyrell, un geniale bioingegnere che è al
vertice
dell’enorme e fantascientifica struttura industriale che
porta anche il
suo nome. Questi lo accoglie – in un
palazzo che sembra un
microchip ingigantito – manifestamente fiero e orgoglioso
delle sue
straordinarie creature, e gli presenta Rachael, un androide
d’ultimissima generazione che però ha –
unica tra i Nexus-6 – la
particolarità d’ignorare di esserlo. Una donna
bellissima,
apparentemente del tutto umana, ma che Deckard intuisce –
senza bisogno
di alcun test - non esserlo affatto.
Tyrell, a mo’ di sfida,
chiede a Deckard di provare il test Voigt-Kampff sulla stessa Rachael,
poiché è curioso di scoprire se il suo ultimo e
sofisticatissimo
modello possa superare indenne la prova. Stranamente è
Rachael stessa
che domanda a Deckard di sottoporsi al test. D’altronde il
carattere di
Rick, che non manifesta emozioni, ed il suo comportamento ripetitivo,
quasi meccanico, fanno sorgere i primi sospetti che anche lui sia un
androide. Dei sospetti che lo stesso regista sparge qui e lì
facendolo
intuire. Deckard fa ritorno a casa, e trova proprio Rachael ad
aspettarlo; lei è desiderosa solo di spiegargli, gli mostra
le preziose
foto del suo passato, che quindi dimostrano la sua
“umanità”, la sua
“identità di essere umano”. Le
fotografie sono le prove di una
“storia”, ma ai replicanti è stata
sì data una storia, ma non
l’esperienza diretta di quella storia. Ed è
proprio questa mancata
esperienza che rende la loro storia priva di certezze. Rick la fa
accomodare e la precede, disincantato, nel racconto della sua stessa
infanzia, anticipando fatti che solo lei poteva conoscere.
“Innesti!”
spiega lui: potevano essere ricordi di chiunque, reminiscenze che erano
state inserite nella sua mente poiché lei, un androide, non
poteva
avere un passato da ricordare. Rick resta
però sorpreso che, dopo
la sua rivelazione, le cose non vadano poi come avrebbero dovuto:
Rachael piange e scappa via, mostrando un comportamento che non
è
tipico di un androide, e che lo sconcerta. Egli si rende conto che lei
prova dolore! Nel frattempo, il Blade Runner e gli altri androidi
procedono quasi parallelamente. I primi, alla ricerca del loro creatore
per cercare di ottenere un’eventuale moratoria,
l’altro, alla loro
caccia, per accelerare invece la loro morte. Il primo incontro avviene
con Zhora. Deckard l’uccide dopo un drammatico inseguimento
che mostra
la violenta ferocia con cui il cacciatore uccide la sua preda. Deckard
sembra però avvertire i primi sensi di colpa. Ma non sempre
le cose
sono così facili. Leon, il replicante che aveva
già ucciso il
funzionario di polizia, lo aggredisce e avrebbe la meglio se non fosse
ucciso da Rachael. Intanto i due replicanti superstiti, Roy e Pris,
arrivano a Tyrell, il padre-artefice, il demiurgo, in un disperato e
fallimentare tentativo di cambiare la propria sorte. Il
confronto
tra i due è drammatico e rappresenta l’essenza del
lavoro di Ridley
Scott: il tema è quello della brevità
dell’esistenza e dell’assurdità
della morte. La domanda che Roy rivolge al suo creatore è
semplice e
diretta: “Può l’artefice tornare su
ciò che ha fatto?”, cui segue
l’imperiosa richiesta: “Io-
voglio- più- vita - padre!”.
Ma Tyrell non può soddisfare la sua richiesta: la
morte è iscritta
nel codice genetico, e come una bomba ad orologeria inesorabilmente
scoppierà. Poi il colloquio tra i due acquista modi
inattesi. Per la
prima volta Roy che appare sempre così sicuro di
sé fino a sfiorare la
iattanza, appare come intimidito dalla presenza del
“padre”. Le loro
teste si sfiorano. Ne viene fuori una sorta di singolare e inaspettata
confessione tra Tyrell, che si sente e si comporta come un padre, e Roy
che, almeno in questo momento, si sente e si comporta come un figlio,
pervaso da un subitaneo e sincero – ma apparentemente
incomprensibile,
data la sua natura – senso di colpa. Il replicante, il freddo
androide
senza emozioni e senza sentimenti, si pente e si giustifica! Poi, Roy
bacia il suo creatore, e lo uccide. Gli avvenimenti incalzano: Deckard
raggiunge Pris: lei lo aggredisce e lui le spara uccidendola. Anche
Roy fa ritorno da Pris, e la trova morta, riversa sul pavimento.
Commosso, si china su di lei e la bacia come per prenderne commiato.
Soffre, piange, così come soffre e piange un qualsiasi uomo
di fronte
ad una grave perdita. Poi si accorge della presenza di Deckard e, da
lontano, inizia a provocarlo e a minacciarlo di morte. Oramai
è solo;
le sue membra ed i suoi muscoli avvertono l’epilogo. La vita
sta
lentamente abbandonandolo: sente avvicinarsi la fine. Ma ha ancora il
tempo e le energie per una tremenda lezione. Bracca il suo cacciatore
fin sull’esterno del palazzo, dove una pioggia incessante
sottolinea
drammatizzandola la caccia mortale. Oramai esausto, ferito, pronto ad
arrendersi alla forza e alla furia dell’androide, Rick, nel
tentativo
di saltare da un balcone all’altro, scivola e resta appeso a
una
piccola trave sospesa nel vuoto. Roy sembra calmo. Ha una colomba in
mano, e si avvicina alla sua vittima, guardandola dall’alto
in basso:
“Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo
consiste essere
uno schiavo!”. Deckard, sfinito, lascia andare la presa, e
Roy, con un
gesto apparentemente inspiegabile, lo salva in extremis:
lo solleva e lo adagia vicino a sé. Sorride. Egli
ha forse bisogno di
un testimone per poter trasmettere quello che sa essere il suo
testamento:
“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste
immaginarvi. “Navi da combattimento in fiamme a
largo dei bastioni di Orione… “E ho visto
i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di
Tannhäuser… “E tutti quei
momenti andranno perduti nel tempo… come lacrime nella
pioggia… “È tempo di
morire…”.
Ebbene, in quel momento, egli sa che questi ricordi non sono
posticci, non sono innestati da qualcheduno, ma rappresentano il suo
autentico passato: egli dimostra nell’oggettivarli di avere
una memoria
– e ne è orgoglioso. Deckard è il suo
testimone ed erede. Egli,
salvandolo, lo ha scelto, conta su di lui. La colomba vola via e con
essa la vita: il messaggio è partito. Roy Batty muore. In
una delle scene più belle della cinematografia moderna, il
replicante Roy si fa emblema delle angosce del genere umano. Rick
resta attonito sotto la pioggia. Va alla ricerca di una spiegazione:
“Io non so perché mi salvò la
vita… “La mia vita.... “Tutto
ciò che volevano - sembra constatare con meraviglia, - erano
le stesse
risposte che noi tutti vogliamo: da dove vengo, dove vado, quanto mi
resta ancora… Non ho potuto far altro che restar
lì e guardarlo morire.”
Polisemia Di questo splendido film
ciò che intriga di più,
come scrive giustamente Roy Menarini, è “questo
infinito possibile
rilancio, questa inesauribile scorta di percorsi interpretativi che
sembrano esprimersi coerentemente tutti dall’inizio alla fine
della
pellicola” (Menarini, Torino, 2007). Le suggestioni religiose
o
semplicemente mitiche, ad esempio, abbondano. David Desser in un saggio
molto citato (Desser, Usa,
1984), si concentra
soprattutto sulla figura di Roy Batty visto come una straordinaria
creatura di Dio (Tyrell) da lui destinata a vivere nel suo Eden che
è
poi l’Extra-Mondo. Ma di questa esistenza ai margini egli non
si
accontenta e vuole qualcosa di più, soprattutto vuole delle
risposte
adeguate ai suoi problemi esistenziali. L’arrivo su questa
terra è
paragonabile all’atto di cibarsi della conoscenza del bene e
del male.
Come punizione, egli è precipitato dall’Eden nella
“città degli
Angeli”, una città ormai maledetta che vive sotto
un perenne diluvio
universale con delle vere e proprie fiamme infernali che solcano il suo
cielo plumbeo: il più bello e potente degli angeli che
precipita dal
paradiso dell’extra mondo all’inferno di questo
mondo. In questa
maniera nel film si sarebbero fusi due motivi che sono tipicamente
biblici: la creazione dell’uomo e la rivolta degli angeli
dannati. Roy
Batty come un angelo ribelle uccide il padre, e lo uccide dove egli
vive, in un ambiente che è una specie di ampia e solenne
chiesa
stracolma di candele, muore con una mano trafitta da un chiodo,
pronuncia parole che sono ispirate ad un altro mondo che lui solo
conosce, libera una colomba che ricorda lo spirito santo. Egli stesso
sembra annunciarsi come un messia venuto per trasmettere un messaggio,
ma un messia particolare che ha rinnegato il creatore, che annuncia una
sorta di Vangelo Ateo e che in buona sostanza si propone come
un’immagine rovesciata di Cristo. Su questa stessa falsariga
Eric G.
Wilson nel suo recente e articolato lavoro sul cinema gnostico
interpreta Blade Runner come un tipico esempio di
questo
filone. (Wilson, Usa/Uk, 2006). Anche lui fa di Roy Batty il
protagonista. Egli è l’eroe gnostico la cui
superiorità rispetto a
tutti gli altri (androidi e umani) è indiscussa. Secondo
Wilson egli
possiede un’identità ben costruita e la ferma
consapevolezza di avere
una conoscenza (visione) dei mondi che nessuno ha. Due volte nel film
(di fronte a un cinese che costruisce occhi per i replicanti e a
Deckard prima di morire) si vanta infatti di aver visto con quegli
occhi cose che nessuno era stato mai in grado di vedere. Inoltre,
parafrasando il Paradiso Perduto di John Milton, si
autodefinisce come un angelo caduto. Intraprende una battaglia contro
la prigione materiale che lo condanna ad una morte prematura, uccide il
Demiurgo o mago cabalistico (Tyrell) che lo ha imprigionato in questo
corpo mortale e come il Cristo crocifisso, l’anthropos
caduto,
annuncia la gnosi o le nuove e salvifiche conoscenze. Forse
però, il
richiamo al mito del Golem, (Mathière, Francia, 1988), mito
che ha
attraversato tutta l’evoluzione del mondo occidentale,
è più
euristicamente fruttifero. Il Golem è un essere artificiale
che può
essere creato con particolari accorgimenti da uomini dotati di
particolari poteri. La versione più popolare di questo mito
si
riferisce però ad un celebre cabalista del ghetto di Praga:
il Rabbino
Loew, che secondo la leggenda diede vita ad una creatura –
appunto il
Golem – inserendogli nella testa una pergamena dopo avergli
praticato
un’incisione alla base del cranio. Ogni venerdì
sera il Rabbino Loew
toglieva la pergamena riducendo così il Golem a inerte
argilla. Nelle
versioni originali è estremamente presente la paura
dell’usurpazione
fatta dai cabbalisti del potere della creazione che è
evidentemente
riservato solamente a Dio. Attorno al Golem e alle sue varie versioni
si coagularono nei secoli l’orgoglio dell’uomo
creatore e la paura
delle conseguenze della creazione. Il Golem sfuggiva sovente al
controllo del suo creatore e diventava pericoloso. In una versione
più
tarda – descritta anche nei libri di Martin Buber –
il ruolo del Golem
veniva però invertito. Durante l’epoca dei pogrom
contro gli ebrei il
Mah’aral aveva creato un Golem per difendere gli ebrei contro
le accuse
rivolte loro. Con il passare del tempo, il mito acquistò
caratteri con
tonalità parzialmente diverse, meno connotate religiosamente
o almeno
magicamente e più adatte ai tempi. “Il Rabbino
Loew divenne in alcune
opere uno scienziato, un fisico, un chimico, un medico, un ingegnere o
un orologiaio. Avendo rifiutato la trascendenza, egli si contentava di
leggere nel libro della natura. Il Golem era il frutto della confidenza
nel progresso e s’inseriva, per la verità, nella
critica della
civilizzazione tecnologica” (Mathière, ibidem).
Poi, pur mantenendo le
sue caratteristiche iniziali (un misto di paura e di orgoglio), il
Golem ha acquisito quei caratteri che lo hanno reso
l’antesignano degli
androidi di cui stiamo trattando. Ci sono alcune opere dei primi anni
del secolo scorso, che Catherine Mathière cita, in cui il
Golem
possiede una coscienza anche se ancora incompleta. Soprattutto in un
film degli anni venti del regista Paul Wegener, in cui il Golem viene
rappresentato, dice lo stesso regista, come: “un essere
incompleto che
lotta per accedere al mondo dei sentimenti e divenire un essere
umano”(Wegener, Germania, 1920). Ambedue le interpretazioni
accompagnate dall’evoluzione della figura del Golem,
correggono quando
non rovesciano il punto di vista che vede gli androidi come semplici
macchine prive di empatia e senza un benché minima
identità
strutturata. Anzi, nelle interpretazioni diciamo
“religiose” la figura
del replicante (nel caso quella di Roy Batty) ha una statura di molto
superiore a quella degli uomini in genere, mentre nel caso del Golem vi
è una crescente evoluzione dell’androide verso una
sensibilità sempre
più umana. D’altronde se andiamo ad esaminare
l’alternativa alle
macchine, agli androidi, i cosiddetti “umani”
quelli che – secondo i
canoni – dovrebbero essere dotati d’empatia,
sensibilità, identità
certe, nel lavoro di Ridley Scott sono – a parte una folla
indistinta
che fa da sfondo ai protagonisti – tre: i due poliziotti e
Tyrell
l’artefice, il demiurgo. I due poliziotti sono personaggi un
po’
squallidi, laidi, moralmente discutibili, chiaramente mossi da
interessi poco chiari, se non poco puliti. Non è un caso che
essi sono
gli unici che non provano nessuna pietà per gli androidi. E
l’impressione che suscitano è che essi non provano
nessuna pietà per
nessuno. Per quanto riguarda Eldon Tyrell, egli sembra laido e brutto
come i suoi due scherani, una figura a metà strada tra il
Rabbino Loew
e lo scienziato moderno. Tra il mago, il cabbalista che gioca a rubare,
colpevolizzandosi, l’onnipotenza divina, e lo scienziato
moderno che,
dietro l’apparente neutralità della sua scienza,
finisce, con la sua
razionalità fredda e strumentale, per sconvolgere il mondo.
Insomma,
sembra che anche gli umani abbiano gli stessi difetti che imputano agli
androidi. Anche l’uomo, e questa è la paura che il
film rappresenta, a
dispetto della sua millenaria essenza, stava per confondersi con la
macchina, nel senso che stava per disumanizzarsi, diventare
cioè
insensibile, incapace d’empatia, impossibilitato a
condividere il
dolore altrui, ed in procinto di perdere le sue più recenti
conquiste,
quelle su cui ha costruito la sua sensibilità e la sua
identità
moderna. E l’umanità tutta – in questa
chiave interpretativa – non è
che una massa in cui crescono e proliferano, come un virus
inarrestabile, i replicanti, un insieme cioè in cui gli
uomini
autentici stanno scomparendo per essere sostituiti da semplici
riproduzioni meccaniche. La trasformazione allora non è
fisica, almeno
non solo fisica, ma essenzialmente spirituale. Ma questa è
solo una
parte del film. E forse anche la più superficiale. Il
discorso potrebbe
anche essere, in un certo senso, rovesciato. Va detto infatti, che in
questa proiezione collettiva vi è anche – e in
modo evidente – un
aspetto positivo e per di più venato dalla speranza. Sul
replicante
vengono proiettate non solo le nostre paure ed angosce di
disumanizzazione (che ne richiedono e ne giustificano
l’eliminazione),
ma anche aspetti completamente opposti, fecondi, che, in qualche modo,
ipotizzano un futuro (un nostro futuro di uomini) diverso e migliore.
Nei loro confronti vi è un’ambiguità
che è la stessa che nutriamo verso
la tecnologia in particolare e verso il mondo moderno in generale. In
poche parole, vi è tutta una parte del film che ci fa capire
che gli
uomini – nel senso pieno del termine, cioè gli
“autenticamente umani” –
non sono quelli che passano per tali, ma i replicanti stessi.
D’altronde quali sono le loro caratteristiche e di che
soffrono
costoro? La loro esistenza è immersa in un vortice temporale
spaventosamente accelerato. Non hanno una storia alle spalle e quindi
non posseggono una vera e propria memoria. Per questo ne sono
assolutamente ossessionati, ma non avendo criteri sufficienti per
ricostruirla assorbono quella altrui. La loro visione temporale non
possiede alcuna prospettiva: non solo gli manca il passato ma non
riescono ad intravedere alcun futuro. Sanno che la morte è
inevitabile
perché inscritta nel codice genetico. Essi vivono in un
mondo che ha
oramai perso da tempo l’orientamento alla trascendenza, e che
stenta ad
adattarsi a questo destino mortale, e per questo vive letteralmente
terrorizzato dalla morte; ciò li porta a chiedere
disperatamente non
un’altra vita, a cui non credono più, ma di
allungare il più possibile
la loro vita. Non posseggono una identità ben precisa e
stabile nel
tempo sia per la mancanza della memoria, sia per
l’incapacità di fare
ed assorbire l’esperienza che – come abbiamo visto
altrove – gli sfugge
da tutte le parti (Cavicchia Scalamonti, S.M. Capua Vetere, 1997). Sono
privi di un Universo simbolico che, nell’integrare i loro
valori e le
loro conoscenze, dia un “senso” completo, alla loro
esistenza. Ebbene,
tutte queste caratteristiche che affliggono gli androidi sono quelle
che affliggono l’uomo moderno o contemporaneo. Questi, oramai
orfano di
un insieme di perdute evidenze che non riescono a coinvolgerlo
più, da
tempo tenta di riorientare i suoi paradigmi conoscitivi e affettivi per
ristabilire o riparare un ordine sociale che possa poi riflettersi su
quello psicologico.
L’Edipo e la nascita della coscienza morale Vi
è un
episodio del lavoro di Ridley Scott, però, che permette di
elaborare
una particolare interpretazione. Andiamo a riconsiderare il tragico
incontro tra Roy Batty e il suo artefice Tyrell. Quello che si
è svolto
è stato la messa in atto di un dramma edipico. Si
può ipotizzare che
proprio questo scontro padre-figlio, con il conseguente ed inevitabile
assassinio, abbia paradossalmente reso il replicante finalmente umano.
Che sia una scena edipica mi sembra evidente: Roy esplicitamente chiama
Tyrell “Padre” e Tyrell lo definisce non solo
figlio ma addirittura
figliol prodigo. Roy ha una singolare soggezione di fronte al suo
creatore, come si conviene a un figlio qualsiasi verso un padre amato e
temuto. Questa soggezione, che è ancora
più singolare per un essere
che finora ha dimostrato solo la gelida potenza di una macchina
formidabile, si traduce in una sincera e contrita confessione dei
peccati che egli ha commesso... Peccati che il Padre si affretta ad
assolvere, in nome delle straordinarie imprese che questo suo
meraviglioso figlio ha compiuto. Inoltre, tutto questo breve ma
significativo dialogo viene fatto a voce piana e con le teste che si
sfiorano come avviene solitamente nell’interazione tra un padre
confessore
e il suo confessando. In poche parole, Roy Batty, mostra, in quel
momento, degli espliciti sensi di colpa. Poi il dramma: un bacio e la
violenza mortale: l’ambivalenza è al culmine ed
è assolutamente
evidente. Il dramma edipico viene, improvvisamente, inaspettatamente, e
soprattutto concretamente consumato, agito. Roy ama e nello stesso
tempo odia il padre e mette in pratica quella che, probabilmente, era
l’intenzione originaria sua e dei suoi fratelli quando
scesero sulla
terra provenienti dalle colonie dell’Extra-Mondo. Sigmund
Freud
ipotizzava che il complesso d’Edipo fosse universale e
riteneva che il
suo superamento (attraverso una sorta di necessario assassinio
simbolico) fosse la strada per una vita normale, ma riteneva anche che
attraverso l’Edipo l’individuo interiorizzasse
anche quell’istanza
fondamentale che egli chiamava Super-io e che rappresenta la coscienza
morale di ogni individuo. In seguito, in un suo saggio molto
controverso, anche se molto affascinante – Totem e
Tabù (Freud,
Torino, 1976) – ritenne (con un geniale coraggio) che il
complesso
d’Edipo fosse il lascito, l’eredità di
un avvenimento verificatosi
nella lontana preistoria. Lì, in una specie di tempo
originario –
secondo un ipotesi fatta dallo stesso Charles Darwin e ripresa da altri
antropologi – l’uomo o il proto-uomo avrebbe
vissuto in piccole orde
dominate da un maschio geloso che, sottomettendo e cacciando i giovani
maschi, riservava tutte le femmine per sé. Un giorno,
stanchi di questi
soprusi, i fratelli uniti si ribellarono a questa situazione e uccisero
e mangiarono il padre. Ma a causa dell’ambivalenza dei
sentimenti che
nutrivano verso di lui, essi si sentirono, forse per la prima volta,
tremendamente colpevoli. Infatti, “Essi odiavano il padre,
possente
ostacolo al loro bisogno di potenza e alle loro pretese sessuali, ma lo
amavano e lo ammiravano anche. Dopo averlo soppresso –
così scrive
Sigmund Freud – aver soddisfatto il loro odio e aver imposto
il loro
desiderio d’identificazione con lui, dovettero farsi sentire
i moti di
affetto nei suoi confronti fino a quel momento rimasti sopraffatti.
Ciò
accadde nella forma del rimorso, sorse un senso di colpa che coincide
in questo esempio con il rimorso collettivo. Morto, il padre divenne
più forte di quanto fosse stato da vivo, secondo un
succedersi di
eventi che ravvisiamo ancor oggi nel destino degli uomini.
Ciò che
prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo
proibirono ora spontaneamente nella situazione psichica
dell’<<obbedienza
posteriore>>” (Freud, ibidem). Come
conseguenza di ciò, essi decisero da una parte di rinunciare
alle
femmine e dall’altra d’idealizzare il padre morto.
Di lì, i due divieti
fondamentali per ogni raggruppamento umano: l’incesto e il
parricidio.
In un certo senso nasce la civiltà e nasce istituendo la
prima grande
separazione tra l’uomo e gli animali. Nasce
però con un ironico
paradosso. In effetti, il Padre vince completamente e in
profondità,
solo dopo essere stato assassinato, perché la sua morte
trasforma una
minaccia esterna, fondata solo sulla forza e sulla prevaricazione, in
un comandamento interno, fondato sul senso di colpa. Ancor
più
paradossalmente egli diventa il Padre (e quindi la Legge) solo nel
momento in cui viene, dopo la sua morte, interiorizzato e riconosciuto
come tale. Ma questa è esattamente la caratteristica
dell’uomo che lo
distingue dagli altri esseri: una coscienza morale che lo guida
dall’interno. Ed è ciò che il
replicante acquisisce per la prima volta,
egli non è più l’androide manipolato ed
eterodiretto da un potere
esterno a lui, ma un uomo che si autodetermina. In poche parole, con il
sacrificio del padre s’installa nel replicante la colpa e con
essa la
coscienza morale. Ed è solo a causa di questa coscienza che
egli può
diventare completamente uomo. In effetti, proprio da quel momento, il
Golem, la macchina perfetta, il Nexus-6, si trasforma lentamente ma
completamente. Con la morte del padre egli compie un passo importante,
un passo che gli è necessario per diventare quanto nella sua
breve vita
ha sempre desiderato: uomo. I cambiamenti sono immediati ed
evidenti: prova cordoglio per la morte di quella che è, a
tutti gli
effetti, una sorella. Poi salva una vita. La macchina ha sviluppato un
Super-io, una vera e propria coscienza morale. L’empatia con
il suo
corollario, la pietà per l’altro, sembrano in lui
non installati da
nessuno ma finalmente propri, perché creati ex
novo a seguito
delle circostanze e dalla sua storia personale, cioè dalle
azioni
compiute nella sua, sia pur breve, vita. Un fatto è certo:
così come è
successo milioni di volte nella nostra civiltà, un nuovo
difensore
dell’ordine, rappresentato da questi homines novi, ai
confini del nostro Universo traccerà i nuovi limiti, le
nuove frontiere, e si preoccuperà di difenderli. E
anche in questa progressiva trasformazione i valori umani sembrano
prevalere. Pur vittime di un mostro che abbiamo creato
(l’esasperazione
tecnologica) riusciamo a salvaguardare quanto di autenticamente umano
l’uomo continua, nonostante tutto, a possedere.
L’androide, in questa
chiave, è l’uomo nuovo, colui che
ricreerà un ordine abbondantemente in
crisi, e lo farà fondandosi sui nuovi valori e sulla sua
straordinaria
potenza. Da questo punto di vista su di esso vengono proiettate quelle
parti di noi – ora in crisi – che riteniamo
essenziale salvaguardare e
proteggere. Questa è la morale che questo film, al di
là delle
manifeste intenzioni degli autori, in qualche modo ci trasmette. * Questo testo
è una rielaborazione di “Blade Runner ovvero Gli
incubi della tecnocrazia”, in A. Cavicchia
Scalamonti, Le proiezioni della memoria,
Ipermedium, S. M. Capua Vetere, 2008.
:: letture ::
Cavicchia Scalamonti, A., (a cura di), La
lotofagia, Ipermedium, S. M. Capua Vetere, 1997.
Desser, D., “Blade
Runner” – A Diagnostic Critique, Jump
Cut, N° 29, Usa, 1984.
Dick, P. K., Ma gli
androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma,
2000.
Freud, S., Totem e
Tabù, in Id., Opere complete,
vol. 7. Boringhieri, Torino, 1976.
Mathière, C., voce
«Golem» in Dictionnaire des Mythes
Litteraires, Ed. du Rocher, Francia,1988.
Menarini, R., Ridley
Scott, Blade Runner, Lindau, Torino, 2007.
Wegener, P., Der
Golem, wie er in die Welt kam, Germania, 1920.
Wilson, E. G., Secret
cinema. Gnostic Vision in Film, Continuum International
Publishing Group, New York/London, Usa/Uk, 2006.
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