Documento e passione nell’Osama di Siddiq Barmak di Linda De Feo
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Di fronte a un violento fanatismo, stolto depositario di ogni giustizia e di ogni verità, osceno in senso etimologico perché contrario alla rappresentazione, alcune povere cose si caricano di senso, esprimono il reale attraverso l’irreale e racchiudono una poesia scandita dal ritmo lento e spasimante della temporalità di chi, dibattendosi in una spaesante condizione di cattività, anela a ritrovare la propria essenza. Una ciocca di capelli intrecciata, piantata in un vaso di terracotta, custodito segretamente, e innaffiata con quel che rimane di una flebo gocciolante, portata via dalla casa di un morto, disvela la forza significante di miseri oggetti che richiamano il passato, schivano il presente ed evocano il futuro. Per fugare i dubbi emersi sulla propria identità e dimostrare disperatamente l’impossibile, Osama è obbligata ad arrampicarsi sull’arido albero della scuola religiosa, che sembra allontanarla dal rumoroso pericolo, accogliendola in un ovattato e fugace silenzio premonitore, per poi smascherarne irrimediabilmente la delicata fragilità. E quando, dopo esser stata crudelmente costretta ad altalenare su un pozzo, barcollante e piangente, invocante, con struggente disperazione, la madre lontana, viene riappoggiata al suolo dai rozzi oppressori ormai certi del suo inganno, l’improvviso, inequivocabile segno dello sbocciare della femminilità si mostra pubblicamente, mortificandone l’infantile pudore, tradendone l’esile speranza e trasformando quegli attimi di naturale celebrazione della vita che pulsa in ineluttabile e orrida predizione di morte. | ||
In quel momento si interrompe per sempre il vibrante e tragico gioco di sospensioni, reali e immaginarie, della fanciulla, impossibilitata ormai a librarsi nell’aria, anche solo col pensiero, e spinta invece a rifugiarsi nell’oscurità di una botola della dimora in cui sarà condotta, nel vano tentativo di sottrarsi alla vista del vecchio mullah, direttore della scuola, al quale viene offerta come moglie da una corte religiosa, che non la condanna alla lapidazione, ma a un epilogo ancor più crudele, un’inesorabile e disgustosa reclusione a vita in un disperatissimo harem. Invitata a scegliere il lucchetto più finemente lavorato, offerto dal viscido marito, prima di vivere, da innocente fanciulla, la prima notte di nozze e di chiudere per sempre l’ingresso della propria stanza a tutti meno che al flaccido consorte dalla barba caprina, negando definitivamente la propria presenza al mondo, Osama sarà sacrificata a un destino di prigionia, che, nella sofferenza dello smarrimento, non potrà non ricordarle le angosciose parole sussurrate dalla madre: “Se solo questa figliola fosse nata uomo. Se solo Dio non avesse creato la donna…”. Le donne afghane non potranno dimenticare. E non potranno neanche perdonare. | ||
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