Documento e passione nell’Osama di Siddiq Barmak di Linda De Feo
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In Osama, sospeso tra la cruda fedeltà del documento e la sofferta passione della messa in scena, tra la scarna essenzialità del dialogo e l’opprimente tensione del silenzio, si dipana una storia poetica e brutale nella speranza che il sangue versato, a causa della tirannia del giogo fondamentalista, possa cessare per sempre di nutrire il suolo dei tanti campi di battaglia dell’Islam, rappresentati da quella distesa cosparsa di monconi d’albero bruciacchiati, crepitanti nell’aria immobile della smorta e opaca luce del giorno di Kabul. La tragicità del reale afghano, che ha trovato una delle sue possibili manifestazioni nella negazione della libertà di sguardo alle donne, rigorosamente costrette a scrutare il mondo attraverso una griglia di pesante pizzo, una grata di nere ombre che interseca l’aria, non impedisce tuttavia di immaginare, al di là delle pietre, dei calcinacci, delle lamiere contorte, una bellezza sepolta nelle rovine di un paesaggio che fu un tempo fiabesco, mitico, leggendario. Il dolore si diffonde dai corpi martoriati e dalle anime umiliate dei personaggi del film ai luoghi ostili, al paesaggio brullo di quella che fu un tempo la Kabul jan, l’amata Kabul, straziata e infranta, dove non scintillano più torri e minareti, non esistono più “fontane da cui gocce di diamante scrosciano su vasche di mosaico” e non risplendono più “melograni dall’anima di rubino”4. Anche quando, però, la forza travolgente degli accadimenti, l’asprezza indomabile delle vessazioni e la violazione vergognosa dell’essere dominano la dimensione estetica, sembra che Barmak non voglia lasciar sfuggire lo splendore remoto ai ritagli delle inquadrature, e ne affida l’espressione della nostalgia alla macchina da presa, capace comunque di cogliere la nobiltà nella miseria, la dignità nell’angoscia e la poesia nella disperazione. Costretta, insieme a tutti i maschi del quartiere, a frequentare la scuola islamica Madrassa, che è anche un centro di addestramento militare, Osama, ignara delle modalità di comportamento e delle regole che scandiscono le preghiere, commette imperdonabili errori, destando insidiosi sospetti negli insegnanti. L’orrore consumato nei tortuosi labirinti di fango, l’affannosa ricerca di nascondigli negli anfratti di una terra desolata, gli angosciosi tentativi di confondere gli sguardi e di negare la propria apparenza distruggono l’infanzia della protagonista, ma non riescono ad annientarne il sogno ricorrente, che la vede saltellante e leggera, gioiosa e libera, e che si ripropone costantemente, interrompendo la drammaticità del flusso delle immagini e sospendendo, almeno per qualche attimo, il terrore. Se l’immaginazione rappresenta ciò che diverge dalla certezza della percezione, dalla solidità del quotidiano e dalla concretezza dell’esperienza, qui, nel mettere in scena nient’altro che se stessa, diventa l’unico strumento capace di restituire umanità, l’unico modo possibile di vivere l’insopportabile, di regalare agognata levità e generare effimera illusione, illuminando, con i propri riverberi, l’orrida oscurità degli effetti di un potere ottuso e ottenebrante. | ||
[1] (2) [3] | ||
4. Saira Shah,
The Storyteller’s Daughter, 2003, trad. it. di Vincenzo Vega, L’albero delle storie, Bompiani, Milano, 2004, p. 9. |
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