Nel 1967 Guy Debord scrive il suo capolavoro, La Società dello Spettacolo,
in cui afferma che i paesi capitalisti si stanno evolvendo verso una
società in cui gli individui sono meri spettatori passivi di un flusso
di immagini scelte dal potere, giustificatrici dell’assetto istituito,
che si sostituiscono completamente alla realtà. Questa
critica si basa sui testi del giovane Georg Wilhelm Friedrich Hegel e
di Karl Marx, dei quali Debord opererà spesso un détournement, una riscrittura creativa. Per esempio, laddove Marx nel Capitale scrive:
“Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni
attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di
merci”1, Debord replica: “Tutta la vita delle società nelle quali
predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come
un’immensa accumulazione di spettacoli”2. Questo détournement
esprime bene quella che, per Debord, è la caratteristica principale del
capitalismo moderno. L’accumulazione del capitale e l’espansione delle
tecnologie della comunicazione hanno permesso di spingere il feticismo
delle merci ad un grado prima impensabile. La società dello
spettacolo è il risultato di questa espansione. Lo spettacolo, concetto
centrale della critica di Debord all’ordine capitalistico, non era
inteso da questi meramente come espressione della tirannia dei
mass-media. Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente la sua
manifestazione sociale più opprimente ma non è né l’unica, né la più
importante. Lungi dall’esserne causa, la televisione, come gli altri
media (non dimentichiamo che Debord scrive negli anni ’60 e dunque la
loro espansione è ancora limitata), è solo l’espressione della
struttura delle società spettacolari e uno degli strumenti di controllo
e persuasione della classe dominante. Lo spettacolo è, piuttosto, il
tipo di relazioni interpersonali costruite dalle immagini di una
società spettacolarizzata: “Lo spettacolo non è un insieme di immagini
ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini”3. Per
questo motivo, esso non è qualcosa di esterno alla società, ma, al
contrario, è la sua struttura profonda. Lo spettacolo è necessariamente
falso ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli
interessi di una sola parte della società, quella che chiaramente
detiene i mezzi di produzione: l’economia. Lo spettacolo è così il
prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del
capitalismo consumistico che degenera nel feticismo delle
merci. Pertanto lo spettacolo può essere definito come “… il regno
autoritario dell’economia mercantile elevato a uno statuto di sovranità
irresponsabile, e l’insieme delle nuove tecniche di governo che
accompagnano tale regno”4. Lo spettacolo è il risultato della
frammentazione sociale, derivante dal fatto che un unico settore domina
sugli altri, così tenta di ricomporre l’unità perduta nella realtà sul
piano delle immagini, le quali mostrano tutto ciò che manca nella vita
degli individui. Esso propone incessantemente nuovi prodotti e nuovi
stili di vita, creando di conseguenza nuovi bisogni da assecondare, che
spesso sono irrealizzabili per la gente comune.
Si realizza così una nuova alienazione. Mentre nel capitalismo
classico, descritto da Marx, l’alienazione è il risultato del passaggio
dall’essere all’avere, nel capitalismo spettacolare essa deriva dal
passaggio dall’avere all’apparire: “La prima fase del dominio
dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di
ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere.
La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte
dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento
generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo
deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima”5. In
sostanza l’analisi di Debord, rispetto a quella di Marx, di cui è
comunque ampiamente debitrice, svela un ulteriore livello del problema.
Il singolo individuo non si accontenta più di possedere una merce, un
bene, un prodotto: egli vuole, possedendolo, incarnare l’immagine ad
esso collegato. La spinta sfrenata del capitalismo individuata da
Debord, che sembra conferire un’anima alle merci attraverso lo
spettacolo, è sintetizzata anni dopo in maniera brillante da Pascal
Bruckner, che introduce il concetto di reincanto del mondo: “Siamo
lontani dallo spirito del calcolo razionale che formava, secondo Max
Weber, l’ethos degli albori del capitalismo: la produzione mercantile
viene messa al servizio di una magia universale, il consumismo culmina
nell’animismo degli oggetti. Con l’opulenza e i suoi corollari, gli
svaghi, il divertimento (il concetto di spettacolo in Debord, nda),
una sorta di incantesimo a buon mercato viene messo a disposizione di
tutti. I prodotti esposti in vendita nei centri commerciali (…) non
sono inerti: vivono, respirano e, in quanto spiriti, possiedono un’anima
ed un nome (…). È Mastro Lindo che, come il genio della lampada,
fuoriesce dal flacone del detersivo e ci ripulisce casa da cima a
fondo”6. Il concetto di alienazione, se in Marx è “l’espropriazione
del lavoratore da parte dei proprietari dei mezzi di produzione”7, in
Debord diviene l’espropriazione dei consumatori da parte dei
proprietari della società dello spettacolo, che con la merce divenuta
ormai immagine, seducono gli individui con proposte di vita
irrealizzabili, creando infine, soggetti alienati. Secondo Debord lo
spettacolo è un processo di comunicazione unilaterale dove il Potere
giustifica se stesso e il sistema che l’ha prodotto in un incessante
discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte: “Lo
spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se
stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere
all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza”8. L’assenza
di dialogo come condizione per raggiungere tale risultato è possibile
data la totale separazione tra individui sempre più isolati l’uno
dall’altro. Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che
ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia
dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il quale ha
esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi
sta a guardare, e non interviene. Lo spettacolo è “il sole che non
tramonta mai sull’impero della passività moderna”9. In questo modo lo
spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si è
ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la
distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato. È vero ciò che
lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel
flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Appare qui il concetto di iconorrea10, il flusso ininterrotto delle immagini, ma anche il concetto di virtualizzazione,
quest’ultima possibile perché figlia del processo storico relativo al
ruolo delle immagini nelle società occidentali, che palesa il passaggio
dall’immagine, in quanto pura apparenza, o astrazione ideale,
all’immagine come riflesso di una realtà considerata prima “altra”, poi
una realtà “vera e propria”, per giungere (come suggerisce l’estetica
post-modernista) ad essere considerata non più un riflesso o una
rappresentazione di qualcos’altro, ma una “realtà” in quanto tale.
Come l’immagine si sostituisce alla realtà, così la visione dello
spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori, piuttosto che fare
esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto
ciò che a loro manca. Si sostanzia ciò che Odo Marquard definiva tachiestraneità al mondo11, una situazione in cui l’essere umano non può affermare di “aver fatto” le proprie esperienze. Per
questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in
questi termini l’alienazione del consumatore: “più egli contempla, meno
vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del
bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio
desiderio”. Questa “imposizione” dello spettacolo che produce non solo
le merci ma anche i bisogni relativi, bombardando lo spettatore con
fiumi di pubblicità, impedisce all’individuo di conoscere i suoi veri
desideri12. È così che, secondo Debord, la società moderna, fondata
sull’ideale dell’individualismo, produce la più mortale e sterile
passività che la storia abbia mai conosciuto. Ma lo spettacolo non è
un’invenzione del capitalismo moderno. Esso si produce ogniqualvolta si
produce una separazione gerarchica creata dall’esistenza di un potere
istituzionalizzato. Così la religione può essere considerata
l’antecedente dello spettacolo. Dunque si può affermare che “il più
moderno è qui anche il più antico”13. Tuttavia, solo nell’epoca moderna
il Potere ha accumulato i mezzi sufficienti, non solo per dominare la
società, ma anche per plasmarla secondo i propri interessi, attraverso
una produzione volta alla diffusione dell’isolamento. Qui ritorna il
concetto di atomizzazione, ma se, in un primo tempo, la religione
creava una struttura gerarchica, nel contempo non produceva
quell’isolamento che è invece peculiarità dello spettacolo e dei suoi
potenti mezzi d’informazione. Debord sostiene che rientra nello
spettacolo anche la creazione di un antagonismo tra sistemi sociali che
sono in realtà simili tra loro. È stato questo il caso della guerra
fredda, definita da Debord come “divisione dei compiti spettacolari”14. Anche
i Paesi comunisti erano considerati dal francese sistemi spettacolari.
Essi erano basati su uno spettacolo “concentrato” che si contrapponeva
allo spettacolo “diffuso” delle società basate sul consumo delle merci.
Ma questa contrapposizione era in realtà fittizia: voleva convincere
gli individui che esistono solo quei due modelli, che in realtà hanno
più affinità che differenze, essendo entrambi basati sulla logica
capitalistica e sul dominio gerarchico di una classe - la borghesia
nello spettacolo diffuso, la burocrazia nello spettacolo concentrato. In
questa pseudo-lotta il sistema vincente si è rivelato quello dello
spettacolo diffuso, poiché questo permette la scelta tra un numero
indefinito di merci, ed il dominio dell’economia sulla società equivale
al dominio della merce sull’uomo: “Lo spettacolo è il momento in cui la
merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale”15. In una
società mercificata, sostiene Debord, non può che essere la merce ad
avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei
bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che
tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta
a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una
concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore alienato è
un mero spettatore. Debord afferma che questo modello impregna di
sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo il prototipo di ogni
competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla
competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce,
e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta
passività e apatia dei cittadini. Anche in questo caso Debord
anticipa temi che diverranno poi centrali all’interno della discussione
politica. Parla infatti del profilarsi di un sistema politico che
coincidendo con quello dello spettacolo spinge ad un folle personalismo
che risulta caratterizzare a tutt’oggi la scena politica mondiale. Il
soggetto rivoluzionario è come in Marx sempre il proletariato, di cui
però Debord amplia la definizione, fino ad includervi tutti coloro che
hanno perso il controllo sulla propria esistenza.
“È l’immensa maggioranza dei lavoratori, che hanno perduto ogni
potere sull’impiego della loro vita, e che dal momento in cui lo sanno,
si ridefiniscono come proletariato, il negativo all’opera in questa
società”16. Affinché questa classe sia rivoluzionaria è
necessario che prenda coscienza del tempo storico. Debord considera
l’evoluzione di questa presa di coscienza strettamente legata al
progresso tecnico. Originariamente, quando l’agricoltura era l’unica
attività produttiva, la concezione del tempo era da questa determinata.
Tale rappresentazione era pertanto quella del tempo ciclico dell’eterno
ritorno. Il tempo diventa sociale quando si formano le classi al
potere, le quali, non lavorando la terra, iniziano ad avere coscienza
del tempo storico, e della sua irreversibilità. Per il vertice della
società la storia inizia ad avere un senso, e quest’idea entra in
contrasto con quella della base della società, per la quale vale
l’opposto. La religione monoteista è il risultato di questa
contraddizione. La diffusione del tempo storico ha luogo con la
borghesia, giacché con il capitalismo il lavoro cessa di essere
regolare e ciclico, ma subisce anch’esso una continua trasformazione.
Tuttavia nel momento in cui la concezione del tempo potrebbe
diffondersi anche alla base, esso perde la sua storicità per tutta la
società, divenendo il tempo “della produzione in serie degli oggetti”17. L’idea
del distacco dell’individuo dal tempo inteso come tempo ciclico, dunque
strettamente interconnesso ai tempi della natura, lo ritroviamo in
Norbert Elias quando afferma che questo è uno dei motivi del mutamento
identitario: “l’identità di un uomo premoderno era caratterizzato da un
elevato grado di coinvolgimento nei confronti dell’ambiente naturale e
dei suoi ritmi, per motivi sia di ordine pratico che più propriamente
simbolici, l’identità dell’uomo moderno si è potuta costituire nelle
sue caratteristiche essenziali soltanto grazie ad un’acquisita
indipendenza dalla realtà degli spazi circostanti”18. Il tempo delle
cose si sostituisce a quello delle persone. Ne risulta una perdita
totale dell’aspetto qualitativo del tempo, il quale viene ridotto
esclusivamente al suo lato quantitativo. In quest’ambito i momenti si
distinguono solo per aspetti quantitativi, si attua, quindi, per il
tempo, lo stesso processo descritto da Marx per la merce, con il
passaggio dal valore d’uso al valore di scambio. Anche il tempo è
mercificato. Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato deve
riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto che l’economia
è il vero motore della storia. A questa presa di coscienza si oppone lo
spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un
eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia. Qui s’affaccia il concetto di presentificazione, sintetizzato splendidamente da Zygmunt Bauman nella sua notoria metafora dove “l’uomo
moderno è il pellegrino dotato di una chiara percezione della propria
identità, rigidamente orientata al progetto, verso un futuro ben
stabilito e pianificato; il nomade è invece l’uomo postmoderno che vaga
tra luoghi non connessi, possiede un’identità momentanea per l’oggi. La
sua è una vita composta di momenti uguali, in cui non ha senso parlare
di direzioni, progetti e realizzazioni. Ogni presente conta tanto o
poco, quanto ogni altro: la sua è un’ identità schiacciata sul
presente”19. D’altra parte quando Debord afferma che il tempo ora
dipende dalla produzione in serie d’oggetti non dice altro che a
dettare i tempi ora sono gli “impulsi e i bisogni dei consumatori a
loro volta intimamente legati alle decisione dei produttori
tecno-economici di questa emergente cultura virtualizzata”20. La
presentificazione, che è un altro tratto dell’identità post-moderna è
una compressione del tempo fino ai margini dei suoi limiti, per dirla
con David Lyon “l’istantaneo ci ha spinti verso il campo gravitazionale
di un perenne presente. Siamo prigionieri dell’immediato, intrappolati
tra passato e presente”21. Una forma nella quale la presa di coscienza
del tempo storico e altresì di coscienza di classe può venire
recuperata è quella del consiglio operaio. Esso “è il luogo in cui le
condizioni oggettive della coscienza storica sono riunite; la
realizzazione della comunicazione diretta attiva, in cui finiscono la
specializzazione, la gerarchia e la separazione, in cui le condizioni
esistenti sono state trasformate in condizioni dell’unione”22. La
costituzione dell’Internazionale Situazionista ha lo scopo di favorire
questa presa di coscienza. Tale obiettivo è stato perseguito in modo
diverso in tempi diversi. Innanzi tutto attraverso un’attività di
avanguardia culturale ed artistica. La cultura, però, non deve più
essere un’attività separata, ma deve inserirsi nella vita quotidiana,
la quale rimane l’unico campo in cui può compiersi la rivoluzione. In
questo contesto l’arte deve portare nuovi valori e nuove passioni,
mirando alla propria distruzione come sfera separata23.
“Ci collochiamo dall’altro lato della cultura. Non prima di essa ma
dopo. Noi diciamo che bisogna realizzarla, superandola in quanto sfera
separata”. L’attività dell’Internazionale Situazionista in questa
fase è diretta a portare alla luce i desideri dimenticati, creando
situazioni in cui gli individui potessero divenire partecipanti gioiosi
della vita e non osservatori passivi dello spettacolo. Lo scopo è la
soddisfazione del desiderio, concretamente e senza sublimarsi nell'arte. Successivamente
Debord ha posto maggiormente attenzione alle nuove forme di ribellione
sociale. Gli esempi che considera sono gli scioperi selvaggi, il
vandalismo delle bande giovanili, il saccheggio, la rivolta nel
quartiere nero di Los Angeles. Debord vi vede un rifiuto del consumo
imposto e della merce. Debord definisce questi eventi “il secondo
assalto proletario contro la società di classe”24. Questo assalto non
è dovuto, come il primo, alla miseria, ma al contrario è diretto contro
l’abbondanza. E proprio come il movimento operaio è stato preceduto dal
luddismo, questo nuovo assalto assume inizialmente forme criminali,
dirette alla “distruzione delle macchine del consumo permesso”25. Debord
continua, comunque, ad attribuire all’avanguardia un ruolo estremamente
positivo. Per questo l’Internazionale Situazionista rimane un gruppo
piccolo, elitario, molto chiuso. Secondo Debord essa ha un ruolo
esclusivamente prerivoluzionario, volto a favorire l’insurrezione
attraverso una critica radicale delle società capitalistiche moderne,
nei loro aspetti politici, economici, urbanistici.
“Noi organizziamo solo il detonatore: l’esplosione
libera dovrà scapparci per sempre, e scappare a qualsiasi altro
controllo”26. Circa vent’anni dopo, nel 1988, Debord scrive i Commentari sulla Società dello Spettacolo,
in cui afferma che il processo descritto nell’opera precedente aveva
subito negli ultimi anni un’ulteriore accelerazione verso quello che
definisce lo “spettacolare integrato”27. Quando nel 1988 nei Commentari
Debord tornerà ad analizzare lo spettacolo, affermerà che i processi
descritti negli scritti precedenti avevano avuto un ancora più rapida
evoluzione. Questa era dovuta al fatto che agli spettacoli
concentrato e diffuso si era aggiunto un nuovo tipo: lo spettacolare
integrato. Esso è al tempo stesso concentrato e diffuso e riesce così a
combinare i vantaggi di entrambi. Il risultato è una società
completamente spettacolarizzata. Lo spettacolo integrato si manifesta
nello stesso tempo allo stato concentrato e allo stato diffuso e, a
partire da questa fruttuosa unificazione, è riuscito a impiegare al
massimo l’una e l’altra qualità. Ma il loro modo di applicazione si
è trasformato. Se si considera l’aspetto concentrato, il centro diretto
è ora divenuto occulto: non vi si situa più né un capo riconosciuto, né
un’ideologia chiara. Se si considera l’aspetto diffuso, l’influsso
dello spettacolo non aveva mai determinato a tal punto la quasi
totalità dei comportamenti e degli oggetti della produzione sociale. Il
senso ultimo dello spettacolo integrato è, infatti, che esso si è
integrato nella realtà stessa a misura di quanto ne parlava: e che la
ricostruisce così come ne parla, in modo che essa non gli sta più di
fronte come qualcosa di estraneo. Quando lo spettacolare era
concentrato, la maggior parte della società periferica gli sfuggiva:
quando era diffuso, gliene sfuggiva una piccola parte; oggi più nulla.
Lo spettacolo si è mescolato ad ogni realtà, permeandola. Com’era
prevedibile in teoria, l’esperienza pratica del compimento sfrenato
della volontà della ragione mercantile mostra, rapidamente e senza
eccezioni, che il diventar-mondo della falsificazione era anche un
diventar-falsificazione del mondo. “Se si eccettua un’eredità ancora
consistente, ma destinata a ridursi sempre di più, di libri ed edifici
antichi che, del resto, sono sempre più spesso selezionati e messi in
prospettiva secondo la convenienza dello spettacolo, non esiste più
nulla, nella cultura e nel mondo, che non sia stato trasformato e
inquinato secondo i mezzi e gli interessi dell’industria moderna”28. Ed ancora “Lo spettacolo si è mischiato ad ogni realtà irradiandola”29. In
una società dove prevale l’immagine, dove l’apparenza diviene la base
della realtà, l’immagine mediata dallo schermo può divenire, in fondo,
più reale dell’oggetto o dell’essere che l’ha prodotta. Lo
spettacolare integrato ha cinque caratteristiche principali: “il
continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il
segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente”30.
“Il continuo rinnovamento tecnologico sostanzia la pressoché
illimitata possibilità di controllo dell’individuo attraverso la
nascita costante di nuovi mezzi di produzione spettacolare; la fusione
economico-statale rafforza l’economicismo come caposaldo
dell’amministrazione statale; il segreto generalizzato come ratio che
si giova delle dissimulazioni degli eventi importanti e della gestione
autoritaria del ricordo dell’oblio; il falso indiscutibile come regime
che ha reso impossibile la formulazione di una prassi politica autonoma
e la probabilità che un’opinione pubblica realmente informata dei fatti
possa assumere un ruolo preminente nella gestione del vivere sociale;
un eterno presente tiranneggiante frutto del succedersi indifferenziato
di informazioni e delle mode, che compromette ogni progresso sociale ed
ogni salutare prospettiva storica”31. In questo modo tutti gli effetti
dello spettacolo si amplificano in misura esponenziale. La società è
completamente dominata dalle immagini falsificate che si sostituiscono
alla realtà, facendo scomparire qualsiasi possibilità di attingere la
verità al di là della falsificazione continua che la ricopre: “Quando
l’immagine costruita e scelta da qualcun altro è diventata il rapporto
principale dell’individuo col mondo, che egli prima guardava da sé da
ogni luogo in cui poteva andare, evidentemente non si ignora che
l’immagine reggerà tutto. […] Il flusso delle immagini travolge tutto,
e analogamente è qualcun altro a dirigere a suo piacimento questa
sintesi semplificata del mondo sensibile”32. Anche qui Debord centra
un tema fondamentale: la sovraesposizione alle immagini, frutto di un
flusso ininterrotto, incide profondamente non solo nel creare una
sintesi falsa e semplificata del mondo sensibile, ma anche una sua
interiorizzazione volta, probabilmente, ad un’importante influenza
sulla costruzione sia dell’identità che della memoria collettiva. Ciò
determina la scomparsa del concetto di storia, e quindi anche della
democrazia: “Credevamo di sapere che la storia era apparsa in Grecia
con la democrazia. Adesso possiamo verificare che la prima sta
scomparendo dal mondo come la seconda”33. La finzione di democrazia è
mantenuta in vita solo attraverso la costruzione di un nemico comune,
il quale consente una falsa unità che ricopre la realtà della
separazione gerarchica tra dirigenti ed esecutori. È questo il ruolo
del terrorismo: “Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo
inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in
base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati. La storia
del terrorismo è scritta dallo Stato; quindi è educativa. Naturalmente
le popolazioni spettatrici non possono sapere tutto del terrorismo, ma
possono sempre saperne abbastanza da essere convinte che, rispetto al
terrorismo, tutto il resto dovrà sembrare loro abbastanza accettabile,
e comunque più razionale e democratico”34.
Questo passaggio non può non colpirci per la sua sbalorditiva coincidenza con i tempi che oggi viviamo. In
questo contesto ogni critica diventa impossibile. Lo spettacolare
integrato non vuole essere criticato, e, d’altronde, gli individui
vengono educati sin dalla nascita per evitare che questo accada. I
rischi che si corrono sono diversi: “La disarticolazione della memoria
che le forme di comunicazione istantanea, urlata e parcellizzata
tendono a produrre è un fenomeno nuovo che rischia di distruggere ciò
che faticosamente è stato costruito dalle generazioni che ci hanno
preceduto”35. Questo processo è quello che Debord chiama pensiero
spettacolare, ed è ciò che indurrà gli individui a mettersi sin da
subito al servizio dell’ordine costituito. Ed anche se una persona
riuscisse a superare questa formazione resterebbe comunque attaccata al
linguaggio dello spettacolo, giacché è l’unico che conosce, essendo
l’unico che gli è stato insegnato: “Magari vorrà mostrarsi nemico della
sua retorica; ma userà la sua sintassi. È uno dei punti più importanti
ottenuti dal successo raggiunto dal dominio spettacolare”36. La
mondializzazione dell’economia è l’apogeo di questo processo che si
distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo elemento, ma di
importanza decisiva: “Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato
a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità
della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza”37. Si può quindi affermare che “l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo”38. Il
risultato è quel villaggio globale di cui parla Marshall McLuhan, ma
del quale Debord dà una valutazione opposta rispetto al sociologo
canadese: “I villaggi, contrariamente alle città, sono sempre stati
dominati dal conformismo, dall’isolamento, dalla sorveglianza meschina,
dalla noia, dalle chiacchiere ripetute all’infinito sulle stesse
famiglie”39. A questo stato di cose, prodotto dalla tendenza al
feticismo delle merci ed alla reificazione dell’economia autonomizzata,
Debord contrappone il concetto di totalità. Se la costituzione del
potere produce una separazione gerarchica della società, l’unica
soluzione è quella di ricostruire realmente l’unità della stessa.
Questa totalità è intesa da Debord come comunità umana. Una comunità
che è possibile solo se ognuno può accedere direttamente ai fatti, e se
tutti hanno i mezzi intellettuali e materiali necessari per decidere. Nella
comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della
discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria
per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è
l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte
separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a poter parlare.
Questa concezione consente a Debord di affermare che “… laddove c’è
comunicazione non c’è lo Stato”40.
1. Karl Marx, Il capitale, Newton
Compton, Roma, 2006, p. 53.
2. Guy Debord, La società dello
spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2006,
p.53.
3. Ibidem, p. 54.
4. Guy Debord, Commentari sulla
società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai,
Milano, 2006 , p. 190.
5. Guy Debord, cit., p. 57.
6. Pascal Bruckner, La tentazione
dell'innocenza, Ipermedium libri, Napoli, 2001, p. 76.
7. Luciano Gallino, Dizionario di Sociologia,
UTET, Torino, 1978, p. 15.
8. Guy Debord, ibidem, p.
57.
9. Ibidem, p. 56.
10. Joël Candau, La memoria e
l'identità, Ipermedium libri, Napoli
2002, pp. 135-145.
11. Odo Marquard, Apologia del caso,
Il Mulino, Bologna, 1991, p. 56.
12. Guy Debord, ibidem, p. 63.
13. Ibidem, p. 133.
14. Ibidem, p. 78.
15. Ibidem, p. 70.
16. Ibidem, p. 117.
17. Ibidem, p. 135.
18. Norbert Elias, Coinvolgimento e distacco,
Il Mulino, Bologna 1988, p. 29.
19. Zygmunt Bauman, Il teatro
dell’immortalità. Mortalità,
immortalità e altre strategie di vita,
Il Mulino, Bologna 1995, p. 37.
20. David Lyon, Gesù a Disneyland.
La religione nell'era postmoderna, Editori Riuniti, Roma
2002, p. 121.
21. Ibidem, p. 99.
22. Guy Debord, La società dello
spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2006, p. 119.
23. Guy Debord, La società dello spettacolo, cit. p. 119.
24. Guy Debord, La società dello
spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2006, p. 119.
25. Guy Debord, La società dello spettacolo, cit. p. 119.
26. Guy Debord, Internazionale Situazionista,
ciclostilato, Parigi, Francia , 1958, N. 1, p. 9.
27. Guy Debord, Internationale situationniste, cit., p. 9.
28. Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, cit., p. 194.
29. Ibidem, p. 194.
30. Ibidem, p. 196.
31. Luca Bifulco, Guido Vitiello (a cura di), Sociologi
della comunicazione, , Ipermedium Libri, Napoli, 2004, p. 123.
32. Guy Debord, Commentari sulla
società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai,
Milano, 2006, p. 206.
33. Guy Debord, Commentari alla
società dello spettacolo, cit., p. 206.
34. Ibidem, p. 204.
35. Raffaele Simone, La terza fase. Forme di
sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari 2002, pp.
101-102.
36. Guy Debord, Commentari sulla
società dello spettacolo, cit., p. 209.
37. Ibidem, p. 214.
38. Ibidem, p. 214.
39. Ibidem, p. 210.
40. Guy Debord, Commentari sulla
società dello spettacolo, cit., p. 191
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