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Un’inchiesta sulla sparizione dell’inchiesta
di Carmine Treanni

inchiestaNel 1997, uscì nelle sale americane un film dal titolo Wag The Dog (Sesso & Potere in italiano) per la regia di Barry Levinson e con protagonisti Robert De Niro e Dustin Hoffman. La storia è la seguente: a undici giorni dalle elezioni, il presidente degli USA è accusato di aver molestato una girl scout alla Casa Bianca. Urge deviare altrove l’attenzione dell’opinione pubblica. Per evitare gli effetti negativi dello scandalo, si riunisce immediatamente il comitato di crisi, ed è chiamato in soccorso il super esperto di manipolazione dei media, lo spin doctor Conrad Brean (Robert De Niro). 
Brean ordina al presidente di prolungare la trasferta in Cina, per cause di salute e imbastisce, con l’aiuto del celebre produttore hollywoodiano Stanley Motss (Dustin Hoffman), il diversivo di una guerra con l’Albania (ma perché l’Albania? “Perché no” risponde Conrad Brean), visto che secondo alcune “autorevoli fonti” (naturalmente false) dei terroristi albanesi avrebbero sbarcato delle bombe atomiche in Canada per oltrepassare più facilmente il vicino confine con gli States. 
Il gioco è fatto e tutta l’America crede di essere minacciata dall’Albania, che poi non è neanche dotata dell’atomica, ma lo sanno solo gli esperti della CIA che hanno il rapporto dei satelliti e sostengono il candidato avversario del presidente, il senatore Neal. I comuni cittadini, intanto, ascoltano i grossi network che fanno da grancassa alla versione di Brean.

Il 21 gennaio 1998 viene pubblicata una notizia che passerà alla storia con il nome di Sexgate: il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton avrebbe molestato sessualmente una stagista alla Casa Bianca. La notizia, comparsa sui quotidiani Los Angeles Times e Washington Post, scoppia in modo eclatante e nasce così lo scandalo Clinton-Lewinsky. Il canale TV via cavo MSNBC adotta la strategia “All Monica, all the time” per migliorare i propri indici di ascolto tutt’altro che soddisfacenti: il giorno dello scandalo, MSNBC vide i suoi ascolti salire del 131% rispetto alla media dei giorni precedenti. Lo stesso giorno, sulla rete televisiva pubblica PBS, viene trasmessa la prima dichiarazione pubblica di Clinton sul caso; la PBS è una rete molto piccola, che diffonde solo programmi culturali e un telegiornale con poche notizie ma molti approfondimenti, della durata di un ora: una sede, quindi, giornalisticamente prestigiosa. La difesa di Clinton si gioca soprattutto sull’uso dei tempi verbali sottolineando con l’uso del presente (“la cosa non è vera”), per affermare che al momento non c’è una relazione con la Lewinsky, senza fare affermazioni sul passato.
Il film di Levinson precede di poco la notizia dello scandalo Clinton-Lewinsky. Come dire: la fantasia supera la realtà. Ma questi due fatti – uno di fiction ed uno reale – hanno messo in luce un tema già caro alla fantascienza più dirompente e satirica: la simulazione. Nel film un evento di cronaca viene simulato, viene dato in pasto al pubblico spacciandolo per vero.
Siamo lontani insomma dai tempi del WaterGate, lo scandalo politico scoppiato sempre negli Stati Uniti nel 1972, che portò alla richiesta di impeachment e, poi, alle dimissioni del Presidente Nixon.
Qui siamo dalle parti di un fenomeno che ormai è entrato nel costume civile ed è stato accettato, senza riserve o particolari proteste, da tutti: pubblico e mondo del giornalismo. Stiamo parlando della spettacolarizzazione dell’informazione.
Un fenomeno che Aldo Grasso spiega così:

Da un po’ di tempo, nel giornalismo televisivo l’effetto spettacolare è prevalso sui contenuti dell’informazione. E questo ha complicato non poco i parametri di giudizio. Un tempo, ad esempio, un giovane che si avviava alla carriera giornalistica sognava di diventare una ‘grande firma’, come Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca. Adesso il suo ideale è una «faccia famosa», Bruno Vespa o Emilio Fede e Enrico Mentana. E a ragione: con minor fatica e competenza si riscuote maggior successo. Basta infatti accendere il televisione per accorgersi che è andato in crisi il giornalismo tradizionale e sta trionfando il giornalismo varietà. La tendenza alla spettacolarizzazione ha investito tutti i generi televisivi producendo programmi ibridi, specie quelli informativi.

Questa lucida analisi del critico televisivo del Corriere della Sera non può non essere condivisa e coincide anche con la scomparsa di un genere giornalistico che ha contribuito non poco a formare le coscienze di decine e decine di lettori-telespettatori: l’inchiesta.
Ogni qualvolta balza agli onori della cronaca nera un evento delittuoso, scatta l’assedio dei media e una vera e propria narrazione dell’evento. Ma quali i motivi di questa spettacolarizzazione dell’informazione? E come è scomparsa (ma e poi davvero così?) l’inchiesta giornalistica? E vero, come sostengono in molti, che Striscia la Notizia è, paradossalmente, il miglior telegiornale in circolazione? E le inchieste de Le Iene sono davvero più graffianti di quelle sporadiche effettuate dai veri telegiornali e rotocalchi d’informazione? Proviamo a riflettere.
Se volessimo inquadrare dal punto di vista storico l’informazione spettacolo, probabilmente il primo esempio di tale fenomeno è la famosa foto del miliziano spagnolo che muore di Robert Capa. La foto venne scattata durante la Guerra Civile Spagnola (1936-1939) e pubblicata, per la prima volta, sul settimanale francese Vu il 23 settembre del 1936. Il suo impatto fu tale che la famosa rivista Life la comprò per il suo numero del 12 luglio del 1937. Oggi, sappiamo che la foto dell’uomo, apparentemente colpito da una pallottola, è un falso: il soldato semplicemente stava cadendo. A trarre in inganno probabilmente furono le didascalie delle due riviste che diffusero per prime la foto. Quella di Vu recitava: “... petto al vento, fucile alla mano, una pallottola fischia, un bellissimo fratricidio e il loro sangue viene bevuto dalla terra madre”. Quella di Life invece: “La macchina da presa di Capa coglie un soldato spagnolo nel momento stesso in cui viene abbattuto da una pallottola in testa davanti a Cordoba”.

Qualche anno più tardi, nel 1938, La guerra dei mondi di Orson Welles, il radiodramma tratto dall’omonimo romanzo di fantascienza di H.G. Wells, che l’allora giovane attore e regista portò alla radio, capovolse la questione: lo spettacolo divenne informazione. Come è noto un annunciatore anonimo interruppe le normali trasmissioni radiofoniche con la notizia che i marziani erano sbarcati nel New Jersey. A questa notizia seguirono di volta in volta altre comunicazioni, tra le quali un discorso drammatico del Ministro degli Interni.
Milioni di ascoltatori credettero alla storia e ne derivò un panico generale: la gente fuggiva in tutte le direzioni, dalle città in campagna o dalla campagna in città. Mentre gli Stati Uniti erano in preda al panico Welles, ignaro, continuava la sua trasmissione e scoprì ciò che era accaduto soltanto l’indomani mattina.
Se la foto di Capa è stata erroneamente interpretata, di certo non lo sono state altre forme di spettacolarizzazione dell’informazione, soprattutto di quella in tempo di guerra.
Antonio Ricci riporta di un caso esemplare avvenuto durante la guerra nel Golfo:

Se lo spettacolo non c’è lo si costruisce.
Esemplare, a questo proposito, il cronista della Cnn che, durante la guerra nel Golfo, in collegamento da un albergo di Tel Aviv, fingendo un imminente attacco iracheno con i gas, rifiutava, nonostante i perentori inviti dello studio centrale, di indossare la maschera antigas, pur di continuare l’eroica telecronaca.
Scoprimmo la sceneggiata solo rivedendo le immagini alla moviola: mentre l’«eroe» tentava di mettersi spalle al muro per guadagnare un primo piano, in un angolino del teleschermo erano apparse per un attimo alcune persone tranquille  senza maschere antigas.

In Italia, il caso più eclatante – e probabilmente quello che ha dato il via alla cosiddetta tv del dolore – è stato quello di Vermicino. Un bambino di nome Alfredo Rampi, detto Alfredino, è stato il protagonista di un tragico fatto di cronaca dei primi anni ’80: cadde in un pozzo artesiano largo 30 cm e profondo 80 metri nelle campagne della località di Vermicino, nel territorio del comune di Frascati. Il dramma fu seguito tramite una diretta televisiva non stop lunga 18 ore a reti Rai unificate. L’Italia intera rimase in ansia a seguire l’evolversi della situazione: si stimò che più di 21 milioni di persone avessero seguito alla televisione la straziante vicenda. Sul luogo si portò anche l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Pochi, in quel momento, si resero conto di ciò che stava accadendo: il dramma, l’evento doloroso, si stava trasformando in spettacolo, in quella che poi sarà chiamata televisione del dolore. Nasceva così anche in Italia l’informazione spettacolo.
Ancora, Grasso ha così descritto Enzo Biagi, uno dei grandi del nostro giornalismo, considerato il maestro di un giornalismo d’altri tempi, quando era l’inchiesta lo strumento principale del mestiere: “Dagli esordi televisivi fino agli anni recenti, segnati dal trionfo del giornalismo spettacolo, Biagi si è sempre ostinato a proporre lo spettacolo del giornalismo”. 
Una descrizione che rende omaggio a Biagi, ma anche ad un modo di fare giornalismo che se non sta scomparendo, comincia a segnare il passo a tutto vantaggio del giornalismo spettacolo. Il varietà ha invaso le news. Prendiamo ad esempio una trasmissione come Porta a porta condotta da Bruno Vespa. Già la sigla ci annuncia lo spettacolo sulle musiche della colonna sonora del film Via col vento. Accanto al politico di turno o all’esperto, nel talk show di Raiuno fanno capolino attrici e soubrette (con relative gambe in mostra) che non disdegnano di dire la loro su una notizia oggetto di discussione o di dichiarare la propria simpatia per questo o quel politico. 

Ma Porta a porta non è il solo esempio di spettacolarizzazione delle informazioni. La vita in diretta, su Raidue, il rotocalco di Canale 5 Verissimo, passano senza nessun timore da un servizio su un omicidio al gossip più scatenato. 
Per legittimare il tutto si “usano” i giornalisti dei telegiornali. Il meccanismo è molto semplice: si prende un mezzo-busto di un Tg e lo si mette alla guida di un programma in cui ai balletti e alle canzoni tipiche del varietà si alternano servizi giornalistici come quelli che si vedono nei telegiornali). Alberto Castagna è stato uno dei primi a lasciare la poltrona del Tg2 per diventare conduttore-presentatore. Così come, oggi, Michele Cocuzza – anch’egli anchorman del telegiornale di Raidue - è il conduttore di La vita in diretta, format di successo a metà strada tra intrattenimento puro e informazione.
La spettacolarizzazione dell’informazione, a cominciare dai Tg, è un fenomeno nato più o meno alla metà degli anni Novanta. Tutto è iniziato però sulla carta stampata. Titoli sempre più forzati e allarmanti, foto grandi e a colori. La notizia si allarga a dismisura sulle prime pagine dei giornali, usando tutto lo spazio che il giornalista gli concede. L’obiettivo (evidentemente sbagliato) era quello d’inseguire la televisione. Ma in Tv la notizia scorre lungo l’asse del tempo. Si deve tenere desta l’attenzione del telespettatore. E allora ritmo e brevità sono le regole fondamentali di chi fa informazione sul piccolo schermo. Tutto, anche le notizie, dunque, devono diventare story, devono appassionare chi guarda il programma. Questo “sceneggiare la cronaca”, come ha descritto il fenomeno la sociologa Milly Buonanno, ha ovviamente due direzioni: una notizia viene trasmessa come se si trattasse di una fiction, le fiction sono sempre di più tratte da fatti (molto spesso drammatici) realmente accaduti.
Tutto ciò è coinciso anche con la “morte” dell’inchiesta, un genere giornalistico che sia sui giornali che in Tv ha sempre trovato un suo spazio ben definito.

In un qualsiasi manuale di giornalismo alla parola inchiesta possiamo leggere una definizione più o meno di questo tipo: una serie di servizi con particolari indagini su situazioni, fatti o problemi con unità di argomento. Ovviamente le inchieste si dipanano in più puntate proprio per dare spazio all’approfondimento. Molti osservatori del mondo dei mass-media, a cominciare dagli stessi giornalisti, sostengono che oggi l’inchiesta è ormai scomparsa dalle pagine dei giornali. Il motivo è da un lato il sempre meno spazio disponibile sui quotidiani e sugli altri giornali, dall’altro il giornalismo moderno che ha nella brevità e nel ritmo due tratti irrinunciabili. I quotidiani, poi, nel loro inseguire la televisione, scimmiottano il piccolo schermo attraverso grandi foto e titoli, ma anche spettegolando sui protagonisti e personaggi del gossip televisivo.
Il problema vero è che la maggior parte dei giornalisti lavora prevalentemente su informazioni di seconda mano, e quasi nessuno prova ad approfondire l’informazione ricevuta. Da questo processo è derivata la morte dell’inchiesta che ha avuto ripercussioni anche sulla società civile.

La «morte» dell’inchiesta – nella televisione e nei giornali – ha provocato un danno gravissimo: non potendosi più rispecchiare e riconoscere nelle inchieste sociali dei media, la società civile è stata colpita da una profonda crisi d’identità che non può essere surrogata dai numeri asettici delle statistiche e soprattutto dai sondaggi d’opinione in tempo reale, moneta altrettanto falsa usata abitualmente nei programmi televisivi in chiave spettacolare. Ancora più gravi sono le conseguenze per le giovani generazioni le quali, private di uno strumento che mostri in maniera attendibile la loro condizione e il contesto sociale in cui esse vivono, finiscono, in mancanza d’altro, per identificarsi con gli stereotipi della pubblicità e con quelli dei fatti di cronaca, dove fa notizia chi getta sassi dai cavalcavia o si schianta sulle strade la notte del sabato. Sono gli stessi giovani che, a causa di una televisione che ha rimosso la storia sociale, rischiano seriamente di diventare come quei vecchi arteriosclerotici che conservano la memoria del passato remoto ma ignorano ciò che è accaduto nel passato recente e, soprattutto, ciò che accade, oggi, intorno a loro. Oltretutto, i giovani non hanno più la possibilità di apprendere alcunché nemmeno dalla strada, perché le strade sono ormai non più luogo pubblico d’incontro, ma percorsi d’interconnessione di luoghi privati. 

In realtà, come già osservato da alcuni critici televisivi, l’inchiesta ha cambiato casa, si è trasferita dalle pagine dei giornali ai varietà. 
In America, ad esempio, è il regista Michael Moore a parlarci di un’America dalle mille sfaccettature e vera - rispetto all’immagine di paese forte e altamente democratico proposta dell’establishment governativo -, attraverso le sue inchieste corsare che hanno preso la forma di documentari apprezzati soprattutto all’estero.
In Italia, invece, sono forse Striscia la notizia e Le Iene a fare inchieste giornalistiche. Sono gli autori e i conduttori di queste trasmissioni a fornire un tipo di informazione che va oltre le fonti, per investigare seriamente e andare al di là della notizia in sé.
Ma cosa s’intende per giornalismo d’inchiesta?

La critica è divisa sulla definizione del giornalismo d’inchiesta. Per i «puristi» a fare la differenza è il lavoro del reporter: per essere investigativo, deve essere approfondito e legato all’indagine del cronista, che deve analizzare documenti e intervistare testimoni. [..] Altri studiosi hanno invece messo l’accento sul prodotto finale: l’inchiesta è la rivelazione di qualcosa ignoto al pubblico, anche se il giornalista si è limitato a riassumere un rapporto riservato del governo o l’atto di accusa di un procuratore. […] Quello che conta, alla fine, è l’attendibilità delle dichiarazioni: l’autore di un’inchiesta raccoglie più fonti possibili per mettere insieme elementi inconfutabili su un tema di rilevanza pubblica di cui, spesso, qualcuno vuole tenere segreti alcuni particolari.

Il 7 novembre del 1988 c’è l’esordio su Italia 1 di Striscia la Notizia, un velocissimo telegiornale satirico con un programma ambizioso: “Tentiamo l’impossibile: battere la comicità di Bruno Vespa”. Conducono in studio Gianfranco D’Angelo ed Ezio Greggio. La regia è di Beppe Recchia. Nel dicembre dell’89 il programma passa da Italia 1 a Canale 5. Il programma diventa un vero cult, raggiungendo ben presto una media di telespettatori intorno ai 9 milioni. Gli sponsor fanno a pugni per poter promuovere i loro prodotti all’interno di Striscia. Antonio Ricci è l’ideatore dello show. Ricci si è fatto le ossa, televisivamente parlando, con programmi come Te la do io l’America, Te lo do io il Brasile, con Beppe Grillo, e Drive in.
Giorno per giorno, si seguono e commentano i fatti salienti del Paese, dalla politica all’informazione: scoop, papere, errori, clamorosi falsi di un universo mediatico in perenne fermento. Il tutto cucinato tra una gag e l’altra dei due conduttori e i languidi siparietti delle veline, ragazze che ballano tra un servizio e l’altro. Striscia però non è soltanto un quotidiano satirico e dissacrante, spesso, infatti, si trasforma in un sagace osservatore del costume, in uno smascheratore impietoso grazie alle missioni dei suoi "inviati", primo tra tutti l’irriverente Gabibbo, il pupazzo diventato idolo dei più piccoli ma anche fustigatore dell’Italia pre e post Duemila.
Resta inteso che Striscia la notizia non vuole essere né un telegiornale né un deposito di saggezza e verità perché - come sostiene Antonio Ricci – “la televisione è finzione” e nella categoria rientra senz’altro anche la sua trasmissione. Non c’è dubbio, però, che Striscia si è fatta carico, attraverso la maschera della satira, di fare del giornalismo d’inchiesta. Lo dimostrano i tanti casi denunciati, dalla recente tele-truffa che ha visto coinvolta Vanna Marchi ai tassisti che fanno pagare salatamente le corse a sprovveduti stranieri in visita nel nostro Paese, fino ai maltrattamenti subiti da cani da parte di fantomatici gestori di canili. Tra i servizi più clamorosi, lo scoop del Gabibbo che mandò in onda le immagini dei moduli abitativi della Protezione civile che giacevano inutilizzati mentre tanti terremotati dell’Umbria vivevano in roulotte e tende. La Corte dei conti aprì un’inchiesta in merito. L’elenco sarebbe lungo. Ci limitiamo a segnalare che mentre i giornalisti restano sempre più saldamente davanti ad un monitor a selezionare le notizie, gli inviati di Striscia la Notizia vanno letteralmente a caccia di notizie e con vari servizi – seppur in forma satirica – costruiscono delle vere e proprie inchieste.

Dal 1988 sono passati tanti conduttori e veline, famosi ospiti internazionali del mondo del cinema e della musica, centinaia di tapiri consegnati (il premio consegnato ai Vip che cadono momentaneamente in disgrazia), anticipazioni sui risultati del Festival di Sanremo, tantissime denunce, ma mai una condanna.
C’è un rapporto consolidato tra il pubblico e lo “strano” telegiornale in cui l’opinionista è un pupazzone rosso con l’accento ligure che a furia di scarpinare nell’Italia delle piccole e grandi ingiustizie ha due piedi come cocomeri. I telespettatori, ad esempio, sono invitati a partecipare telefonando al numero verde, segnalando via Internet, fax o chiamando l’S.O.S. Gabibbo, per far conoscere le malefatte ai danni dei cittadini più deboli, gli errori e gli strafalcioni dei giornalisti della carta stampata e della Tv, le magagne edilizie, gli “inciuci” politici e chi più ne ha più ne metta. Un rapporto di fiducia che i sondaggi e i dati di ascolto consacrano ad ogni occasione: Striscia è indicato come il più credibile da quasi metà degli italiani.
Non di rado, però, un cortocircuito mediatico avviene sugli schermi televisivi. Capita quando il conduttore di turno del TG5, alla fine del tempo concesso, prima di congedare il pubblico, apre un canale di comunicazione con i due conduttori di Striscia La Notizia. L’intento è chiaro: traghettare i telespettatori del TG5 verso la trasmissione di Ricci. Il conduttore del telegiornale (quello vero) chiede ai conduttori del telegiornale (di finzione?) qual è il menu della puntata odierna. Niente di anormale, un semplice scambio di cortesie fra due programmi della stessa rete, un avvicendamento nel palinsesto. Ma uno spettatore poco attento può andare in confusione. Già perché capita semplicemente che tra i servizi che il tg satirico di Ricci sta per mandare in onda ve ne siano alcuni che possono tranquillamente figurare nel TG5. Prendiamo il caso mediatico di Vanna Marchi, guarda caso anch’essa protagonista di un pezzo della storia della televisione. Il 27 novembre 2001, Striscia la Notizia smaschera la telembonitrice, la figlia Stefania e il mago Do Nascimento. Qualche giorno dopo la procura di Milano apre un’indagine sul caso Marchi/Do Nascimento e il 24 gennaio 2002 Vanna Marchi viene arrestata  con la figlia Stefania e rimangono in carcere fino al 25 marzo quando ottengono gli arresti domiciliari. Nel marzo 2002 comincia il processo. Il 3 aprile 2006 Vanna Marchi e la figlia Stefania Nobile sono state condannate a due anni e sei mesi di reclusione nel processo-bis per truffa aggravata davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Milano: le due donne e gli altri imputati sono stati inoltre condannati a risarcire alcune delle vittime delle truffe per un ammontare di quasi 40.000 euro. Il 9 maggio dello stesso anno la Marchi, il suo convivente Francesco Campana e la figlia furono nuovamente condannati in primo grado dal Tribunale di Milano (stavolta per associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata), con condanne rispettivamente di 10, 4 e 10 anni, e al risarcimento delle vittime (oltre 2 milioni di euro). Risarcimento reso in buona parte possibile dal sequestro di varie proprietà immobiliari intestate alla figlia Stefania Nobile. Il processo d’appello è tutt’ora in corso.

Per tutto questo periodo, Striscia la notizia ha scandito l’informazione su questo caso. Erano i telegiornali – non solo quelli di Mediaset – che erano sempre un passo indietro al tg satirico di Canale 5. Un cortocircuito paradossale se si pensa che all’origine Striscia è una trasmissione di intrattenimento e non di informazione.
Qualcosa di simile accade con le inchieste de Le Iene, che spesso sono oggetto di “informazione” per i quotidiani, o di censura da parte dell’Authority per la TV.
Completo nero, cravatta scura su camicia candida, occhiali da sole e un’arma micidiale: il microfono. Le Iene si presentano così, argute e irriverenti, pronte a svelare le piccole e grandi magagne del Paese Italia. Colgono i vip di sorpresa, spesso in situazioni imbarazzanti; denunciano a colpi di ironia le manie di protagonismo, gli sprechi, le macchie dello showbiz. Come Enrico Lucci. Bombardano i politici di turno con domande dirette e richieste concrete, senza temere di sommergere i loro silenzi con grasse risate. Come il trio Medusa. Danno prova di giornalismo estremo e trasformismo. Come Marco Berry. Somatizzano le insulsaggini di tanta cronaca nostrana, tramutandosi in minacciosi mostri verdognoli. Come Giulio Golia. Vanno sempre a caccia di scoop. Come Alessandro Sortino.
Sono anche loro, in qualche modo, i figli di un giornalismo d’inchiesta che sembra, in questo caso, aver messo i panni del cabaret. Non è un caso se due delle iene, Alessandro Sortino e Enrico Lucci, siano davvero dei giornalisti.
Anche Le Iene, come Striscia, è riuscita ad intercettare gli interessi delle persone normali e a riproporli in modo schietto e con un tono pulp in televisione, catturando l’attenzione dei giovani, un target tanto ambito ai pubblicitari. 
Che Striscia e Le Iene siano una fonte alternativa d’informazione e forniscano punti di vista differenti, con l’arma dell’ironia e della satira, è del tutto legittimo, ma che rappresentino sempre più spesso le uniche forme di un giornalismo degno di un paese civile e democratico, è altra questione. E, diciamolo pure, è un fatto di cui vergognarsi, prima di tutto.



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