Nel
1997,
uscì nelle
sale americane un film dal titolo Wag The Dog (Sesso
& Potere in italiano) per la regia di Barry
Levinson e con protagonisti Robert De Niro e Dustin Hoffman.
La storia è la seguente: a undici giorni dalle elezioni, il
presidente degli USA è accusato di aver molestato una girl
scout alla Casa Bianca. Urge deviare altrove l’attenzione
dell’opinione pubblica. Per evitare gli effetti negativi dello
scandalo, si riunisce immediatamente il comitato di crisi, ed
è chiamato in soccorso il super esperto di manipolazione dei
media, lo spin doctor Conrad Brean (Robert De
Niro). Brean ordina al presidente di prolungare la trasferta in Cina,
per cause di salute e imbastisce, con l’aiuto del celebre
produttore hollywoodiano Stanley Motss (Dustin Hoffman), il diversivo
di una guerra con l’Albania (ma perché
l’Albania? “Perché no”
risponde Conrad Brean), visto che secondo alcune “autorevoli
fonti” (naturalmente false) dei terroristi albanesi avrebbero
sbarcato delle bombe atomiche in Canada per oltrepassare più
facilmente il vicino confine con gli States. Il gioco è
fatto e tutta l’America crede di essere minacciata
dall’Albania, che poi non è neanche dotata
dell’atomica, ma lo sanno solo gli esperti della CIA che
hanno il rapporto dei satelliti e sostengono il candidato avversario
del presidente, il senatore Neal. I comuni cittadini, intanto,
ascoltano i grossi network che fanno da grancassa alla versione di
Brean.
Il 21 gennaio 1998 viene pubblicata una
notizia che passerà alla storia con il nome di Sexgate:
il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton avrebbe molestato
sessualmente una stagista alla Casa Bianca. La notizia, comparsa sui
quotidiani Los Angeles Times e Washington Post, scoppia in modo
eclatante e nasce così lo scandalo Clinton-Lewinsky. Il
canale TV via cavo MSNBC adotta la strategia “All Monica, all
the time” per migliorare i propri indici di ascolto
tutt’altro che soddisfacenti: il giorno dello scandalo, MSNBC vide i
suoi ascolti salire del 131% rispetto alla media dei giorni precedenti.
Lo stesso giorno, sulla rete televisiva pubblica PBS, viene trasmessa
la prima dichiarazione pubblica di Clinton sul caso; la PBS
è una rete molto piccola, che diffonde solo programmi
culturali e un telegiornale con poche notizie ma molti approfondimenti,
della durata di un ora: una sede, quindi, giornalisticamente
prestigiosa. La difesa di Clinton si gioca soprattutto sull’uso dei
tempi verbali sottolineando con l’uso del presente (“la cosa
non è vera”), per affermare che al momento non
c’è una relazione con la Lewinsky, senza fare affermazioni
sul passato. Il film di Levinson precede di poco la notizia
dello scandalo
Clinton-Lewinsky. Come dire: la fantasia supera la realtà.
Ma questi due fatti – uno di fiction ed uno reale –
hanno messo in luce un tema già caro alla fantascienza
più dirompente e satirica: la simulazione. Nel film un
evento di cronaca viene simulato, viene dato in pasto al pubblico
spacciandolo per vero. Siamo lontani insomma dai tempi del WaterGate,
lo scandalo politico scoppiato sempre negli Stati Uniti nel 1972, che
portò alla richiesta di impeachment e, poi, alle dimissioni
del Presidente Nixon. Qui siamo dalle parti di un fenomeno che
ormai è
entrato nel costume civile ed è stato accettato, senza
riserve o particolari proteste, da tutti: pubblico e mondo del
giornalismo. Stiamo parlando della spettacolarizzazione
dell’informazione. Un fenomeno che Aldo Grasso spiega così:
Da un
po’ di
tempo, nel giornalismo televisivo l’effetto spettacolare
è prevalso sui contenuti dell’informazione. E
questo ha complicato non poco i parametri di giudizio. Un tempo, ad
esempio, un giovane che si avviava alla carriera giornalistica sognava
di diventare una ‘grande firma’, come Indro
Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca. Adesso il suo ideale
è una «faccia famosa», Bruno Vespa o
Emilio Fede e Enrico Mentana. E a ragione: con minor fatica e
competenza si riscuote maggior successo. Basta
infatti accendere il televisione per accorgersi che
è andato in crisi il giornalismo tradizionale e sta
trionfando il giornalismo varietà. La tendenza alla
spettacolarizzazione ha investito tutti i generi televisivi producendo
programmi ibridi, specie quelli informativi.
Questa lucida analisi del critico televisivo del Corriere
della Sera non può non essere condivisa e coincide
anche con la scomparsa di un genere giornalistico che ha contribuito
non poco a formare le coscienze di decine e decine di
lettori-telespettatori: l’inchiesta. Ogni qualvolta
balza agli onori della cronaca nera un evento
delittuoso, scatta l’assedio dei media e una vera e propria
narrazione dell’evento. Ma quali i motivi di questa
spettacolarizzazione dell’informazione? E come è
scomparsa (ma e poi davvero così?) l’inchiesta
giornalistica? E vero, come sostengono in molti, che Striscia
la Notizia è, paradossalmente, il miglior
telegiornale in circolazione? E le inchieste de Le Iene
sono davvero più graffianti di quelle sporadiche effettuate
dai veri telegiornali e rotocalchi d’informazione? Proviamo a
riflettere. Se volessimo inquadrare dal punto di vista storico
l’informazione spettacolo, probabilmente il primo esempio di
tale fenomeno è la famosa foto del miliziano spagnolo che
muore di Robert Capa. La foto venne scattata durante la Guerra Civile
Spagnola (1936-1939) e pubblicata, per la prima volta, sul settimanale
francese Vu il 23 settembre del 1936. Il suo
impatto fu tale che la famosa rivista Life la
comprò per il suo numero del 12 luglio del 1937. Oggi,
sappiamo che la foto dell’uomo, apparentemente colpito da una
pallottola, è un falso: il soldato semplicemente stava
cadendo. A trarre in inganno probabilmente furono le didascalie delle
due riviste che diffusero per prime la foto. Quella di Vu
recitava: “... petto al vento, fucile alla mano, una
pallottola fischia, un bellissimo fratricidio e il loro sangue viene
bevuto dalla terra madre”. Quella di Life
invece: “La macchina da presa di Capa coglie un soldato
spagnolo nel momento stesso in cui viene abbattuto da una pallottola in
testa davanti a Cordoba”. Qualche anno
più tardi, nel 1938, La
guerra dei mondi di Orson Welles, il radiodramma tratto
dall’omonimo romanzo di fantascienza di H.G. Wells, che
l’allora giovane attore e regista portò alla
radio, capovolse la questione: lo spettacolo divenne informazione. Come
è noto un annunciatore anonimo interruppe le normali
trasmissioni radiofoniche con la notizia che i marziani erano sbarcati
nel New Jersey. A questa notizia seguirono di volta in volta altre
comunicazioni, tra le quali un discorso drammatico del Ministro degli
Interni.
Milioni di ascoltatori credettero alla storia e ne derivò un
panico generale: la gente fuggiva in tutte le direzioni, dalle
città in campagna o dalla campagna in città.
Mentre gli Stati Uniti erano in preda al panico Welles, ignaro,
continuava la sua trasmissione e scoprì ciò che
era accaduto soltanto l’indomani mattina. Se la foto di Capa
è stata erroneamente
interpretata, di certo non lo sono state altre forme di
spettacolarizzazione dell’informazione, soprattutto di quella
in tempo di guerra. Antonio Ricci
riporta di un caso esemplare avvenuto durante la
guerra nel Golfo: Se lo spettacolo non
c’è lo si costruisce. Esemplare, a questo proposito, il cronista della Cnn che,
durante la guerra nel Golfo, in collegamento da un albergo di Tel Aviv,
fingendo un imminente attacco iracheno con i gas, rifiutava, nonostante
i perentori inviti dello studio centrale, di indossare la maschera
antigas, pur di continuare l’eroica telecronaca. Scoprimmo la sceneggiata solo rivedendo le immagini alla
moviola: mentre l’«eroe» tentava di
mettersi spalle al muro per guadagnare un primo piano, in un angolino
del teleschermo erano apparse per un attimo alcune persone
tranquille senza maschere antigas.
In Italia, il caso più
eclatante – e probabilmente quello che ha dato il via alla
cosiddetta tv del dolore – è stato quello di
Vermicino. Un bambino di nome Alfredo Rampi, detto Alfredino,
è stato il protagonista di un tragico fatto di cronaca dei
primi anni ’80: cadde in un pozzo artesiano largo 30 cm e profondo 80
metri nelle campagne della località di Vermicino, nel
territorio del comune di Frascati. Il dramma fu seguito tramite una
diretta televisiva non stop lunga 18 ore a reti Rai unificate.
L’Italia intera rimase in ansia a seguire l’evolversi della
situazione: si stimò che più di 21 milioni di
persone avessero seguito alla televisione la straziante vicenda. Sul
luogo si portò anche l’allora Presidente della Repubblica
Sandro Pertini. Pochi, in quel momento, si resero conto di
ciò che stava accadendo: il dramma, l’evento
doloroso, si stava trasformando in spettacolo, in quella che poi
sarà chiamata televisione del dolore. Nasceva
così anche in Italia l’informazione spettacolo. Ancora, Grasso ha così descritto Enzo Biagi, uno
dei grandi del nostro giornalismo, considerato il maestro di un
giornalismo d’altri tempi, quando era l’inchiesta
lo strumento principale del mestiere: “Dagli esordi
televisivi fino agli anni recenti, segnati dal trionfo del giornalismo
spettacolo, Biagi si è sempre ostinato a proporre lo
spettacolo del giornalismo”. Una descrizione che rende omaggio a Biagi, ma anche ad un modo
di fare giornalismo che se non sta scomparendo, comincia a segnare il
passo a tutto vantaggio del giornalismo spettacolo. Il
varietà ha invaso le news. Prendiamo ad esempio una
trasmissione come Porta a porta condotta da Bruno
Vespa. Già la sigla ci annuncia lo spettacolo sulle musiche
della colonna sonora del film Via col vento.
Accanto al politico di turno o all’esperto, nel talk show di
Raiuno fanno capolino attrici e soubrette (con relative gambe in
mostra) che non disdegnano di dire la loro su una notizia oggetto di
discussione o di dichiarare la propria simpatia per questo o quel
politico.
Ma Porta a porta non è il solo
esempio di spettacolarizzazione delle informazioni. La vita
in diretta, su Raidue, il rotocalco di Canale 5 Verissimo,
passano senza nessun timore da un servizio su un omicidio al gossip
più scatenato. Per legittimare il tutto si “usano” i
giornalisti dei telegiornali. Il meccanismo è molto
semplice: si prende un mezzo-busto di un Tg e lo si mette alla guida di
un programma in cui ai balletti e alle canzoni tipiche del
varietà si alternano servizi giornalistici come quelli che
si vedono nei telegiornali). Alberto Castagna è stato uno
dei primi a lasciare la poltrona del Tg2 per diventare
conduttore-presentatore. Così come, oggi, Michele Cocuzza
– anch’egli anchorman del telegiornale di Raidue -
è il conduttore di La vita in diretta,
format di successo a metà strada tra intrattenimento puro e
informazione. La spettacolarizzazione dell’informazione, a
cominciare dai Tg, è un fenomeno nato più o meno
alla metà degli anni Novanta. Tutto è iniziato
però sulla carta stampata. Titoli sempre più
forzati e allarmanti, foto grandi e a colori. La notizia si allarga a
dismisura sulle prime pagine dei giornali, usando tutto lo spazio che
il giornalista gli concede. L’obiettivo (evidentemente
sbagliato) era quello d’inseguire la televisione. Ma in Tv la
notizia scorre lungo l’asse del tempo. Si deve tenere desta
l’attenzione del telespettatore. E allora ritmo e
brevità sono le regole fondamentali di chi fa informazione
sul piccolo schermo. Tutto, anche le notizie, dunque, devono diventare
story, devono appassionare chi guarda il programma. Questo
“sceneggiare la cronaca”, come ha descritto il
fenomeno la sociologa Milly Buonanno, ha ovviamente due direzioni: una
notizia viene trasmessa come se si trattasse di una fiction, le
fiction sono sempre di più tratte da fatti (molto spesso
drammatici) realmente accaduti. Tutto ciò è coinciso anche con la
“morte” dell’inchiesta, un genere
giornalistico che sia sui giornali che in Tv ha sempre trovato un suo
spazio ben definito.
In un qualsiasi manuale di giornalismo alla parola inchiesta
possiamo leggere una definizione più o meno di questo tipo:
una serie di servizi con particolari indagini su situazioni, fatti o
problemi con unità di argomento. Ovviamente le inchieste si
dipanano in più puntate proprio per dare spazio
all’approfondimento. Molti osservatori del mondo dei
mass-media, a cominciare dagli stessi giornalisti, sostengono che oggi
l’inchiesta è ormai scomparsa dalle pagine dei
giornali. Il motivo è da un lato il sempre meno spazio
disponibile sui quotidiani e sugli altri giornali, dall’altro
il giornalismo moderno che ha nella brevità e nel ritmo due
tratti irrinunciabili. I quotidiani, poi, nel loro inseguire la
televisione, scimmiottano il piccolo schermo attraverso grandi foto e
titoli, ma anche spettegolando sui protagonisti e personaggi del gossip
televisivo. Il problema vero è che la maggior parte dei
giornalisti lavora prevalentemente su informazioni di seconda mano, e
quasi nessuno prova ad approfondire l’informazione ricevuta.
Da questo processo è derivata la morte
dell’inchiesta che ha avuto ripercussioni anche sulla
società civile.
La
«morte» dell’inchiesta – nella
televisione e nei giornali – ha provocato un danno
gravissimo: non potendosi più rispecchiare e riconoscere
nelle inchieste sociali dei media, la società civile
è stata colpita da una profonda crisi
d’identità che non può essere surrogata
dai numeri asettici delle statistiche e soprattutto dai sondaggi
d’opinione in tempo reale, moneta altrettanto falsa usata
abitualmente nei programmi televisivi in chiave spettacolare. Ancora
più gravi sono le conseguenze per le giovani generazioni le
quali, private di uno strumento che mostri in maniera attendibile la
loro condizione e il contesto sociale in cui esse vivono, finiscono, in
mancanza d’altro, per identificarsi con gli stereotipi della
pubblicità e con quelli dei fatti di cronaca, dove fa
notizia chi getta sassi dai cavalcavia o si schianta sulle strade la
notte del sabato. Sono gli stessi giovani che, a causa di una
televisione che ha rimosso la storia sociale, rischiano seriamente di
diventare come quei vecchi arteriosclerotici che conservano la memoria
del passato remoto ma ignorano ciò che è accaduto
nel passato recente e, soprattutto, ciò che accade, oggi,
intorno a loro. Oltretutto, i giovani non hanno più la
possibilità di apprendere alcunché nemmeno dalla
strada, perché le strade sono ormai non più luogo
pubblico d’incontro, ma percorsi d’interconnessione
di luoghi privati.
In realtà, come
già osservato da alcuni critici televisivi,
l’inchiesta ha cambiato casa, si è trasferita
dalle pagine dei giornali ai varietà. In America, ad esempio, è il regista Michael Moore
a parlarci di un’America dalle mille sfaccettature e vera -
rispetto all’immagine di paese forte e altamente democratico
proposta dell’establishment governativo -, attraverso le sue
inchieste corsare che hanno preso la forma di documentari apprezzati
soprattutto all’estero. In Italia, invece, sono forse Striscia la notizia
e Le Iene a fare inchieste giornalistiche. Sono gli
autori e i conduttori di queste trasmissioni a fornire un tipo di
informazione che va oltre le fonti, per investigare seriamente e andare
al di là della notizia in sé. Ma cosa s’intende per giornalismo
d’inchiesta?
La critica
è divisa sulla definizione del giornalismo d’inchiesta. Per
i «puristi» a fare la differenza è il
lavoro del reporter: per essere investigativo, deve essere approfondito
e legato all’indagine del cronista, che deve analizzare documenti e
intervistare testimoni. [..] Altri studiosi hanno invece messo
l’accento sul prodotto finale: l’inchiesta è la rivelazione
di qualcosa ignoto al pubblico, anche se il giornalista si è
limitato a riassumere un rapporto riservato del governo o l’atto di
accusa di un procuratore. […] Quello che conta, alla fine,
è l’attendibilità delle dichiarazioni: l’autore
di un’inchiesta raccoglie più fonti possibili per mettere
insieme elementi inconfutabili su un tema di rilevanza pubblica di cui,
spesso, qualcuno vuole tenere segreti alcuni particolari.
Il 7 novembre del 1988
c’è l’esordio su Italia 1 di Striscia
la Notizia, un velocissimo telegiornale satirico con un
programma ambizioso: “Tentiamo l’impossibile: battere la
comicità di Bruno Vespa”. Conducono in studio
Gianfranco D’Angelo ed Ezio Greggio. La regia è di Beppe
Recchia. Nel dicembre dell’89 il programma passa da Italia 1
a Canale 5. Il programma diventa un vero cult, raggiungendo ben presto
una media di telespettatori intorno ai 9 milioni. Gli sponsor fanno a
pugni per poter promuovere i loro prodotti all’interno di
Striscia. Antonio Ricci è l’ideatore dello show.
Ricci si è fatto le ossa, televisivamente parlando, con
programmi come Te la do io l’America, Te
lo do io il Brasile, con Beppe Grillo, e Drive in. Giorno per giorno, si seguono e commentano i fatti salienti
del Paese, dalla politica all’informazione: scoop, papere, errori,
clamorosi falsi di un universo mediatico in perenne fermento. Il tutto
cucinato tra una gag e l’altra dei due conduttori e i languidi
siparietti delle veline, ragazze che ballano tra un servizio e
l’altro. Striscia però non
è soltanto un quotidiano satirico e dissacrante, spesso,
infatti, si trasforma in un sagace osservatore del costume, in uno
smascheratore impietoso grazie alle missioni dei suoi "inviati", primo
tra tutti l’irriverente Gabibbo, il pupazzo diventato idolo dei
più piccoli ma anche fustigatore dell’Italia pre e
post Duemila. Resta inteso che Striscia la notizia non
vuole essere né un telegiornale né un deposito di
saggezza e verità perché - come sostiene Antonio
Ricci – “la televisione è
finzione” e nella categoria rientra senz’altro anche la sua
trasmissione. Non c’è dubbio, però, che
Striscia si è fatta carico, attraverso la
maschera della satira, di fare del giornalismo d’inchiesta.
Lo dimostrano i tanti casi denunciati, dalla recente tele-truffa che ha
visto coinvolta Vanna Marchi ai tassisti che fanno pagare salatamente
le corse a sprovveduti stranieri in visita nel nostro Paese, fino ai
maltrattamenti subiti da cani da parte di fantomatici gestori di
canili. Tra i servizi più clamorosi, lo scoop del Gabibbo
che mandò in onda le immagini dei moduli abitativi della
Protezione civile che giacevano inutilizzati mentre tanti terremotati
dell’Umbria vivevano in roulotte e tende. La Corte dei conti
aprì un’inchiesta in merito. L’elenco
sarebbe lungo. Ci limitiamo a segnalare che mentre i giornalisti
restano sempre più saldamente davanti ad un monitor a
selezionare le notizie, gli inviati di Striscia la Notizia
vanno letteralmente a caccia di notizie e con vari servizi –
seppur in forma satirica – costruiscono delle vere e proprie
inchieste.
Dal 1988 sono passati tanti conduttori e veline, famosi ospiti
internazionali del mondo del cinema e della musica, centinaia di tapiri
consegnati (il premio consegnato ai Vip che cadono momentaneamente in
disgrazia), anticipazioni sui risultati del Festival di
Sanremo, tantissime denunce, ma mai una condanna. C’è un rapporto consolidato tra il
pubblico e lo “strano” telegiornale in cui
l’opinionista è un pupazzone rosso con l’accento ligure che
a furia di scarpinare nell’Italia delle piccole e grandi ingiustizie ha
due piedi come cocomeri. I telespettatori, ad esempio, sono invitati a
partecipare telefonando al numero verde, segnalando via Internet, fax o
chiamando l’S.O.S. Gabibbo, per far conoscere le malefatte ai danni dei
cittadini più deboli, gli errori e gli strafalcioni dei
giornalisti della carta stampata e della Tv, le magagne edilizie, gli
“inciuci” politici e chi più ne ha
più ne metta. Un rapporto di fiducia che i sondaggi e i dati
di ascolto consacrano ad ogni occasione: Striscia
è indicato come il più credibile da quasi
metà degli italiani. Non di rado, però, un cortocircuito mediatico
avviene sugli schermi televisivi. Capita quando il conduttore di turno
del TG5, alla fine del tempo concesso, prima di congedare il pubblico,
apre un canale di comunicazione con i due conduttori di Striscia La
Notizia. L’intento è chiaro: traghettare i
telespettatori del TG5 verso la trasmissione di Ricci. Il conduttore
del telegiornale (quello vero) chiede ai conduttori del telegiornale
(di finzione?) qual è il menu della puntata odierna. Niente
di anormale, un semplice scambio di cortesie fra due programmi della
stessa rete, un avvicendamento nel palinsesto. Ma uno spettatore poco
attento può andare in confusione. Già
perché capita semplicemente che tra i servizi che il tg
satirico di Ricci sta per mandare in onda ve ne siano alcuni che
possono tranquillamente figurare nel TG5. Prendiamo il caso mediatico
di Vanna Marchi, guarda caso anch’essa protagonista di un
pezzo della storia della televisione. Il 27 novembre 2001, Striscia
la Notizia smaschera la telembonitrice, la figlia Stefania e
il mago Do Nascimento. Qualche giorno dopo la procura di Milano apre
un’indagine sul caso Marchi/Do Nascimento e il 24 gennaio 2002 Vanna
Marchi viene arrestata con la figlia Stefania e rimangono in
carcere fino al 25 marzo quando ottengono gli arresti domiciliari. Nel
marzo 2002 comincia il processo. Il 3 aprile 2006 Vanna Marchi e la
figlia Stefania Nobile sono state condannate a due anni e sei mesi di reclusione
nel processo-bis per truffa aggravata davanti alla prima sezione penale
del Tribunale di Milano: le due donne e gli altri imputati sono stati
inoltre condannati a risarcire alcune delle vittime delle truffe per un
ammontare di quasi 40.000 euro. Il 9
maggio dello stesso anno la Marchi, il suo convivente Francesco Campana
e la figlia furono nuovamente condannati in primo grado dal Tribunale
di Milano (stavolta per associazione per delinquere finalizzata alla
truffa aggravata), con condanne rispettivamente di 10, 4 e 10 anni, e
al risarcimento delle vittime (oltre 2 milioni di euro). Risarcimento
reso in buona parte possibile dal sequestro di varie
proprietà immobiliari intestate alla figlia Stefania Nobile.
Il processo d’appello è tutt’ora in
corso.
Per tutto questo periodo, Striscia la notizia
ha scandito l’informazione su questo caso. Erano i
telegiornali – non solo quelli di Mediaset – che
erano sempre un passo indietro al tg satirico di Canale 5. Un
cortocircuito paradossale se si pensa che all’origine Striscia
è una trasmissione di intrattenimento e non di informazione. Qualcosa di simile accade con le inchieste de Le Iene,
che spesso sono oggetto di “informazione” per i
quotidiani, o di censura da parte dell’Authority per la TV. Completo nero, cravatta scura su camicia candida, occhiali da
sole e un’arma micidiale: il microfono. Le Iene si presentano
così, argute e irriverenti, pronte a svelare le piccole e
grandi magagne del Paese Italia. Colgono i vip di sorpresa, spesso in
situazioni imbarazzanti; denunciano a colpi di ironia le manie di
protagonismo, gli sprechi, le macchie dello showbiz. Come Enrico Lucci.
Bombardano i politici di turno con domande dirette e richieste
concrete, senza temere di sommergere i loro silenzi con grasse risate.
Come il trio Medusa. Danno prova di giornalismo estremo e trasformismo.
Come Marco Berry. Somatizzano le insulsaggini di tanta cronaca
nostrana, tramutandosi in minacciosi mostri verdognoli. Come Giulio
Golia. Vanno sempre a caccia di scoop.
Come Alessandro Sortino. Sono anche loro, in qualche modo, i figli di un giornalismo
d’inchiesta che sembra, in questo caso, aver messo i panni
del cabaret. Non è un caso se due delle iene, Alessandro
Sortino e Enrico Lucci, siano davvero dei giornalisti. Anche Le Iene, come Striscia,
è riuscita ad intercettare gli interessi delle persone
normali e a riproporli in modo schietto e con un tono pulp in
televisione, catturando l’attenzione dei giovani, un target
tanto ambito ai pubblicitari. Che Striscia e Le Iene
siano una fonte alternativa d’informazione e forniscano punti
di vista differenti, con l’arma dell’ironia e della
satira, è del tutto legittimo, ma che rappresentino sempre
più spesso le uniche forme di un giornalismo degno di un
paese civile e democratico, è altra questione. E, diciamolo
pure, è un fatto di cui vergognarsi, prima di
tutto.
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