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[ conversazioni ]
Trevor Watts, un re del free sempre alla scoperta di nuovi regni musicali di Claudio Bonomi |
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Un altro tuo duo molto
importante è quello con il batterista Liam Genockey, ma non
ne esistono registrazioni. Vuoi descrivere brevemente questa
esperienza?
Io ho delle registrazioni di questo duo, magari le
risentirò e chissà che non ne trovi abbastanza da
pubblicare un disco. Per me è stato un duo molti importante
anche perché è uscito da Amalgam. Liam aveva un
senso del ritmo molto forte, ma le sue radici sono nel rock e nel blues
e per questo il duo era molto diverso dai precedenti, ne senso che
lasciammo la musica molto aperta e libera, anche se aveva un contenuto
ritmo-melodico forte ma meno elaborato e strutturato che non il duo con
Jamie, e meno astratto di quello con John. Una via di mezzo.
Come ripensi alla musica che hai fatto con lo Spontaneous Music Ensemble?
Non ripenso spesso al passato. Sono il tipo di persona che
guarda sempre avanti. Ma quel periodo è stato importante per
tutti noi che partecipavamo allo SME, perché ci permise di
trovare cose nuove e di sperimentare e attraverso il lavoro e la fatica
trovare voci personali come quelle di Evan Parker, di Derek Bailey, di
Paul Rutherford e, se posso, la mia stessa. Abbiamo combattuto e
litigato, ma si sa che le nascite spesso avvengono nel dolore.
Dicci qualcosa di due tuoi amici che non ci sono più, John Stevens e Paul Rutherford. L’anno scorso sono andato al funerale di Paul. Mi ha
rattristato molto vedere quanto fosse diventato infelice. Anche John
era infelice negli ultimi anni, pareva che in qualche modo non avessero
più la forza di combattere. John, in
tutto
quello che faceva, metteva
un’energia
maniacale, e io avevo come la sensazione che corteggiasse la morte. La
sua vita era una tensione mai interrotta, così pareva; da
parte sua, Paul ha sempre sofferto di depressione. In realtà
sono tanti i musicisti con qualche problema, e in un certo senso la
loro creatività è da lì che viene.
Un’altra esperienza fondamentale è stato Amalgam. Che giudizio dai, oggi, di quell’esperienza “free” e creativa? Quelle esperienza d’improvvisazione libera
o,
com’è il caso di Amalgam, di improvvisazione e di
libertà all’interno di una struttura musicale,
nonché la sperimentazione dell’aggiunta alla mia
voce di chitarra noise (Keith Rowe), basso funky
(Colin McKenzie) e drumming jazz - jazz-rock con
Liam, al momento sembrava perfettamente logica. Credo ancora che i modi
di fare musica siano molti, e ancora mi piacciono le combinazioni che
esorbitano dalla norma e dalla convenzione oppure, nel caso di
complessi convenzionali tipo sax, batteria e basso, che cercano di
interpretarli in maniera originale. Insomma, erano tutte manifestazioni
delle mie convinzioni sulla composizione musicale. Da questo punto di
vista quelle combinazioni sono strettamente collegate a quanto vado
facendo oggi.
La tua evoluzioni ti ha portato dalla ferocia “free jazz” dei tuoi primi dischi con lo Spontaneous Music Ensemble al più controllato visrtuosisimo di quelli più recenti, quali Ancestry con Jamie Harris. Com’è cambiato in tuo approccio all’improvvisazione? È cambiato così: da giovane mi
esercitavo molto ma ero persuaso (erano i tempi in cui
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l’improvvisazione era più radicale di oggi) di dover cominciare ogni mia esibizione con la mente sgombra, ricettivo a ogni stimolo del momento. Oggi, mi esercito sempre, ma su cose che mi possono poi servire nell’improvvisazione e per capire in ogni dettaglio tutte le strutture che decidiamo di sviluppare. Se mi guardo alle spalle capisco che il mio atteggiamento era piuttosto insolito, nella fede che avevo nel cominciare, diciamo così, dalla tela vuota. Altri musicisti, anche nel cosiddetto mondo dell’improvvisazione libera, già facevano quello che io faccio adesso. Lavoravano su cose che avrebbero potuto fare nel contesto dell’improvvisazione. Ingenuamente, io aspiravo a una forma più pura. Ne consegue che per i critici e il pubbico era più difficile ascoltare e dare un giudizio di valore. Sei un pioniere leggendario del jazz britannico e hai avuto relazioni musicali con musicisti dall’avanguardia al mainstream. Hai suonato anche con molti americani quali Steve Lacy, Archie Shepp, Don Cherry e altri. Quali ti hanno influenzato di più? Spero che mi si possa considerare, almeno, come un
pioniere
del jazz europeo, non solo di quello britannico. Una relazione
importante si è verificata nel gruppo con il trombettista
Bobby Bradford, che precedette Don nel quartetto di Ornette. Ma quando
arrivai a suonare con questi musicisti le mie influenze le avevo ormai
ricevute. Cominciai ad ascoltare il jazz negli anni Quaranta,
perché mio padre aveva vissuto in Canada e negli Stati Uniti
fra gli anni Venti e Trenta. Anzi, aveva addirittura un passaporto
canadese, come ho scoperto solo ultimamente. Dunque in casa avevamo
tutti quei 78 giri di Duke Ellington, Tex Beneke, Artie Shaw, Nellie
Lutcher, Bob Crosby, Art Tatum ecc. Mi sembra insomma di aver sempre
vissuto con quella musica e, ora, di averne una comprensione immediata,
perché vi sono stato esposto e l’ho suonata
così a lungo. Preferisco quindi non indicare
un’influenza, ma piuttosto la somma dell’ascolto di
centinaia di musicisti in tutti questi anni. Sento una forte
affinità con questa musica, ma la musica mi ha sempre detto:
suona come te la senti, studia, beninteso, ascolta le cose del passato,
ma fa’ come ti senti. Questo è strano,
perché c’è una casa di produzione
indipendente, qui, che si chiama Somethin Else Production, che produce
tutti i programmi di jazz per la BBC, e hanno deciso, nella loro
infinita saggezza, che la mia musica non è più
jazz! Per questo mi trovo, di fatto, bandito dalla programmazione jazz
della BBC.
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