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[ conversazioni ]
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Hugh Hopper, quando il basso suona proprio in alto
di Claudio Bonomi
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foto di Naujo Nakamura |
Hugh Hopper è forse, come scrive il superesperto Aymeric Leroy sul sito Calyx, la figura
centrale di tutta la scena di Canterbury. Fluido, circolare e geometrico come
il suo basso, ha attraversato per il lungo e per il largo tutto l’universo musicale che prende il nome dalla città del Kent. Il suo primo vero gruppo sono i Wilde Flowers (1964-66) con il
fratello Brian, Richard Sinclair, Robert Wyatt e Kevin Ayers, ma quello con cui
lascia un’impronta indelebile come compositore e bassista (disegnando linee melodiche
memorabili con il suo
fuzz bass) sono i Soft Machine con cui aveva iniziato a lavorare come road manager.
Dal 1969 al 1973, vive da protagonista quella che è considerata la stagione d’oro del gruppo: dallo psichedelico Volume Two fino alla svolta jenkinsiana di Sixth. E, una volta spogliatosi dell’abito da macchinista, intraprende, parallelamente a una carriera solistica
(inaugurata nel 1973 con
1984, album che lo consacra anche come sperimentatore alle prese con distorsori,
phaser, wha-wha e
tape loops), una fitta e sapiente ragnatela di collaborazioni e progetti.
Raccontarli tutti è impossibile, ma è doveroso citarne alcuni: Rock Bottom di Robert Wyatt, Cruel But Fair (con Elton Dean, Keith Tippett e Joe Gallivan), Steam Radio Tapes di Gary Windo, la parentesi jazz europea con Carla Bley, Two Rainbows Daily (in duo con Alan Gowen), gli In Cahoots di Phil Miller, gli Equip’Out di Pip Pyle, il “periodo olandese” con gli Hopper Goes Dutch, la collaborazione transalpina con il chitarrista
Patrice Meyer,
Mashu con Mark Hewins e Shyamal Maitra, il progetto Oh Moscow di Lindsay Cooper, gli incroci statunitensi con Kramer, Caveman Hughscore, Bone
e, saltando agli ultimi tempi, il quartetto Clear Frame (è appena uscito un cd omonimo pubblicato dall’etichetta Continuity), i Soft Machine Legacy, i Brainville3 (con Daevid Allen e
Chris Cutler), il Delta Saxophone Quartet e il duo Humi con la
cantante-tastierista di origine giapponese Yumi Hara Cawkwell.
Iperprolifico, dunque, se si eccettua una parentesi di riflessione tra il 1978
e il 1984, e abile nel mostrare in quasi ogni frangente una lucidità fuori del comune nel voler stare al passo con i tempi e dialogare con partner
più diversi. Il tutto senza rinnegare un passato che forse meglio di altri della
sua generazione ha saputo metabolizzare e rigenerare con maestria nei contesti
più diversi.
Negli ultimi anni sei stato molto occupato e coinvolto in una girandola di
progetti musicali e registrazioni (per esempio, i
loopscape cds usciti per la Burning Shed). Potremmo dunque dire che musicalmente parlando
questo
è il periodo più felice della tua carriera?
Sì, credo che sia corretto. Quand’ero più giovane avevo una vita musicale molto più conflittuale con una band fatta di giovani dove ognuno cercava di mettere le
proprie aspirazioni al primo posto.
A proposito dei tuoi ultimi progetti, puoi parlarci dei Clear Frame?
L’etichetta Continuity del batterista Charles Hayward e del fotografo Lesley Evans ha appena pubblicato l’album Clear Frame con una formazione “all star” che ti vede insieme a Lol Coxhill, Charles Hayward, Orphy Robinson e Robert Wyatt. Si tratta di un progetto estemporaneo? Cè la possibilità di vedere questa formazione anche in concerto?
In realtà siamo assieme da più di due anni e abbiamo già suonato a Londra e recentemente anche in Svizzera e Austria.
Per quanto riguarda l’album in studio, abbiamo invitato Robert Wyatt a registrare alcune parti con la sua cornetta. Difficilmente Robert ha voglia di suonare dal vivo e pertanto è improbabile che faccia dei concerti con noi. |
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