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E la produzione di oggetti
estetici è un modo – alla fin fine – per sperare di sfuggire al rischio
dell’oblio. Problema esplicitato, all’inizio
della fase matura della modernità, la “Grande Guerra”, da un filosofo,
Rosenzweig, che, come ricorda Cavicchia Scalamonti,[7]
proprio sulla base dell’esperienza di soldato in trincea, trae la
consapevolezza che i sistemi esplicativi omnicomprensivi e “razionali” prodotti
dalla modernità durante il suo percorso falliscono di fronte ad una evidenza:
quella dell’esplodere, grazie a fenomeni catastrofici e definitivi come le
guerre, di una emozione primigenia, precedente a tutto, una angoscia di morte che le varie
formazioni sociali hanno cercato di disinnescare e occultare in varie maniere,
ma che finisce per riemergere prepotente.[8] Questo riguarda i singoli, ma
riguarda anche, credo, il genere
umano nella sua totalità. Ma ne esistono altri, quelli
dedicati a oggetti non meno significativi: i musei della cultura e della
civiltà materiale – e quindi anche i musei della scienza. Trionfo del moderno, perché
l’epoca appena conclusa è stata quella che più di tutte ha condotto una
percezione del tempo dinamica, tale da distinguere fra tempo della tradizione,
dell’attuale, e del progetto. E ha conservato la storia e proposto l’avvenire
attraverso i musei, luoghi dove bisogna recarsi, con curiosità, attenzione,
concentrazione, a osservare e conoscere il mondo umano e quello naturale. Perché tutto lo sviluppo della
modernità è stato segnato dalla classificazione, dalla produzione, dalla
ricerca. A futura memoria, ma per noi
stessi. Ma ora siamo nella
postmodernità, in quel “terzo millennio”, in quel “2000” delle meraviglie,
identificato dalla fantascienza e dalla futurologia come sinonimo di futuro
realizzato. E inaugurato, non a caso, simbolicamente ma anche tecnologicamente,
dallo sbarco sulla Luna, e lastricato lungo i sentieri stellari dalle sonde
Pioneer e Voyager, e dalle loro targhe. Insomma, la Storia è finita. Non c’è più prospettiva. … siamo in presenza di un tempo che sembra essere senza più tempo, di
fronte a un tempo che trascura il passato e si disinteressa del futuro… Un
tempo che non significa più eterno ritorno come era il tempo arcaico, né un
accresciemnto continuo sfociato nell’idea di progresso così come è stato
concepito agli albori e lungo tutto il periodo storico caratteristico della
modernità… il solo scopo che sembra guidare gli uomini è quello di velocizzare
il proprio tempo fino ad annullarlo… (e) questo tipo di temporalità elimina
ogni fine…ogni possibile direzione… ogni senso.[10]
Ma se il lavoro di assegnazione
del senso alle cose è lo scopo della
produzione di cultura, e lo scopo di questa è fare i conti con la morte e con
il suo significato, dove finiscono percezione della mortalità e ricerca, almeno
simbolica, dell’immortalità? È vero, come scrive ancora
Bauman,[11] che
questa finisce, profana e triviale, nei quiz televisivi. Ma all’umanità non
basta. E gli incubi che ci avranno
cancellato. Come in quel piccolo capolavoro
del cinema di fantascienza che è Il
pianeta proibito,[12] in
cui gli uomini sbarcati su un lontano pianeta disabitato entrano in contatto
con la straordinaria tecnologia che gli abitanti di un tempo, ormai scomparsi,
hanno lasciato. Che però è anche quella che li ha distrutti, dando forma e
sostanza ai peggiori mostri del loro inconscio. Una bomba sempre innescata che
per poco gli astronauti non rischiano di scatenare di nuovo. Forse Topolino è meno
pericoloso.
[7] A. Cavicchia Scalamonti, La camera verde, Ipermedium, Napoli, 2003.
[8] F. Rosenzweig, La
stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano, 2005.
[9] Z. Bauman, cit., pagg. 215 e segg.
[10] A. Cavicchia Scalamonti, La morte, Ipermedium, Napoli, 2007, pag. 149.
[11] Z. Bauman, cit., pagg. 227.
[12] F. McLeod Wilcox, Il pianeta proibito, USA, 1956. cfr.
http://quadernisf.altervista.org/numero5/indexviaggio.htm
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