“Un’operina con l’ambizione di apparire brillante, una piccola girandola di fantasia, invenzione, umorismo e ironia. Oggi, rileggendo quei racconti lontani, mi dico: «Però, che ricchezza! Che inattese esplosioni di cortocircuiti, che immagini originali, che fuoco di fila di trovate, di gioco, di umorismo!». Senz’altro. Però in quelle pagine c’è anche qualcosa di torbido, disgustoso e addirittura ributtante”
(Gombrowicz, 2004).
L’autore di quei “racconti lontani” è Witold Gombrowicz e l’«operina» sulla quale si sofferma in un passaggio di Testamento è Bacacay, riapparsa in una nuova veste per il pubblico italiano, pubblicata da il Saggiatore, impreziosita con l’aggiunta di quattro racconti pubblicati in seguito su varie riviste e inediti nella nostra lingua. Prosegue in questo modo il viaggio temporale a ritroso nelle opere dell’immaginifico scrittore polacco iniziato dalla casa editrice milanese, con la supervisione di Francesco Matteo Cataluccio, avviato dalla riedizione di Cosmo, il suo ultimo romanzo, e giunto fino a Ferdydurke, scivolando indietro fino al 1937, quando uscì in Polonia (ma datato 1938), due anni prima del viaggio e la lunga sosta forzata in Argentina, passando per gli altri due romanzi, Trans-Atlantico e Pornografia, oltre all’inedito e privatissimo diario Kronos.
La nuova tappa è dunque Bacacay, il cui titolo nacque a Buenos Aires, quando Gombrowicz rimise mano a quella sua prima (e unica) raccolta di racconti, pubblicati nel 1933 con il titolo emblematico di Ricordi del periodo della maturazione. Erano sette storie in origine, ma quando venne il momento di ripubblicarli, la raccolta accolse altri tre racconti: Sulle scale di servizio (1937) Il ratto (1939) e Il banchetto (1953), più i due capitoli/siparietti provenienti da Ferdydurke (Filidor rimbambinito e Filibert rimbambinito). Inoltre, Gombrowicz rimaneggiò il mazzo originale, tagliando, riaggiustando, cambiando alcuni titoli e, appunto, modificò quello dell’intera raccolta in Bacacay, prendendolo a prestito dal nome della via dove aveva abitato nei primi tempi del suo lungo soggiorno nella capitale argentina. La nuova versione uscì in Polonia (da qui la trascrizione nel titolo originale: Bakakaj) nel 1957 e in qualche modo si liberava di vecchie ruggini tra l’autore e la critica che lo prese di mira all’epoca, bocciandone l’esordio proprio ritorcendogli contro il titolo del libro accusandolo di immaturità manifesta. In realtà gli diedero una mano nel dare vita al suo primo capolavoro, come ricordò egli stesso in Una giovinezza in Polonia:
“Mi tormentarono talmente con quella storia dell’immaturità che essa divenne il fulcro del mio libro successivo Ferdydurke e così mi trasformai un po’ alla volta in uno specialista di questa problematica e in un suo sacerdote”
(Gombrowicz, 1998).
Gombrowicz non ripartì da zero. Nei Ricordi del periodo della maturazione si manifestavano tutti i suoi fantasmi, le sue ossessioni e le sue manie, quel suo inimitabile modo di osservare il mondo, di scandagliarlo con spietata lucidità dissezionandolo in particolari assurdi, dando mostra di una pervicacia sconcertante, che parrebbe figlia dell’idiozia, se non fosse che poi tanto daffare approda a elaborate sintesi ammantate di filosofia. Quei suoi primi anti eroi sono lì a dimostrarlo con le loro annotazioni minuziose di inezie mirabolanti, con l’assillante lavoro del pensiero intorno a dettagli spesso sgradevoli che ne hanno catturato lo sguardo, dalle imperfezioni fisiche ai frammenti di oggetti, residui che occupano la scena all’interno di cornici grottesche, a loro volta particolari deformati dall’osservazione stessa.
La foto di Witold Gombrowicz sul passaporto quando si imbarcò per l’Argentina (1939).
Un’attività alacre e condita dalla verve polemica dell’autore, la sua insofferenza nei confronti dell’ordine costituito: la famiglia, le distanze sociali, le buone maniere, le relazioni tra i sessi, le norme di comportamento, la religione e il potere tout court. È una galleria di personaggi morbosi, viziosi, deboli, fallaci, ottusi e mentecatti. Ecco Il ballerino dell’avvocato Kraykowski, il primo dei racconti scritti da Gombrowicz, che confida al lettore anche di una fascinazione omosessuale vissuta non solo dall’allucinato ed epilettico protagonista della storia, ma presente già nell’autore da giovane. La storia è un crescendo di sottomissione, in fondo, alla propria infatuazione per un avvocato per il quale nutre folle passione al punto che finirà per dedicargli la propria salma. Tutto inizia mettendo il protagonista alle prese con le sliding doors quando per la prima volta insegue il suo feticcio amoroso, l’avvocato Kraykowski: “Presi una decisione: «Se girerà a sinistra ti comprerai L’avventura di Jack London, come desideri da tempo; se invece svolterà a destra non l’avrai mai e non ne leggerai neppure una riga, neanche se quel libro ti venisse regalato!»”. Il destino lo farà sprofondare nel delirio per il suo oggetto del desiderio. Il destino che avrebbe potuto alterare la linea temporale della vicenda Gombrowicz, se solo per qualsiasi motivo non fosse salito su quella nave.
“Io ero andato in Argentina per puro caso, per due settimane soltanto, e se per volontà del destino, la guerra non fosse scoppiata in quelle due settimane, me ne sarei tornato in Polonia”
(Gombrowicz, 1985).
Il grottesco stalker dell’avvocato, per tornare al racconto, è un personaggio che vanta già i tipici tratti gombrowicziani, a partire da quel buco nero dell’esistenza chiamata noia che fomenterà le sue storie sino alla fine, fino a Cosmo. Ecco cosa racconta di sé, l’ossessionante corteggiatore dell’avvocato Kraykowski:
“Un’altra persona al posto mio non avrebbe potuto dedicare sei o sette ore ad aspettarlo, ma io avevo tempo in abbondanza. Non avevo altra occupazione che la mia malattia, l’epilessia, per altro un’occupazione feriale, ai margini dell’esistenza quotidiana. In assenza di qualsiasi altro impegno, mi restava tempo da vendere”.
Uno studio scrupoloso di indizi inconsistenti, minimi è invece alla base di Un delitto premeditato, anticipando quella sorta di indagine metafisica sul niente che sempre in Cosmo sarà inscenata alla perfezione; il procedimento tra sciocchezze e balordaggine plasmeranno dal nulla un assassino e creeranno un presunto (in realtà si tratta di morte naturale) parricidio anticipando la ferrea logica dispiegata in Pornografia. Alterando il genere poliziesco Gombrowicz mette a confronto la volontà di ordinare il reale del soggetto con gli oggetti della realtà e i risultati dell’indagine sono al di sopra di ogni sospettabile esito.
Tutto si ribalta nell’universo gombrowicziano, ed ecco che in Il ratto, un sanguinario, efferato brigante, Uligano, si ritrova nelle grinfie di un ex giudice, Skorabkowski, anch’egli preda di un’ossessione: quella di dover imprigionare il furfante. “Catturarlo, acchiapparlo, imprigionarlo e in qualche modo metterlo a tacere divenne una necessità assoluta della sua mente limitata” e una volta acciuffatolo si diletta nel torturarlo, senza che però Uligano faccia una piega, senonché, alfine, salta fuori il tallone d’Achille di quell’omone rude e violento: “Non riusciva a sopportare un ratto!”. Inizia da quel momento una girandola di perversioni nel segno del terrore della rattità che porterà un ratto nella bocca della sua “adorata Maria”, la ragazzotta di campagna con lui fidanzata. Erotismo carico di perversità come solo Gombrowicz sapeva scriverne, per esempio in Verginità, storia di desiderio, corporalità e ritualità, che vede la maliziosa Alice attirare lo sciocco Pawel, il suo fidanzato, che vuol mantenersi vergine (e con lui Alice), a un banchetto sacro-amoroso invitandolo a rosicchiare assieme un osso abbandonato dal suo cane con qualche brandello di carne sopravvissuto al pasto del quadrupede:
[…] “Vieni, l’osso ci sta aspettando, andiamo dall’osso! Lo rosicchieremo insieme, ti va? Insieme! Io con te, tu con me! Guarda, ce l’ho già in bocca! E ora tu! Ora tu!”.
Una raffinata oscenità che si ritrova anche in Sulle scale di servizio, tutto incentrato sull’attrazione del rispettabilissimo protagonista (lo troviamo sul finire nelle vesti di sottosegretario di Stato) per i polpacci esuberanti e le grosse vene che decorano le gambe storte delle domestiche. Non è da meno il poco rassicurante Stefan Czarniecki quando rivolgendosi alla sua “adorata Jadwiga” le dice:
“Vedi quella rana? Giuro sul mio onore di soldato che te la infilo nella camicetta se non pronunci subito, del tutto seriamente e guardandomi negli occhi, le seguenti parole: «ciam-bam-biu, mniu-mniu, ba-bi, ba-be-no-zar»”.
Lei non riesce a trasgredire, troppa la vergogna e lui implacabile mantiene il giuramento. La ragazza impazzisce. Le relazioni uomo/donna sono sempre assai complicate nel mondo Gombrowicz. L’ostinazione sadica dell’ex giudice nel racconto Il ratto spadroneggia anche in Avventure (originariamente intitolato 5 minuti prima di addormentarsi), una storia di supplizi reiterati, fughe continue e inseguimento inesorabile. Al protagonista vengono inflitte punizioni iperboliche in una vicenda anche parodica nei confronti delle storie di avventure sui mari di Joseph Conrad, così come Eventi accaduti sul brigantino Banbury pare ispirarsi per vie tortuose, quei percorsi mentali lambiccati così tipici dello scrittore polacco, o quantomeno pare alludere alla celebre vicenda dell’ammutinamento del Bounty. È un lungo viaggio in mare durante il quale non ci sono in fondo reali accadimenti ma molto succede nella testa del protagonista che coglie segnali, prende nota di gesti, suoni e odori, subodora strane relazioni a bordo, ma di fatto nulla è comprovato, se non l’attitudine a fissarsi su minuzie e da qui a rappresentarsi una propria realtà dei personaggi gombrowicziani. Come afferma il protagonista in conclusione:
“[…] sin dall’inizio tutto era stato mio e io, io ero uguale a tutto il resto: il mondo esterno è uno specchio nel quale si riflette il mondo interiore!”.
Apparenze, maniere, forme, inganni, il corrotto e corruttibile re Gnulo cade fatalmente attratto e la sua corte con lui, al tintinnio degli spiccioli nella tasca dell’ambasciatore di una potenza nemica ne Il banchetto, mentre in altro contesto altrettanto nobile, ne Il banchetto dalla contessa Fumiga, riecco l’ambiguità morbosa, lo sdoppiamento dei piani di realtà. Qui il giovanotto a caccia di sapori e gusti aristocratici si ritrova emarginato per così dire dal basso, perché dalla contessa ci si diletta in un’orgia che ben si guarda dall’assaporare pietanze delicate e così si ritrova anche sbeffeggiato perché “Se uno ha un gusto diverso dal nostro / Giammai del tu daremo a quel mostro!” intonano i nobili commensali.
Bacacay, si è detto, includeva anche i due pirotecnici episodi provenienti da Ferdydurke, il romanzo nel quale formalizzò l’assunto che esistere non solo è essere visti ma anche che si esiste nel modo in cui si è visti e se si è visti di nascosto, se si è spiati, ne risulterà un profilo ancora più definito; soltanto specchiandosi in queste visioni si riuscirà a vedere sé stessi. Dentro la vicenda del trentenne Giuso retrocesso a fanciullo e scolaretto, Gombrowicz inserì due storie a metà tra l’apologo e la favola surrealistica, dall’andamento esilarante, condito da baruffe e burlandosi di ciò che comunemente si definisce relazione causa-effetto.
I quattro racconti che integrano e completano Bacacay (coevi dell’originaria raccolta Ricordi del periodo della maturazione) ribadiscono alcune delle fissazioni di Gombrowicz. Due tornano a frequentare la nobiltà e le sue malefatte: Il dramma dei baroni e Pampelan al megafono.
Nel primo fa capolino anche un sottofondo (finto) melodrammatico, tra passioni e nobili tradimenti, mentre nell’altro il dramma familiare e la Storia si incrociano e collassano assieme. Sono anche manifesti di una sofferenza malcelata da parte di Gombrowicz, quella di non appartenere all’aristocrazia ma di provenire dalla piccola nobiltà terriera polacca, un malessere che navigò con lui in Argentina dove si vantava di essere un aristocratico, appunto, provocando non poco disappunto in Jorge Luis Borges. Sembra di risentire oltreoceano i vaneggiamenti principeschi di Totò… Nel terzo racconto, Il pozzo (racconto grottesco), la chiave di lettura invece è già tra parentesi e vi si percepisce l’atmosfera iperbolica che di lì a poco esploderà in Ferdydurke. Il più interessante del mazzo è però Dal diario privato di Geronimo degli Umiliati, sorta di confessione di uno scrittore incompreso (un articolo gli è stato bocciato da un giornale) e dei suoi malesseri che tanto paiono raccontare il vissuto del giovane Witold ai tempi (siamo nel 1934), e quando scrive “se non sono capace di scrivere articoli colti destinati al pubblico, allora non mi sforzerò di scriverli, ma mi esprimerò lontano dalla gente, solo per me stesso, in un diario segreto, e non per gli astratti idoli della pubblica utilità, ma per il mio spasso e il mio interesse personale” pare anche preannunciare quel ripostiglio di intimità che sarà Kronos. D’altronde, se come sosteneva Martin Heidegger ogni pensatore non pensa che un unico pensiero (cfr. Heidegger 2014), un autentico scrittore non può che moltiplicare all’infinito le sue ossessioni.
Gombrowicz si impegnò a fondo nell’impresa.
- Witold Gombrowicz, Parigi Berlino: diario 1963-1965, E/O, Roma, 1985.
- Witold Gombrowicz, Una giovinezza in Polonia, Feltrinelli, Milano,1998.
- Witold Gombrowicz, Testamento, Feltrinelli, Milano, 2004.
- Witold Gombrowicz, Cosmo, il Saggiatore, Milano, 2017.
- Witold Gombrowicz, Kronos, il Saggiatore, Milano, 2018.
- Witold Gombrowicz, Ferdydurke, il Saggiatore, Milano, 2020.
- Martin Heidegger, Che cosa significa pensare? in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 2014.