Sulla vita adulta, l’amore
e il merito di appartenersi

Vivian Lamarque
L’amore da vecchia
Mondadori, Milano, 2022

pp. 160, € 18,00

Vivian Lamarque
L’amore da vecchia
Mondadori, Milano, 2022

pp. 160, € 18,00


“Dopo un po’/ che lo si guarda / il mare / può capitare / di non sapere più / dove guardare / è tutto uguale. / Ci vorrebbe / una siepe / per immaginare”.

Possibile che il limite di una siepe prometta una domenica, un oriente, la buona ventura, una matita e la sua rima, mentre il tempo si sfarina insieme alla placida bellezza delle cose già note? Forse, a tirare il fiato rispetto all’imprevisto, la vita pulsa più forte, ancora una volta. È questa la prospettiva di Vivian Lamarque nella sua ultima raccolta di poesie, L’amore da vecchia, per la collana Lo Specchio di Mondadori. Il titolo ha la voce irriverente di una poetessa che vuole partire dai suoi settantasei anni e ricambiare, come sempre ha fatto, alle verità della vita con la sua pacata ironia. La voce del verbo amare non si coniuga al passato, piuttosto si riempie di presente e, perché no, di futuro. In fondo, chi è abituato ad avere una siepe sempre in prospettiva, ha imparato a cercare qualcosa di imperdibile e inatteso nell’al di qua. Proprio così. Perché la Lamarque sembra aver vissuto un’esistenza intera a spostare la prospettiva di chi oltre la siepe seppe naufragare, e ha imparato in quei metri, neanche troppo quadrati, dell’al di qua ad amare le cose che restano. Una siepe è lo spazio dove ricalcare ricordi e farli combaciare, ricercare affetti e vederne la prossimità, scrivere di un dolore e farlo scivolare come un filo d’acqua. Una siepe rappresenta lo spazio dove dichiararsi inadeguatamente fieri di essere al mondo, eppure consegnare un sogno a una rosa nascente ai propri piedi nudi. Una siepe è una sorta di felicità prossima prima che futura. Chi una siepe non ce l’ha, non ha neanche il modo e la buona sorte di inventarsi mondi e perdoni.

La storia della Lamarque è fatta di più nomi e più cognomi, di due madri dopo un’adozione felice, di un secondo padre salutato troppo presto, di un nonno dal ruolo prestigioso ma dalle imposizioni troppo dure verso quella prima mamma costretta ad affidare la piccola, illegittima, a braccia nuove. Ai lividi del cuore Vivian ha replicato con la grazia di raccontarsi “il suo dolore come se fosse una favola” (Scarpa, 1996). E lo fa anche tra queste nuove pagine colme di spazio e di tempo. La parola “mamma”, pulsa in ogni altra raccolta di versi dell’autrice, ma qui risuona piuttosto nella consonante ripetuta del nome Miryam, sua figlia. Un’indicazione inedita rispetto al passato, in cui rintracciare una Lamarque più madre che mai, lei che di mamme ne ebbe due, quella “da fotografie con solo / figli tre e l’altra dov’è” e quella al cui addio, “si sarebbe scucito il guardaroba il mondo” (Lamarque, 2016). Se, difatti, nel passato le pagine dedicate a ciascuna delle madri si rincorrevano come i sentimenti di dipendenza e incertezza provati per entrambe, se nella dichiarazione sofferta “ora ho una mamma sola / (ma anche prima)” (Lamarque, 2002) si ammetteva una gratitudine e una solitudine condivise con lo stesso pudore, se la speranza prima era riposta “verso la sera della vita […] dove –forse- nessuno chiama / ne è chiamato” (Lamarque, 2016), ora Vivian è soprattutto la madre di Miryam.

“Miryam, mia bambina, mia rima
mia infinita mattina.  […]
Miryam mia piantina, mia rima”.

Perché Miryam è nostalgia del passato, di un clarinetto a suonare nell’aria, una corda a saltellare tra le rose, un calzino scomposto e un altro disciplinato su gambe di bimba. È presente di un flauto e di un piano a farsi eco sotto cieli più nuovi, tra un figlio e una figlia, a sua volta. È un pallone che vola nel domani, mentre Miryam custodisce la rima con Vivian nel giro del tempo. Amore di madre, dunque, che non dimentica mai quello di Vivian figlia nei ricordi del cinema, dove la mamma adottiva faceva la cassiera e le regalava lo spettacolo quotidiano delle immagini di luce sulla parete buia, dell’inizio dei suoni e di un viaggio.

“I tendoni rossi di velluto avvolgevano come mamme.
E un giorno, per caso, una sua mamma venne
a comprare il biglietto dall’altra. Come nei film”.

La magia scivola tra le poltrone del cinema e prende la forma di un film in cui lo schermo sembra accogliere Vivian bambina e farle dono di un copione impensato. Lei, la madre biologica, la madre adottiva, a ritrovarsi in una stessa sera più lunga e meno smarrita. Non a caso, altro amore che conta è quello per le grandi pellicole, passate e recentissime, di cui la Lamarque presenta una sorta di rassegna, come affacciandosi alla programmazione di un grande festival e riconoscendosi in ciascun protagonista citato. D’altronde, scrivere di sé è pur sempre sceneggiatura, tra gesti già pronunciati e altri solo ispirati.

“Ed è tutto un andare e venire
come il cane Sem nel finale
(di “Ogni cosa è illuminata”, ndr)
che dalla tomba del vecchio
padrone corre al sentiero poi alla tomba poi al sentiero,
ma infine non sceglie la tomba, fugge via, sceglie la vita,
così anche noi, la vita”.

Uno slancio che richiama molto da vicino quelle tante svolte imposte dalla poetessa ai propri vissuti tormentati, alle gare in cui da bambina si vedeva sempre vittoriosa rispetto ai coetanei, lei che di madri ne aveva già persa una a nove mesi, quella biologica, e di papà ben due, e impara a riconoscere con ironia un pareggio di fortuna quantomeno nei giochi dell’infanzia. Perché è proprio dalle piccole cose che la Lamarque avvia la sua fantasia di mondo. Come quando popola la sua solitudine con vite improvvisate:

“[…] diventiamo tanti anche noi
solitari che qualche volta parliamo nel cellulare
muto e che citofoniamo a nessuno sono io apri
e le persone del mare ci aprono
ci salutano, salutano proprio noi
(e gli altri niente)”.

Nell’immaginario dei “soli”, come lei li definisce, non c’è spazio di tolleranza per il pietismo di chi, nelle proprie estati parallele, è convinto di avere tutto nell’essere tanti. Ecco, allora, la necessità di saluti alla lontananza, lì nel mare, come a prefigurare cenni di risposte, come a dirsi che in fondo qualcuno c’è sempre, fosse pure un altro sé stesso che si moltiplica in mille echi di corresponsione. Fosse pure quella possibilità di dirsi in compagnia senza altri intorno, che appartiene solo a chi ha conosciuto fino in fondo le proprie capacità di essere tanti. Capacità che la Lamarque riconosce aver affinato nel ventennio faccia a faccia con il Dottor B. M. in una terapia di stampo junghiano. Lei stessa ha più volte raccontato di come quasi quarantenne sia approdata all’analisi perché la poesia non bastava da sola alle obiezioni dei ricordi e così il suo Dottor B. M.:

“amorosamente le picconava
antichi muri le scandagliava i sogni
le scoperchiava la testa e le mostrava
la buia cantina mai vista che lei aveva dentro di lei”.

Anche in questa raccolta la poetessa lascia un tributo a chi le ha insegnato a disegnare linee al di qua degli ostacoli, perché al di là è sempre semplice e mai duraturo, a difendersi dai raggiri dei propri pensieri, a contarsi in molte Vivian e mai sola per davvero.
Da qui la certezza che orfana, quella parola che lei ha sempre sentito appiccicata a sé stessa, è una cicatrice che “possa / un giorno / diventare / quasi / felice”. E non è mai causale la disposizione delle parole in questa, come in altre poesie. Gli a capo costanti scandiscono la fatica della sopraggiunta serenità; gli spazi bianchi, prima e non di seguito ai versi, sembrano lasciare modo alla vita di scrivere un nuovo inizio. Difatti, c’è tempo ancora per l’innamoramento per due o tre “nomi”, ai quali si precisa che “un’apina vecchina […] un po’ s’incanta” di loro. L’amore per gli amanti rimane fantasticato in mail senza invio, si fa incanto senza pretesa di dichiarazione, immaginazione delle cose vissute, preparazione di un vin brulé alle tre di un pomeriggio estivo, tra scorza di arancia, cannella e zucchero per sorprendere chi neanche lo avrebbe saputo mai. Amore è calarsi nei versi di Catullo per il tempo di una pagina e implorare un nuovo pianto a Veneri e Cupidi perché

“in gabbia non stia già cadendo dal suo filo
quel press’a poco amare, sosia dell’amore”.

Del resto, l’amore, quello dal forte sentire, la Lamarque ha imparato a rivolgerlo per prima a lei stessa. Da settantenni, si può, quando la parola “vecchia” non fa più paura per la fierezza di chi ha tanto vissuto e ha tanto ancora da dire.

“Io non sono morta io sono nata”.

Un verso che ci racconta tutto quanto ci è dato sapere sulla felicità della vita adulta.

Letture
  • Domenico Scarpa, La morte bambina, in L’indice, n. 9, ottobre 1996.
  • Vivian Lamarque, Poesie 1972-2002, Mondadori, Milano, 2002.
  • Vivian Lamarque, Madre d’inverno, Mondadori, Milano, 2016.