Per i videogiocatori di oggi si alza un richiamo irresistibile dagli altopiani innevati e dai deserti di The Legend of Zelda: Breath of the Wild, dalla Seattle diroccata di The Last of Us Parte II, dai paesaggi post-apocalisse e de-antropizzati di Death Stranding. Anche i tetti della Parigi settecentesca di Assassin’s Creed: Unity reclamano attenzione visto che la ricostruzione tridimensionale della città custodisce un notevole modello della cattedrale di Notre-Dame, forse oggi l’unico modo per visitare il famoso monumento nella sua forma più popolare. I videogiochi non sono più semplici giochi ma pratiche artistiche collettive che, favorite dalla prosperità di un settore dell’intrattenimento in crescita esponenziale, oggi permettono ad aziende e a team di sviluppo più o meno grandi di offrire veri e propri mondi da vivere. Nella sua declinazione open world, il videogioco costituisce il vertice tecnologico di una narratività votata alla costruzione di universi poi messi a disposizione del fruitore, che viene lasciato libero di disporne (quasi) a piacere, in certi casi indipendentemente dalla sceneggiatura. L’apparente libertà dagli schemi e dalla dittatura del narratore costituisce una forma di intrattenimento irresistibile perché mette al centro di ogni dinamica il ruolo del fruitore e la sua volontà rispetto ai tempi e alle modalità d’accesso dell’oggetto estetico.
La recente uscita di Sable, videogioco open world che si fregia di un design apertamente ispirato alle tavole del fumettista francese Jean Giraud (in arte Mœbius ) scomparso nel 2012, richiama l’attenzione su un interessante corto circuito tra industria e creatività. Questa piccola/grande produzione indipendente prova, da una parte, a imitare (semplificando inevitabilmente) il gameplay di The Legend of Zelda: Breath of the Wild (dal colosso videoludico Nintendo), dall’altra a offrire qualcosa di nuovo facendo viaggiare il fruitore in un percorso estetico e contemplativo sotto il segno di uno dei più grandi artisti del Novecento. L’aliante chiamato Simoon con cui la protagonista Sable sorvola le dune di sabbia di un pianeta alieno (o forse è la Terra tra diecimila anni) ricorda lo pterodattilo bianco cavalcato da Arzak nelle tavole di Mœbius ed è un chiaro simbolo di libertà e fantasia. Gli scenari e i colori attraversati dalla ragazza mascherata sembrano proprio i deserti e le formazioni rocciose tanto adorate da Mœbius.
Algoritmi e libertà espressiva
Lungo tutto l’arco della sua carriera Mœbius evidenzia un bilico tra responsabilità (fornire un accesso al pubblico accennando a schemi familiari) e libertà creativa (rompere gli schemi per sfuggire alla ripetitività). Due tensioni apparentemente inconciliabili che oggi tornano nella definizione del gameplay e delle dinamiche di gioco in prodotti che schiudono un determinato contesto narrativo chiamando il fruitore a decidere gran parte degli sviluppi o semplicemente a perdercisi dentro. Da una parte la via facile: scrivere e offrire al pubblico un solido binario narrativo trafficando con parti di immaginario familiare o anche cercando strade nuove. Dall’altra la via difficile: scrivere ancora di più e pianificare molto di più, per offrire al pubblico un intero universo in cui si è liberi di scegliere le deviazioni, le piccole storie, di prendere strade apparentemente non battute da nessuno. Gli open world davvero open sono per forza di cose rari. Molto più frequenti le vie di mezzo che lasciano il giocatore libero di esplorare per poi ricondurlo (possibilmente con eleganza) al binario narrativo della quest, la missione principale sceneggiata con maggior cura. Ma in tutti i casi un open world serio prevede un oceano più o meno sconfinato di dettagli da offrire al fruitore e quindi tanto da progettare, popolare, disegnare, animare, narrativizzare.
Nell’articolo, frame da Sables, tranne dove diversamente indicato.
Le possibilità offerte al consumatore dalla prospettiva open world portano a chiedersi quanto sia cambiato realmente il videogioco dai tempi del leggendario labirinto arcade (per esempio Pac-Man) la cui sfida era costituita fondamentalmente dal fatto di dover accumulare quanti più punti possibile sfuggendo a un letale Minotauro. Con le saghe di Zelda e di Assassin’s Creed, il vecchio labirinto di Pac-Man è caduto in rovina o meglio si è dilatato a dismisura cambiando il senso delle sfide e introducendo un elemento estetico e di contemplazione che guarda insistentemente verso i parchi a tema, non solo quelli reali. Il parco a tema western inaugurato da Michael Crichton nel film Il mondo dei robot (1973) è stato forse il primo grande spunto narrativo che ha imposto il concetto di immersività perseguita tramite una sinergia di tecnologia e creatività. Una prospettiva che viene allargata e ulteriormente investigata dal serial televisivo Westworld (2017) ideato da Jonathan Nolan e Lisa Joy. Ingegneri, tecnici informatici e sceneggiatori si confrontano e collaborano per mettere nelle mani del consumatore una libertà esplorativa che diventa sempre più (anche) libertà creativa e voglia di costruire per poi abitare quello specifico mondo altro.
Le nuove sfide del videogioco contemporaneo fanno largo uso di tecnologie informatiche per raggiungere un livello di definizione dell’universo fisico mai visto prima. Il labirinto col Minotauro al centro, sebbene allargato, avrà comunque uno e un solo corridoio risolutivo nella misura in cui il narratore continuerà a proporre percorsi narrativi (le quest) di elezione. Solchi scritti e progettati per dare al gioco una progressione lineare (o almeno spiraliforme) e quindi una conclusione, come avviene nelle narrazioni tradizionali. Ma una cosa è certa: oggi quel labirinto più o meno vasto deve essere soprattutto bello da vedere.
Oltre al foto-realismo, alla vastità geografica e alla libertà di manovra concessa nel gameplay, gli sviluppi industriali del videogioco open world rendono urgente la continua ricerca e lo sfruttamento di specifici giacimenti immaginativi costituiti dall’amalgama scenario-personaggi-situazioni. Il giocatore sceglie dove vivere a seconda del tratto grafico preferito, del modo di somministrare le luci, della presenza o meno di certe dinamiche o di certe atmosfere più o meno familiari. Lo si vede anche dalla sempre maggiore evidenza che assume la modalità fotografica nei giochi: il fruitore non è più solo il soggetto agente che spinge la trama verso uno sviluppo, ma anche un turista che cerca di catturare le bellezze naturali o architettoniche scattando fotografie e condividendole istantaneamente con i suoi conoscenti. Il giocatore diventa macchina da presa che si muove in una simulazione tridimensionale apparentemente senza limiti: lo stick sinistro sposta il carrello nello spazio, lo stick destro muove l’angolo della panoramica.
L’azienda Rockstar Games è diventata un colosso nelle grandi produzioni open world pur proponendo un gameplay che è sostanzialmente sempre lo stesso (quello di Grand Theft Auto) ma collocandolo di volta in volta in contesti diversi, sempre più ricchi, ciascuno definito da impalcature estetiche e narrative ampiamente radicate nell’immaginario. Si parte quindi dallo spazio metropolitano di Grand Theft Auto V per poi immergersi nelle atmosfere noir della Los Angeles anni Cinquanta di L.A. Noire, fino al Far West dei due episodi di Red Dead Redemption. Recentemente la software house polacca CD Projekt si è assunta, con il titolo Cyberpunk 2077, la responsabilità di catturare e proporre al pubblico un’intera città basata sull’immaginario cyberpunk forgiato da film come Blade Runner e Matrix. L’attenzione conquistata da questo videogame dimostra quanto il pubblico sia affascinato dall’idea di immergersi in uno specifico universo, non importa quanti glitch e bug informatici ci siano a disturbare l’esperienza.
La mania degli open world impone ai produttori una fondamentale capacità di bilanciamento tra le forze produttive e la vastità degli spazi da animare e popolare, sia ingegneristicamente che narrativamente. In tutti i videogiochi prima o poi saltano all’occhio personaggi governati dal computer che si comportano seguendo pattern precisi e ripetitivi. Derivativi e prevedibili come filmetti di serie Z o come romanzacci pulp, gli NPG (non-player character) vengono spesso sfruttati dal game design per fungere da didascalie o da tutorial facilitando gli enigmi e permettendo a qualsiasi tipo di giocatore la fruizione dell’opera completa. Ma un eccesso di didascalismo può affossare il gioco. Sta di fatto che cominciano a buttarsi nella mischia e a ritagliarsi spazio commerciale anche open world indie più umili nelle ambizioni tecnologiche ma in grado di offrire qualcosa di diverso ovvero la possibilità di frequentare nicchie dell’immaginario molto profonde e quindi intime. Sable è proprio uno di questi mondi videoludici e si impone all’attenzione perché consente l’immersione in una fantasmagoria che resuscita il grande Mœbius.
Il garage alchemico di Shedworks
Sable è stato realizzato nell’arco di quasi tre anni da Shedworks, un team di due persone fondato nel 2014 in un capannone con giardino (shed) nella periferia di Londra. La scrittrice Meg Jayanth ha fornito un fondamentale aiuto nella cura dei notevoli dialoghi. La colonna sonora dei Japanese Breakfast è, per la maggior parte del tempo, un delicato ambiet pop che accompagna senza disturbare il pellegrinaggio della giovane Sable. Tocchi di chitarra a rasserenare e accompagnare il graduale passaggio della luce che si muove scolpendo canyon e dune in maniera differente a seconda dell’orario. Nell’ipnotica traccia The Ewer (Day) bonghetti etnici e suggestioni sintetiche contribuiscono alla generale atmosfera sognante di una esplorazione priva di pericoli ma mai noiosa o malinconica, piuttosto protesa verso il futuro, dove ogni collina di sabbia sembra cantare “il mondo ti aspetta”.
Man mano che l’ambiente si scurisce la traccia sonora si dissolve lasciando spazio a The Ewer (Night) in cui il beat rallenta sensibilmente quasi ad accompagnare nel mondo dei sogni e delle meditazioni notturne. Anche dalla scelta di realizzare questa collaborazione con un ricercato gruppo musicale indie emerge la volontà di compensare con una certa cura sul piano sinestetico le inevitabili semplificazioni tecnologiche presenti in un gioco realizzato da un team così piccolo.
Sebbene pesi molto l’influenza di The Legend of Zelda: Breath of the Wild, l’eroico progetto di Shedworks riesce a divincolarsi dal confronto abbozzando e semplificando con onestà quello su cui non è possibile competere. Si veda quanto la gestione della stamina per scalare le montagne in Sable sia estremamente semplificata rispetto al meccanismo concepito per The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Impossibile poi replicare lo sforzo produttivo di disegnare e popolare più biomi brillantemente completato da Nintendo. In Sable c’è solo il deserto e questa scelta viene cavalcata cercando il rapporto con i luoghi di Mœbius.
Nonostante il set desertico si presenti come un bioma spoglio e privo di vita, la giovane nomade Sable attraversa un territorio che trabocca di diversità non tanto nelle creature quanto nella scrittura dei personaggi che si incontrano. Il territorio di Midden è un universo che accoglie la diversità e non conosce omologazione politica o violenza culturale. Ogni chiacchierata consente a Sable e al giocatore di comprendere il ruolo di un determinato ruolo sociale o una specifica dinamica locale. Sempre tutto riconducibile a una raffinata dialettica tra la parte e il tutto. La coraggiosa scelta di evitare i combattimenti puntando tutto sui puzzle ambientali (evitando quindi la dispendiosa elaborazione di un sistema di armi e abilità) è un minus (con annesso il rischio di annoiare) che potrebbe diventare un plus nel momento in cui il progetto riesca a spostare il focus sulla curiosità e sulla voglia di esplorazione.
In effetti Sable riesce a incuriosire proprio facendo a meno di certe convenzioni videoludiche come ad esempio i facili automatismi basati sulla lotta per la sopravvivenza o sull’assuefazione da loot economy, la ricerca e l’apertura ossessiva di casse e tesori in grado di potenziare o arricchire indici numerici.
Il matrimonio tra l’arte di Mœbius e la grafica di Sable sembra ovvio anche e soprattutto per via della tipica tecnica di inchiostratura elaborata dall’artista francese. Il tratto nero e deciso rende bene poligoni e texture allontanando dal team lo spettro di onerose sfumature. Le difficoltà del progetto Sable ci ricordano quanto riempire di vita un open world sia come realizzare un immenso affresco: una questione non solo qualitativa ma anche quantitativa e che attiene quindi alla gestione di una determinata scala economica.
Shedworks se la cava grazie a questa particolare alternanza di poligoni a colori piatti e contorni netti espressione di un gioco di linee e reticoli complessi tipicamente mœbiussiano. Muovendosi, il giocatore può ingrandire e rimpicciolire a piacere questa complessità facendo dell’esplorazione un momento di piacere oltre che di dialettica tra la parte e il tutto.
Vincere la fisica e abbattere la routine
Nella storia dei videogiochi il punteggio, ovvero il perseguimento di numeri sempre più alti, costituisce una forma di stimolazione in qualche modo figlia di un certo riflesso capitalistico. Ma i numeri passano in secondo piano negli open world: l’idea è quella di riprodurre integralmente il mondo fisico, curando il foto-realismo, definendo una varietà di interazioni tra personaggio e ambiente. I numeri e i punti non sono più le uniche divinità: la fisica e le sue leggi (in particolare la gravità) si prendono la scena. Questo perché per garantire l’immersività videoludica non basta una visualizzazione perfetta, serve anche la riproduzione fedele del comune interagire degli umani con uno spazio fisico. La dea Forza di Gravità condiziona le scelte di Link nel decidere su quale montagna conviene salire per meglio planare su torri e sacrari e meglio esplorare le terre di Hyrule in The Legend of Zelda: Breath of the Wild. La gravità definisce gran parte delle interazioni nei giochi basati sull’esplorazione, sul combattimento, sulla balistica. Quanta resistenza sarà necessaria per scalare una montagna? Quanto posso saltare senza sfracellarmi? Quanto resisterà in corsa il mio cavallo? Quanto dovrò compensare nel mirare con un fucile o con un arco da lunga distanza? Sable, in sella al suo aliante che sfreccia sul deserto, è proprio come i personaggi di Mœbius perennemente in cerca di uno scopo, spesso collocato in ampi spazi dominati dal vuoto o dalla necessità di beffare la forza di gravità.
Il gioco Gir/Moeb
Il modo in cui Arzak (Mœbius, 2000) accende un fuoco da campo e si siede in mezzo a una struttura composta dalle gigantesche costole di uno scheletro animale rappresenta bene gli sviluppi di un’industria estetica che nasce e rinasce continuamente meditando o ricodificando antiche strutture pensando a sensibilità nuove. Quella del falò in mezzo a grandi ossa consumate dal tempo è un’immagine ricorrente che accomuna The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Sable e sembra riflettere le vicende creative del doppio Jean Giraud: il fumettista affidabile e il suo alter ego creativo Mœbius. Industria e fantasia, tradizione e creatività si fronteggiano ma possono anche scendere a patti, aggrovigliando istanze economiche e urgenze creative. Il Blueberry (2002) firmato Giraud mostra bene come le costrizioni poetiche determinate da un racconto western fortemente codificato debbano necessariamente sviluppare venature creative per distinguersi e attirare l’attenzione.
Circuito opposto invece la fantascienza firmata da Mœbius (quella lanciata dalle pagine della rivista Métal Hurlant) che parte da strutture di genere familiari al lettore per poi mettere in discussione tutto, evidenziando la necessità di eludere le regole (quelle costruttive della tavola a fumetti, ma anche quelle sociali e persino quelle fisiche), al fine di costruire o esplorare mondi nuovi. Mœbius parte spesso dalla premessa che i personaggi devono interagire con uno spazio fisico, manifestando il desiderio di liberarsi del fardello della gravità o della realtà in generale. Il rapporto con le leggi della fisica e con la materia è sempre problematico e generatore di meraviglia.
Mœbius, tavole da Visioni di Arzach.
I voli di Arzak, tra campi lunghi cosmici e aperti su meravigliosi scenari rocciosi sono la cornice ideale per suggerire ricerche identitarie. Forse proprio questo approccio al campo lungo e alla cura nel connettere stati d’animo e scenografie ha stimolato quella particolare macchina immaginifica che è la space opera di George Lucas che ha a sua volta influenzato una cascata di prodotti audiovisivi e di videogiochi a mondo aperto che ripropongono continuamente l’idea del tour tra biomi differenti. Come mostra questa linea estetica ben esemplificata dal deserto secondo Mœbius (in una certa misura reinterpretando alcuni tra i miti più potenti delle sacre scritture), la scenografia può essere luogo intimo svincolato dal tempo del racconto tradizionale. In un contesto del genere i pochi edifici e le rare strutture antropiche costituiscono le inequivocabili tappe di un viaggio identitario. Percorso che Mœbius ripropone anche nella miniserie d’animazione Arzak Rhapsody (2002).
Il deserto come spazio interiore da attraversare
Quando c’è una grande distanza da colmare/esplorare Mœbius è lì, con le sue matite e le sue chine a delimitare con decisione uno spazio vuoto pronto per essere popolato da presenze umane che partono dai margini della composizione. Così funzionano le suggestioni di Mœbius: vuoti che dominano la tavola e figure antropomorfe che possono accedervi solo a patto di cavalcare le ali della fantasia.
George Lucas ha ripreso l’idea/ossessione di di motociclette volanti che sfrecciano in scenari alieni. Lo speeder di Luke Skywalker visto nello Star Wars del 1977 viene poi sviluppato con ulteriori dettagli visivi dall’hovercraft di Rey che sfreccia sulle sabbie del pianeta Jakku in Star Wars: Il risveglio della Forza, accompagnando la popolare saga nella nuova frontiera targata The Walt Disney Company. Le note musicali western che accompagnano l’entrata in scena della giovane protagonista amplificano l’idea originaria di Lucas di omaggiare il western avventuroso e creare una nuova epica ricodificando le rovine della narratività moderna.
Nella discarica delle astronavi precipitate, tra le carcasse di animali immensi, il pensiero non viaggia tanto verso la memoria di un percorso storico unico quanto piuttosto a tante storie diverse, a tante possibili sceneggiature di mondi alternativi che si stratificano. L’aliante di Sable è l’equivalente dei tanti hovercraft di Mœbius e soprattutto dello pterodattilo bianco di Arzak. Il cinema ipercinetico di Star Wars e il videogioco spostano il focus su veicoli che, sfrecciando tra le rovine del passato, sono macchine da presa per sogni in bilico tra industria e fantasia.
Tra forme astratte e rovine di civilizzazioni morte schiacciate dal peso della propria tecnologia, emerge la curiosità di Mœbius che vuole ascoltare la voce di tutto: dagli animali ai minerali, dai cristalli viventi ai veicoli. La presenza costante degli hovercraft è probabilmente dovuta alla volontà di Jean Giraud di raggiungere “la dimensione magica delle nostre automobili” come spiega Isabelle Giraud nel catalogo della mostra partenopea MŒBIUS. Alla ricerca del tempo, promossa dal Museo Archeologico di Napoli, curata da Mœbius Production in collaborazione con Comicon, con il patrocinio di Regione Campania, Comune di Napoli e Institut Français de Naples.
Quello che si vede su Jakku e nel deserto di Midden in Sable è un chiaro omaggio alla modernità sognante concepita da Mœbius, pronta a rispunta con vigore nel videogioco, potenziata dalla fascinazione dell’interattività tramite joystick. Il veicolo che accompagna nell’attraversamento del vuoto interiore riveste un ruolo importante nel percorso di Sable. Il giocatore può potenziarlo e in una certa misura caratterizzarlo, stipulando un rapporto quasi simbiotico con il veicolo. L’estrema varietà di elementi customizzabili nell’abbigliamento di Sable e nelle parti meccaniche dell’aliante Simoon riflettono bene il senso di un viaggio identitario che attiene anche e soprattutto alla necessità di esprimersi esteticamente, comprendendo in questo anche le protesi tecnologiche della persona. Il meccanico del villaggio, spiega alla giovane Sable che quella motocicletta volante non è il semplice assemblaggio di rottami provenienti da veicoli abbandonati, piuttosto un organismo composto da parti che non sapevano di essere destinate a stare insieme.
L’uso espressivo del deserto in Sable richiama anche altri classici videoludici come Journey, in cui giocatore controlla una figura incappucciata: un altro nomade in cammino nel deserto. Il deserto serve a creare delle distanze che sono però trasparenti e che quindi consentono di vedere in lontananza torri o strutture da raggiungere. In questo modo il cammino viene direzionato in maniera elegante. Lungo la strada rovine di antiche civiltà e simboli strani sono l’infallibile metodologia attraverso la quale il giocatore viene invogliato al completamento dei puzzle ambientali. Dai glifi di Journey, ai sacrari di The Legend of Zelda: Breath of the Wild, fino agli enigmi di Sable. Qualcosa che ricorda molto la tecnica narrativa di Mœbius esposta in maniera paradigmatica nel cortometraggio La Planète Encore (2010) che prende in prestito (animandoli in CGI) i meccanici Stel e Atan protagonisti del fumetto Il mondo di Edena. Attratti da una misteriosa intrusione telepatica i due esplorano un pianeta sconosciuto apparentemente privo di vita. Solcando deserti e attraversando canyon con il loro hovercraft, i due riparatori raggiungono un misterioso tempio, origine del segnale. Il pianeta sembra in attesa di ospiti per scatenare la sua rinascita.
Videogioco open world: ultima stazione dell’utopismo
I mondi immaginari, quanto più sono vasti, multipiano e narrativamente consistenti, tanto più riescono a rendere credibile la possibilità di definire strutture di potere e di identità diverse da quelle conosciute. L’utopia sviluppata attraverso la simulazione videoludica può essere il luogo di decostruzioni violente ma anche di ricostruzioni radicali. Lo slancio utopico dei fumetti di Mœbius è generalmente segnalato dall’attrazione per gli spazi liberi e vuoti (ovvero ciò che non è vincolato se non dai margini dell’immaginazione). Nel videogioco questo slancio si traduce in pratiche di costruzione e decostruzione di strutture architettoniche e di situazioni narrative che si protendono conquistando porzioni dello spazio sintetico. Anche Fredric Jameson (2007) affronta il rapporto tra utopia e immaginazione: l’utopia come spazio di pensiero che non è necessariamente la rappresentazione di alternative radicali ma semplicemente la possibilità di costruire un’alterità gradualmente. Per esempio, immaginando qualcosa nelle maglie dei testi esistenti, cercando tracce scavando ai margini dei canoni ufficiali.
Mœbius: Autoritratto. Trait de génie © Mœbius Production.
Come nota Angelika Bammer, le utopie tradizionali inquadrano il luogo ideale concentrandosi sulle istituzioni e sui sistemi amministrativi ma non si occupano delle strutture sociali profonde che regolano le relazioni umane in un senso più generale (cfr. Bammer, 2015). Evitando di affrontare i problemi quotidiani della gente comune gli universi fittizi finiscono col riproporre modelli epici e avventurosi mutuandoli da altre tradizioni narrative e sminuendo così il potenziale critico insito in modalità espressive come la fantascienza e il videogioco. Ma quando si sceglie una storia o un contesto intimo come quello della conquista dell’identità in Sable ecco che si aprono nuovi spazi per l’utopismo e per mostrare come sia possibile edificare un mondo altro partendo dal basso.
Esattamente come avviene nel popolare ambiente videoludico Minecraft, un open world assoluto in cui i più giovani imparano (perlopiù da loro pari) a craftare (costruire) oggetti, materiali, edifici, villaggi e piccole comunità pezzo per pezzo, mattone su mattone. L’utopismo, coltivato per via digitale, potrebbe un giorno diventare l’alimento principale della futura cultura occidentale.
- Autori Vari, MŒBIUS. Alla ricerca del tempo, Mœbius Production / Comicon Edizioni, Napoli, 2021.
- Angelika Bammer, Partial Visions: Feminism and Utopianism in the 1970s, Peter Lang, Oxford, 2015.
- Jean Michel Charlier, Jean Giraud, Blueberry – Fort Navajo, Alessandro Editore, Bologna, 2002.
- Fredric Jameson, Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano, 2007.
- Mœbius, Alejandro Jodorowsky, L’Incal – L’integrale, Magic Press, Roma, 2011.
- Mœbius, Il mondo di Edena. L’integrale, Magic Press Edizioni, Roma, 2017.
- Mœbius, Visioni di Arzach, Alessandro Editore, Bologna, 2000.
- Mœbius, Venezia Celeste, Milano Libri, Milano, 1984.
- J.J. Abrams, Star Wars Episode VII – Il risveglio della forza, Walt Disney, 2016 (home video).
- CD Projekt, Cyberpunk 2077, CD Projekt, 2020 (videogame).
- CD Projekt, The Witcher 3: Wild Hunt, CD Projekt / Bandai Namco / WB Games, 2015 (videogame).
- Michael Crichton, Il mondo dei robot, Warner, 2013 (home video).
- Lisa Joy, Jonathan Nolan, Westworld Stagione 1, Warner, 2017 (home video).
- Kojima Productions, Death Stranding, Sony, 2019 (videogame).
- Mœbius , Arzak Rhapsody, Lancaster, 2002 (home video).
- Mœbius , Geoffrey Niquet, La Planète Encore, Moebius Productions, 2010.
- Mojang, 4J Studios, Minecraft, Mojang AB / Microsoft / Sony, 2011 (videogame).
- Nintendo EPD, The Legend of Zelda: Breath of the Wild, Nintendo, 2017 (videogame).
- Naughty Dog, The Last of Us Parte II, Sony, 2020 (videogame).
- Rockstar North, Grand Theft Auto V, Rockstar Games, 2013 (videogame).
- Rockstar Studios, Red Dead Redemption 2, Rockstar Games, 2018 (videogame).
- Thatgamecompany, Journey, Sony, 2012 (videogame).
- Ubisoft Montreal, Assassin’s Creed: Unity, Ubisoft, 2014 (videogame).