Un tempo esisteva una distanza formale fra le cose. Il pubblico non si mischiava con il privato, il bene con il male, i ruoli professionali con la persona. Una diva di Hollywood smetteva di sorridere varcata la soglia di casa, senza che nessuno riuscisse a immortalarla mentre si preparava dei ravioli in scatola, con indosso una tuta extralarge di ciniglia. E a un medico, un professionista, si richiedeva di essere abile nel suo lavoro, non di avere il look giusto nelle foto profilo di Instagram.
Lo stesso accadeva anche per la paura, il mistero, l’orrore. Un mostro era tale perché eccezionale, distante, lontano dalla nostra quotidianità. Ora invece si tende a normalizzarlo, rendendolo sempre più vicino e simile a noi.
Il mostro che va a lavoro, che timbra il cartellino, che vive in una società tecnologizzata, schiavo dei social, delle macchine, dell’inquinamento. Pensiamo al meraviglioso film di Jim Jarmush, Solo gli amanti sopravvivono (2013), dove l’amore eterno dei due vampiri Adam ed Eve diventa sempre più difficile per il sangue inquinato degli umani, malati o semplicemente dipendenti da fumo, alcol e droga.
La trasparenza, che dovrebbe rendere tutto accessibile e invece, per assurdo, lo rende invisibile nella sua molteplicità semantica, è diventata un concetto non solo pericoloso, ma anche un potente veicolo di nuove realtà e situazioni narrative dell’immaginario collettivo. Non ci si accontenta più di una prospettiva dell’oggetto d’analisi; si vuole la totalità, la completezza, la pienezza di un fenomeno. Questo, tuttavia, è nel lungo periodo un processo a perdere, poiché si crea meno di quello che si va a distruggere.
Il film Vita da Vampiro, What We Do in the Shadows di Taika David Waititi e Jemaine Clement (2014) parte esattamente da questo presupposto. Il film è un mockumentary, in cui si finge che una troupe televisiva riprenda i protagonisti nella loro vita reale e ne racconti giornate e interazioni come fosse un reale documentario.
Siamo a Wellington, capitale della Nuova Zelanda, in una casa abitata da quattro vampiri. Loro si comportano esattamente come farebbero dei giovani ragazzi che convivono assieme: feste, scorribande, spese e gestione delle pulizie. Solo che fanno tutto di notte, e uccidono gli esseri umani. Quindi, rispetto a una confraternita o un appartamento condiviso, ci sono più trasformazioni in animali, sangue da ripulire, inconsueti giacigli dove passare la notte in bare di pietra o appesi al contrario come i pipistrelli.
I quattro protagonisti della storia sono: Peter, un Nosferatu antichissimo che ormai si nasconde in cantina e parla a malapena; Vladislav (interpretato dal regista Clement), il Conte Dracula, che è diventato abilissimo a pulire i soffitti levitando; Viago (interpretato dall’altro regista Waititi), un dandy molto attento al look e alla bellezza; Deacon, un “giovane” vampiro di meno di duecento anni che ha ancora un animo ribelle e alternativo.
Fra vicissitudini comiche di varia natura, il quartetto conoscerà Nick, un ragazzo vampirizzato da poco da Peter, e Stu, un umano, che riuscirà a introdurli alle novità della vita moderna, dalle discoteche alla tecnologia. Televisione, smartphone, interazione con una nuova generazione talmente abituata al bizzarro e inconsueto da non riconoscere nemmeno dei vampiri medievali o settecenteschi che camminano fra loro.
Non va meglio nemmeno ai licantropi, costretti a incatenarsi nei parchi durante le notti di luna piena o a indossare pantaloni elastici, poiché la trasformazione rovina irrimediabilmente i loro jeans e le mogli devono poi impazzire per rammendarli. Anche loro sono in conflitto con le regole della metropoli, anche loro subiscono le trasformazioni culturali e sociali.
Il film di Waititi e Clement racconta con grande ironia la vita quotidiana di personaggi che non incutono il minimo timore: anche nel loro nutrirsi di sangue umano, i protagonisti sembrano essere quelli da proteggere, per i quali provare affetto o solidarietà. Un gruppo di persone emarginate, alienate dal proprio ambiente, in difficoltà perenne di relazione con la modernità. Stupisce questo film semplice e ironico allo stesso tempo, in cui sono le idee a dominare su costumi, effetti speciali e risorse.
Lontani dai grandi colossal americani, da sofisticati software di post-produzione, l’effetto ottenuto è molto più artigianale ma efficace, focalizzato sulla storia e sulla sua incredibile scorrevolezza. Un’ora e mezza di dialoghi intelligenti e di situazioni surreali che trattengono lo sguardo dello spettatore.
Splendido il personaggio di Jackie: la donna cerca le vittime per i suoi padroni vampiri fra le persone che le stanno antipatiche o che le hanno fatto dei torti, prendendo le ordinazioni quasi fosse la cameriera di un ristorante.
Vita da Vampiro, What We Do in the Shadows non ha la presunzione di stabilire regole o particolari indirizzi di genere: semplicemente, racconta la normalità dell’orrore, la sua incredibile, spiazzante banalità. Fatta di turni di pulizie domestiche, di vergini introvabili da bere e di fanatici cacciatori di vampiro che provano ancora a combattere contro questi, ormai comuni, esseri umbratili.
Un mondo della trasparenza in cui vedere ogni aspetto, momento della vita di un mostro lo rende a noi più simile di quanto avremmo mai pensato. Di fronte a Dracula avremmo tremato nell’immaginarci soggiogati, uccisi, annientati nella nostra volontà. Vittime e non certamente giudici della sua raccolta differenziata o dei piatti sporchi da giorni nell’acquaio.