L’immaginario: una delle facoltà umane più complesse da definire. Di frequente viene affiancato all’onirico e al fantastico, entrambi ambiti che vengono visti come sue parti, dei mondi a lui affini. Psicoanalisi e letteratura, in modi diversi e con obiettivi differenti, hanno cercato di circoscriverlo, di comprenderlo. È difficile dire se con successo o meno, poiché se da un lato entrambe queste tecniche hanno fatto emergere aspetti cruciali del lavoro tramite cui si costruisce il materiale dell’immaginario, dall’altro né l’una né l’altra sono riuscite a comprendere a fondo il suo ruolo nella mente umana.
L’utopia è una delle creazioni dell’immaginario, una delle più sottili e ingannevoli. La sua malizia sta nell’ambiguità costitutiva del suo status, e – più in generale – nella dialettica insita nell’immaginario politico, che è il luogo in cui l’utopia si mostra. Questa forma dell’immaginario non si riduce certo ad un singolo oggetto, ma si pone come orizzonte in ogni prassi. Forse il luogo in cui l’immaginario trova la sua espressione più raffinata, se non la più diffusa, è proprio la politica. Per sua natura l’utopia è però in prima istanza una forma letteraria, poiché si tratta pur sempre di resoconti, di narrazioni dove viene descritto un luogo o un modo di vivere: qualcosa che l’autore avrebbe visitato in un certo viaggio misterioso, oppure di cui aveva avuto notizia tramite leggende e miti. Il racconto – o meglio, il luogo raccontato – deve inoltre avere la capacità di affascinare il lettore, di coinvolgerlo nella descrizione che gli viene proposta, cosicché sia lui, in seguito, a raccogliere altri proseliti e a incamminarli dietro al desiderio di un luogo perfetto. Forse che l’utopia, sebbene sia costitutivamente irraggiungibile, in realtà si scopre avere molti contatti con il mondo da cui si dovrebbe differenziare.
“Nulla più che un sottile tratto d’oceano separa Utopia dal continente. Fin troppo vicina alla riva per trattarsi di un non-luogo notoriamente e costitutivamente situato in nessun dove”
(Moro, 2023).
Lo scrittore, nel suo raccontare, ha uno scopo ben preciso, ed è uno scopo politico: evidenziare ciò che non funziona nel mondo che lui abita, e proporre metodologie per modificare il mondo, così da incarnare l’utopia, renderla terrena.
L’isola di Utopia
Il capostipite, nella modernità, di questo racconto politico che oggi chiamiamo utopia, è certamente Sir Thomas More.
“Quest’isola, questo libro, rappresenta il paradigma”
(Miéville in Moro 2023).
È evidente che non è questa la sede per affrontare una disamina dell’enorme influenza che la sua opera ha avuto su chiunque l’abbia letta o ne abbia avuto notizia, ieri come oggi. Esistono eccellenti studi, e tra gli italiani vanno certamente citati Luigi Firpo e Tommaso Fiore (qui basti rimandare alle edizioni di Utopia da loro curate; cfr. More, 1971 e Moro, 2017). Chiunque abbia desiderio di approfondire questo tema, e in particolare questo testo, non avrà difficoltà a reperire una bibliografia adeguata.
Oggi è un nuovo editore, Timeo, che come sua prima pubblicazione propone ai suoi lettori la traduzione italiana di una edizione molto particolare del testo di Thomas More. L’editore britannico Verso l’ha data alle stampe nel 2016, in occasione del cinquecentenario della prima edizione, e affianca al testo dell’umanista londinese una introduzione e alcuni saggi a complemento. Questi ultimi sono scritti da due autori di primissimo piano nel mondo della science fiction contemporanea, ovvero China Miéville e Ursula K. Le Guin, tradotti rispettivamente da Claudio Kulesko e Veronica Raimo. È evidente perciò che la relazione tra utopia e science fiction è un nodo centrale nell’analisi che viene impostata con questo inedito triumvirato. Miéville scrive due saggi per questo volume. Il primo è una vera e propria introduzione, piuttosto classica, sebbene sia scritta con la tipica verve che lo contraddistingue. Un testo denso, di poche pagine, in cui procede a una disamina dell’immaginario politico sotteso al testo di More. Qui viene sottolineato con forza quanto l’ipotetica lontananza, e così l’occultamento dietro cui si cela Utopia, altro non siano che delle rappresentazioni, delle allegorie. Il lettore ha difatti ben chiaro come ciò di cui sta parlando Thomas More non deve essere inteso come una favola o un mito costitutivo, ma come la formulazione di un progetto politico, la descrizione della visione che l’autore ha del mondo. Un progetto che non tralascia alcun aspetto, né politico né militare, né filosofico né scientifico, di quella che dovrebbe essere la società illuminata degli abitanti di Utopia. Già Jean Baudrillard, ne Lo scambio simbolico e la morte e in altri scritti che di questo hanno costruito lo scheletro strutturale, associa la forma assunta dall’immaginario nell’utopia rinascimentale alla nascita della scienza e allo sviluppo del mercantilismo (cfr. Baudrillard, 2015 e anche 2009). È quello che lui chiama un simulacro naturale, dove la distanza tra immaginario e reale appare massima.
Questa è una analisi – tra l’altro – che è possibile certamente allargare anche alla maggioranza delle narrazioni utopiche rinascimentali, quali la Nuova Atlantide di Ruggero Bacone o la Città del sole di Tommaso Campanella, per citare i due casi certamente più noti. Utopia è in questo senso l’espressione più pura della modernità, che si scopre inglobare in sé la sua contraddizione. Il progetto fondativo è costitutivo della sua stessa essenza, esiste però non in modo spontaneo, bensì perché un potere lo decide e lo costruisce. Difatti Miéville sottolinea come alla radice della genesi di Utopia ci sia una serie di atti violenti, a partire dalla colonizzazione forzata dei precedenti abitanti fino alla tecnologica modifica dell’ambiente, che diede vita all’isola stessa, troncando l’istmo che la univa alla terraferma.
“Questo splendido – utopico – isolamento è parte di un violento bottino imperiale”.
(ibidem).
Utopia come bisogno
Eppure, e questo è innegabile, il grande inganno descritto in questo racconto ha come contraltare la passione e il sogno che per secoli il mondo gli ha rivolto. Il mondo degli sfruttati, dei deboli, di chiunque abbia avuto una aspirazione troncata da un potere superiore, il mondo di chi si ribella, di chi vive in un anelito di rabbia antica. Tutti vedono in Utopia l’orizzonte verso cui rivolgersi.
“Non possiamo fare a meno di questo libro. Tutti noi siamo e siamo sempre stati figli di Tommaso Moro”
(ibidem).
E ancora, poche pagine dopo,
“Abbiamo bisogno di utopie. È quasi un fatto scontato […]. Ma l’Utopia ha i suoi limiti: l’Utopia può essere tossica”
(ibidem).
Questo perché, prosegue Miéville, ciò che è rappresentato da Utopia non si identifica più come una speranza, un escatologismo di tipo religioso, una sorta di millenarismo messianico. Quello – potremmo dire – non fa parte della modernità, è più antico. Nel Rinascimento in cui scrive More, l’utopia risorge come bisogno e desiderio. Siamo nel cuore della fondazione dell’identità come oggi la conosciamo, e di conseguenza dell’alterità. Utopia è il focolaio di questo uomo nuovo, scienziato, comunitario e libero dalle pastoie di una religione gretta e limitante. L’umanesimo di Thomas More, così come del suo caro amico Erasmo da Rotterdam, cerca soluzioni politiche alla torsione lacerante in cui vive il loro mondo, ancora vittima degli aspetti peggiori del passato ma troppo fragile e debole per costruire il futuro.
Utopia ed ecologia
L’analisi dell’utopia descritta da More, diventa però per Miéville una leva con cui affrontare un altro discorso. Se nel 1516 l’utopico era rappresentato dalla creazione di una società giusta ed egualitaria, oggi questo orizzonte si incarna nella salvaguardia dell’ambiente, e nella ricerca di una possibile convivenza con la vita non umana. Visto che il problema di ogni utopia è il suo incontro-scontro con il reale, da un lato, e con un immaginario ulteriore, dall’altro, il problema della prassi diventa metodologico, per poter comprendere come agire, quale prassi scegliere. A questo proposito Miéville cita, quasi come una formula magica, una frase ripresa da una conferenza di Ursula K. Le Guin, che in questo volume è riportata come primo dei saggi allegati. Si tratta di Una visione non-euclidea della California come luogo freddo. È un testo piuttosto datato, essendo del 1982, ma fondativo, per i temi che affronta, e qui Le Guin cita un detto dei nativi americani. Lei stessa è stata nell’infanzia a lungo vicina alle comunità dei nativi, e coglie la sensibilità insita in certe tradizioni. Il motto recita “cammina all’indietro e guarda avanti”, e si riferisce al modo di camminare del porcospino, che in questo modo è al sicuro dagli attacchi dei suoi nemici. Per Le Guin il porcospino è una metafora del pensiero utopico.
“Il porcospino arretra in maniera consapevole in modo da ragionare tranquillamente sul futuro, potendo fare attenzione sia al nemico che al nuovo giorno. […] si tratta di un gesto istruttivo di autoconservazione”
(Le Guin in Moro 2023).
E poi aggiunge:
“Per poter ragionare tranquillamente su un futuro inospitale forse faremmo bene a trovarci una fessura tra le rocce e ritirarci”
(ibidem).
Miéville, infine, in un fertile dialogo a distanza, risponde a questa precisa indicazione di metodo che Le Guin ha dato in quel contesto.
“Nascosto tra le rocce, il porcospino è libero di progettare le proprie utopie. Inoltre, cosa altrettanto importante, andando indietro guardando avanti, può tentare di sfuggire alle incalzanti utopie di chi è al potere”
(Miéville in Moro 2023).
Ancora una volta, vuole ricordarci Mièville, è il conflitto insito nel concetto stesso di utopia a impedirci di sciogliere il nodo. Il porcospino è attento, e la sua prudenza è saggezza, ma questo suo sguardo ci mostra I limiti dell’Utopia, frase che è anche il titolo del secondo saggio di Miéville, dedicato alla critica della questione ambientale, dove la salvezza del pianeta è dichiaratamente riconosciuta come l’utopia del nostro tempo. Qui Miéville affronta senza esitazioni la questione della prassi, per lui cruciale, e sottolinea come le contraddizioni intrinseche al concetto storicizzato di utopia rischiano di inficiare anche la battaglia per il clima. Facendo suo il pensiero di Jason Moore, citato in più occasioni, viene posta come pietra miliare ideale l’identità della lotta ambientalista e di quella anticapitalista.
“Se la Terra viene flagellata non è perché i flagellatori sono stupidi o irrazionali, né perché stanno commettendo degli errori di calcolo o sono in possesso di dati insufficienti. […] in un mondo che massimizza i profitti è del tutto razionale che le istituzioni dello status quo facciano quello che fanno. […] Lottare per la giustizia ecologica significa lottare contro il sistema, perché l’ingiustizia genera enormi profitti”
(ibidem).
Ursula Le Guin, sebbene con un approccio più affine alla poesia e allo studio dei testi antichi, come il Tao te ching o le tradizioni dei nativi americani, che spesso assume a fondamento delle sue riflessioni, si ritrova di fronte la stessa contraddizione fondativa:
“Sembra che l’immaginazione utopica sia intrappolata, come il capitalismo, l’industrializzazione e la popolazione umana, in un futuro a senso unico che consiste in pura crescita”
(Le Guin in Moro 2023).
Se quindi per Miéville è solo nella lotta contro l’accumulazione capitalistica che si può rintracciare il senso della battaglia per la salvaguardia dell’ambiente, per Le Guin la questione pare essere più variegata, meno precisa da un punto di vista storico e più indeterminata nei suoi fattori. In ogni caso, anche se è vero da un lato che l’approccio antropocentrico e maschilista individuato da Le Guin come causa del disastro ambientale (l’Utopia Yang e l’Utopia Yin) non è certo limitabile al solo occidente capitalistico, dall’altro quest’ultimo ne rappresenta senza dubbio la più completa realizzazione in ogni tempo, e questo dominio non è trascurabile né trattabile.
Ritornare a Thomas More
China Miéville e Ursula K. Le Guin hanno quindi instaurato un fitto dialogo a distanza (anche temporale) sul senso dell’utopia e sul suo valore odierno. Encomiabile quindi l’operazione di Verso e Timeo per la ricontestualizzazione operata sull’opera di Thomas More, e per l’impulso a discuterne il significato, oltrepassando la mera impostazione storiografica. Non avrebbe quindi senso cercare qui una nuova edizione critica, per quanto il testo sia – ovviamente – integrale e in una ottima traduzione. Va invece evidenziato quanto sia oggi necessario usare More contro More, per scoprire l’attualità della sua Utopia, e quanto si possa ancora apprendere da questo testo, riconoscendone prima di tutto limiti e conflitti interni. È quindi proprio alla luce di questo sguardo, non sentimentale ma assolutamente critico, che si mostrano i momenti di grande illuminazione che attraversano il testo. È per questo che ancora oggi la portata visionaria dell’isola di Utopia non ha eguali, proprio perché scopriamo di averne sempre più bisogno, non del sogno, ma del desiderio.
- Ruggero Bacone, Nuova Atlantide, BUR, Rizzoli, Milano, 2009.
- Jean Baudrillard, Simulacri e fantascienza, in Cyberfilosofia, Mimesis, Milano, 2009.
- Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2015.
- Tommaso Campanella, Città del sole, Feltrinelli, Milano 2014.
- Thomas More, Utopia, a cura di Luigi Firpo, Utet, Torino, 1971.
- Tommaso Moro, L’Utopia o la migliore forma di repubblica, a cura di Tommaso Fiore, Laterza, Bari, 2007.