Kim Stanley Robinson
Il blu di Marte
Traduzione di Annarita Guarnieri
Fanucci, Roma, 2017
pp. 784, € 19,90
Nell’iconografia fantascientifica nessun pianeta può rivaleggiare con Marte per efficacia, persistenza e varietà delle rappresentazioni ricevute. Fin dagli albori del genere il pianeta rosso è stato una meta privilegiata per i viaggi della fantasia, o addirittura un sinistro nascondiglio da cui sferrare terribili minacce ai danni dell’umanità. Circoscrivendo il campo d’indagine alla letteratura, a cominciare da H.G. Wells e Edgar Rice Burroughs, proseguendo poi attraverso le opere di A.N. Tolstoy, Stanley G. Weinbaum, Leigh Brackett, Ray Bradbury, Arthur C. Clarke, Roger Zelazny, Philip K. Dick, Robert A. Heinlein, Frederik Pohl; e fino a tempi più recenti con i lavori di Ian McDonald, Lewis Shiner, Greg Bear, Paul J. McAuley, Robert J. Sawyer; questo nostro vicino cosmico ha offerto una molteplicità di scenari e di opportunità narrative, arricchendosi di particolari a ogni nuova incursione. E tra le opere più ambiziose e complesse spicca la monumentale trilogia marziana di Kim Stanley Robinson.
Nato in Illinois nel 1952 (la sua città natale, Waukegan, è la stessa in cui Bradbury trascorse l’infanzia, servendosene come ispirazione per Green Town, l’immaginaria cittadina del Midwest che ricorre in diverse sue storie), cresciuto in California, Robinson ha studiato alla University of California di San Diego e ha dedicato la sua tesi di dottorato in letteratura a uno studio delle opere di Philip K. Dick, discutendola con l’illustre critico ed esperto di postmodernismo Fredric Jameson. Il suo romanzo d’esordio è The Wild Shore, che inaugura nel 1984 una collana leggendaria, la terza serie degli Ace Science Fiction Specials. Pochi mesi più tardi sempre Ace dà alle stampe Icehenge, che presenta diversi punti di contatto con la trilogia che di lì a pochi anni lo avrebbe consacrato tra i massimi autori contemporanei di fantascienza. L’uscita di Red Mars nel 1993 viene accolta con favore dalla critica e dai lettori su entrambe le sponde dell’Atlantico. Il romanzo si aggiudica alcuni dei più importanti premi del settore, tendenza che si conferma anche con i successivi Green Mars (1994) e Blue Mars (1996): in tutto, due premi Hugo, due Locus, un Nebula e un BSFA. E l’impatto della serie si spinge presto ben al di là dei confini del genere: la sequenza dei colori adottata nei titoli serve per esempio da ispirazione per la bandiera marziana, concepita dal cofondatore del Mars Institute Pascal Lee e adottata in alcuni ambiti dalla stessa NASA. Eppure, malgrado la sua popolarità e l’autorevolezza di Robinson, incluso nel 2008 dal Time tra gli “Heroes of the Environment” per il suo impegno nella lotta ai cambiamenti climatici, in Italia i lettori hanno dovuto pazientare quasi un quarto di secolo per poter apprezzare la sua opera di maggior successo. Dei tre romanzi, solo il primo era infatti stato tradotto da Mondadori nel 1995, finendo però presto fuori catalogo. La lunga attesa è finalmente terminata nel 2016, quando Fanucci ha deciso di colmare questo vuoto senza giustificazioni, riprendendo l’originale traduzione di Maurizio Carità per Il rosso di Marte e affidando ad Annarita Guarnieri il resto della serie, portata a compimento con la pubblicazione de Il verde di Marte e Il blu di Marte.
Rosso: luci e ombre della frontiera
Il rosso di Marte racconta il primo impatto dell’uomo con la natura ostile del pianeta e i conseguenti sforzi sostenuti per renderlo adatto alla vita. I cosiddetti “primi cento”, membri di una spedizione congiunta tra la NASA e la Roscosmos, sono i protagonisti da cui l’autore prende in prestito il punto di vista sugli eventi. Dopo un inizio in medias res, sette diversi personaggi si succedono nella descrizione delle prime fasi della colonizzazione, dalla missione dell’Ares allo sbarco del 2027, fino ai primi moti indipendentisti del 2061. Il viaggio si compie tra pericoli e incertezze e prima ancora di sbarcare i primi cento iniziano a interrogarsi su quale sia l’approccio migliore per riuscire nell’impresa. Arkady Bogdanov è un ingegnere in quota russa, discendente dell’illustre rivoluzionario Alexander Bogdanov, rivale di Lenin in seno all’organizzazione bolscevica e tra i primissimi scrittori russi a cimentarsi con la fantascienza (scrisse tra l’altro due romanzi incentrati su un’utopia socialista marziana: La Stella Rossa del 1908 e L’ingegner Menni del 1912). Animato da profonde convinzioni anarchiche, Arkady entra in conflitto con quanti tra i suoi colleghi vorrebbero attenersi rigidamente al protocollo stabilito per la missione:
“«Tutto è politica» Arkady gridò dietro di loro. «A maggior ragione il nostro viaggio. Stiamo per dare inizio a una nuova società; cosa c’è di più politico?»
«Siamo una stazione scientifica» puntualizzò Sax. «Il che non implica così tanta politica.»
«Certamente non l’ha implicata l’ultima volta che sono stato laggiù» disse John.
«E invece sì» rispose Arkady «solo che era più semplice. Eravate un equipaggio di soli americani in missione temporanea, e vi limitavate a eseguire degli ordini. Ma noi siamo un equipaggio internazionale, con la missione di stabilire una colonia permanente. È tutta un’altra storia.»” (Robinson, 2016a).
Arkady è a tutti gli effetti un militante e non ha intenzione di farsi dettare la linea da un’autorità che ha cessato di riconoscere nel momento in cui l’Ares è entrata nel campo gravitazionale marziano. Sedotti dal suo carisma, un folto gruppo di coloni si stringe intorno a lui. Un’altra comunità dalla vocazione più misticheggiante si consolida intorno a Hiroko Ai, specialista giapponese di sistemi di supporto vitale, che professa una nuova dottrina secondo cui la viriditas terrestre (l’energia vitale portata dai coloni) e il kami marziano (il potere spirituale che risiede nella terra stessa) debbano combinarsi per permettere la sopravvivenza umana sul pianeta. La sua figura assume connotati mitologici, e non è un caso che tra i personaggi principali sia l’unica a cui non viene riservato il punto di vista di alcun capitolo: il suo ruolo si manifesta attraverso l’influenza più o meno marcata che riesce a esercitare sugli altri personaggi. Arkady e Hiroko personificano due diverse concezioni della scienza: ingaggiata come parte attiva del dibattito politico ed esercitata come influenza sotterranea. Nessuna delle due pretende di essere quella giusta, ma con la loro presenza entrambe sfidano gli altri coloni a riflettere sul proprio ruolo nella creazione della società marziana.
“Lasciarsi la Terra alle spalle”
Tra questi due gruppi troviamo tutti gli altri scienziati e ingegneri sbarcati nel 2027: Maya Toitovna, la comandante della spedizione russa; Nadia Cherneshevsky, che si convince gradualmente della necessità delle idee bogdanoviste per la nascente società marziana; Frank Chalmers, a capo della spedizione americana, determinato a perseguire i propri obiettivi politici; e John Boone, la sua nemesi, l’astronauta che per primo ha messo piede su Marte nel corso della missione che ha preceduto l’Ares, e che tutti adesso guardano come una leggenda vivente.
Le numerose linee narrative di Red Mars si snodano intorno a due punti di svolta. Il primo riguarda la decisione se modificare o meno Marte per renderlo simile alla Terra. Alcuni vorrebbero preservare il pianeta nel suo stato incontaminato, come per esempio Ann Clayborne, una geologa segnata da un’infanzia di abusi, fin dall’inizio affascinata dal valore intrinseco della sua realtà minerale. Il principale sostenitore del programma di terraformazione è invece Saxifrage Russell, un fisico del Colorado che per tutti gli eventi del primo libro si sforza di portare avanti i suoi studi come se la scienza non avesse implicazioni politiche. Come vuole lo stereotipo dello scienziato avulso dalla realtà, sebbene provvisto di un forte senso morale, acquisisce spessore man mano che in quella realtà si trova costretto a calarsi. Ma senza che questo comporti alcun cedimento della sua fiducia nel ruolo della scienza. Citando le sue parole:
“«Come può la presenza di laghi, foreste o ghiacciai diminuirne il fascino? Al contrario, sono convinto che lo aumenterebbe. E vi aggiungerebbe la vita, il sistema più affascinante di tutti. Ma nulla di ciò che faremo potrà spianare Tharsis o riempire le Valles Marineris. Marte rimarrà sempre Marte, diverso dalla Terra, più freddo e selvaggio. Ma potrà essere Marte e il nostro pianeta al tempo stesso. E sarà così. È una caratteristica della mente umana: se può essere fatto, sarà fatto. Possiamo trasformare Marte e farne una cattedrale, un monumento all’umanità e all’universo intero. Possiamo farlo, perciò lo faremo…»” (Robinson, 2016a).
Il secondo punto di svolta è rappresentato dall’ideazione, da parte di un gruppo di scienziati russi ritiratisi in una specie di laboratorio-monastero, di un trattamento gerontologico in grado di riparare i danni biologici dell’invecchiamento. Come non tarda a realizzare John Boone, quando ci si aspetta di vivere altri duecento anni e non venti si cominciano a guardare le cose sotto un’angolazione diversa. È il punto di non ritorno: mentre i primi cento ricevono il trattamento e ne offrono le cure al maggior numero possibile di coloni, sulla Terra le Nazioni Unite e le transnazionali (le gigantesche compagnie che detengono il potere economico) se ne servono come arma di ricatto ai danni della popolazione. La contrapposizione tra i due sistemi di valori è netta. Da una parte le pulsioni capitalistiche alla spasmodica ricerca di una valvola di sfogo, nell’eterna rincorsa all’accaparramento del profitto. Dall’altra gli scienziati, i tecnici e gli ingegneri protagonisti di Red Mars, che incarnano una visione della storia come impresa collettiva, uno sforzo comune sostenuto dalla forza della conoscenza. La difficoltà maggiore per questi ultimi è proprio quella di “lasciarsi la Terra alle spalle”: liberarsi del retaggio delle convenzioni accettate acriticamente, maturare una vera coscienza planetaria adatta alla nuova realtà marziana, si profila come un’impresa ben più ardua della terraformazione del pianeta.
Verde: un sogno dentro un sogno dentro…
Le transnazionali uscite vincitrici dai disordini del 2061 hanno cooptato l’Autorità Transizionale, erede dell’Ufficio per gli Affari Marziani in seno alle Nazioni Unite, e stanno accelerando il processo di terraformazione. Nel frattempo si servono dei contingenti militari dell’Autorità e delle proprie forze di polizia privata per dare la caccia ai reduci della rivoluzione bogdanovista, che sono così costretti a una vita di clandestinità, possibile solo grazie alle identità di copertura fornite da compiacenti governi terrestri. Fin dalle prime pagine de Il verde di Marte facciamo la conoscenza di due nuovi personaggi, che si aggiungono alla già ricca galleria che abbiamo incontrato nel precedente volume. Nirgal è un esponente della prima generazione nata su Marte: un nisei, figlio di Hiroko Ai, geneticamente mutato per volontà di quest’ultima. Cresce in un ecosistema isolato sotto la calotta polare australe e, per sottrarsi all’ingombrante figura materna, appena ha l’età per farlo parte con suo padre, il primo clandestino sbarcato su Marte, alla scoperta del sottosuolo e del mondo di mezzo, tutto ciò che ancora sopravvive della resistenza. Nel corso dei suoi vagabondaggi Nirgal s’imbatte in Art Randolph, un terrestre da poco arrivato, con una missione assurda da assolvere che gli è stata affidata da William Fort in persona, il fondatore della Praxis (una delle transnazionali più potenti): acquisire Marte. La loro amicizia li porterà a lavorare insieme a Nadia per coordinare le diverse fazioni sorte dalle ceneri della resistenza, ed elaborare una carta dei valori che ne rifletta lo spirito condiviso. Se Nirgal e Fort sembrano usciti dalle pagine di Heinlein (Straniero in terra straniera, 1961), Art fa in qualche modo il verso al norstriliano Rod McBan di Cordwainer Smith (L’uomo che comprò la Terra, 1964).
La trilogia di Robinson, d’altro canto, partecipa con entusiasmo alla conversazione interna della fantascienza con se stessa, in quel gioco di specchi e di rimandi che permette ai lavori più recenti di interloquire su temi comuni con le opere e gli autori del passato. E gli omaggi al canone del genere sono davvero troppi per pensare di intercettarli tutti: i più suggestivi sono probabilmente i nomi presi in prestito per la topografia marziana, con città denominate Burroughs, Sheffield, Bradbury Point o Lasswitz e asteroidi che vengono ripetutamente battezzati in onore di Clarke. Ma forte è anche l’ispirazione politica della trilogia, che deve molto al pensiero marxista, tanto che uno dei rifugi del sottosuolo si chiama Gramsci e uno dei capitoli cruciali di Green Mars, incentrato sulla dichiarazione di Dorsa Brevia (che, en passant, viene redatta all’interno di un’immensa caverna: che Robinson abbia voluto dirci qualcosa sul rapporto tra l’idea e la sua traduzione nella pratica?), evoca fin dal titolo il leninista Che fare?
“In noi c’è lo spirito del luogo”
Altra figura-chiave di Green Mars, sul piano dell’intreccio il più denso e spettacolare dei romanzi della serie, è Sax Russell, a tutti gli effetti un uomo neorinascimentale, che assomma in sé un sapere scientifico enciclopedico, eterogeneo e variegato. È questo a fare di lui il fulcro della vicenda: se Nirgal in qualche modo subisce gli eventi e ne ricava insegnamenti per il futuro, trovandosi quasi per caso a guidare il movimento verde di Marte Libero, attraverso le proprie traversie personali Sax raggiunge la consapevolezza che già era stata di Arkady Bogdanov e diventa progressivamente il motore degli eventi. Il finale di Green Mars, benché irrisolto, è tra i più epici che la fantascienza possa annoverare e sottolinea ancora una volta la dimensione collettiva dei passaggi epocali. Ma molte questioni restano aperte, a cominciare dagli effetti collaterali del trattamento gerontologico. I nisei nati su Marte si sono infatti resi conto di far parte di una generazione invisibile, oscurata da quella che li ha preceduti e che per prima ha avuto accesso alle terapie longeviste. L’adesione di molti di loro alla lotta ecologista dei Rossi, la fazione degli ecoterroristi seguaci di Ann Clayborne, non può che essere vista anche come una reazione alla paura di non poter disporre del proprio avvenire.
Dal canto loro, i centenari hanno iniziato a sperimentare un’esperienza opposta: se i nisei si vedono privati del futuro, gli issei stanno smarrendo il loro passato. La memoria umana non è stata preparata dall’evoluzione a conservare i ricordi di una vita prolungata artificialmente ben al di là dei propri limiti biologici. Ben presto chi si è sottoposto al trattamento dovrà elaborare un’efficace strategia di resistenza per opporsi al degrado dei ricordi e della personalità. Ma intanto la tensione militare schizza di nuovo alle stelle. In una feroce selezione darwiniana le transnazionali, che hanno preso a divorarsi tra di loro, hanno partorito organismi sempre più grandi e famelici. Il processo di metastasi capitalistica da cui emergono le metanazionali fornisce il pretesto per lo scoppio della seconda rivoluzione marziana, che va a inserirsi nel più ampio palinsesto dei conflitti innescati sulla Terra da un’ormai inevitabile catastrofe ecologica.
Blu: tutti i colori di Marte
Marte emerge dalla guerra contro l’Autorità Transizionale e le metanazionali come un pianeta semiautonomo. Ormai è un mondo verde e un oceano liquido occupa gran parte del suo emisfero settentrionale: le città portuali prosperano e immense navi-città incrociano tra le sue rive. Non è ancora possibile vivere stabilmente all’aria aperta, ma la fioritura in una seconda Terra appare ormai solo questione di tempo. Anche per questo tra gli organi di governo istituiti nell’ambito della nuova costituzione vengono conferiti poteri speciali alle corti ambientali, preposte alla tutela dell’ecosistema. Dopo gli eventi che hanno coinvolto Sax nel precedente volume, qui è Ann a prendersi la scena. Come un congegno a orologeria il caso la spinge a intersecare la parabola del suo storico rivale: dietro ogni movimento nel vasto disegno di increspature che si susseguono sulla superficie di Blue Mars possiamo intravedere l’approssimarsi di quel momento, il punto di convergenza in cui le loro traiettorie finalmente si toccheranno. Come appare evidente, i titoli della trilogia evocano i colori caratteristici delle diverse fasi attraversate da Marte durante la terraformazione: da pianeta morto a ecosistema in costruzione, infine provvisto di una biosfera quasi autosufficiente. Ma i tre colori scandiscono anche la turbolenta vita pubblica delle colonie: il rosso, il verde e il blu incarnano lo spirito delle diverse fazioni che si succedono sulla scena politica marziana. Il blu diventa così il colore della sintesi attuata da quanti, tra i Verdi e i Rossi, accettano di misurarsi con benefici più ampi del loro interesse particolare, imboccando il cammino del “mutamento dei valori” (Wertewandel) per rimanere al passo con il mondo che cambia.
“In Robinson, natura e cultura sono categorie in continuo cambiamento,” ha scritto il critico Salvatore Proietti, “e l’evoluzione della comunità va insieme alle descrizioni del paesaggio trovato, e di quello in corso di perpetua ricostruzione da parte dei coloni” (Proietti, 2004).
Il blu di Marte riserva al lettore alcune delle pagine più liriche della serie, inclusa un’imprevista scorribanda ballardiana in un’Inghilterra sommersa dall’esondazione del Tamigi (cfr. Ballard, 2015), e non a caso molte di queste hanno luogo sulla Terra: nelle Alpi svizzere, in Provenza, in Grecia. E lo scenario si amplia ad abbracciare l’intero sistema solare, da Mercurio alle lune di Urano, evocando dettagli familiari che accendono una trama sempre più fitta di corrispondenze con altri lavori dell’autore, da Icehenge del 1984 a 2312, pubblicato nel 2012. È qui che ci confrontiamo con il senso della prospettiva, laddove vediamo l’umanità avviata sulla china di quello che Robinson definisce “Accelerando”, declinando così il concetto di Singolarità Tecnologica nei termini che verranno poi ripresi da Charles Stross nel romanzo che lo porta alla ribalta nel 2005. Gli effetti dell’accelerazione del progresso portano i cambiamenti a succedersi a un ritmo sempre più veloce e con un impatto sempre più dirompente. “Ci siamo spinti al di là della capacità di comprendere la nostra stessa tecnologia”, osserva a un certo punto Ann (Robinson, 2017). La sua è un’ammissione, non una resa, che prelude a una nuova dimensione nel rapporto di dualità con Sax.
“Dovunque vai, è dove noi siamo”
L’altro volto dell’Accelerando è la diaspora. Memore della lezione dickiana (si pensi soprattutto a Noi marziani del 1964), il romanzo anticipa con sensibilità fuori dell’ordinario le scene drammatiche che sono diventate pane quotidiano dei nostri notiziari: Marte nel xxii secolo somiglia terribilmente alle sponde europee del Mediterraneo. A differenza di quanto accade qui da noi nel 2017, il succedersi delle crisi migratorie impone ai marziani una nuova consapevolezza. Le scene degli autoctoni che si confrontano con questa invasione di disperati in fuga dalla Terra rivaleggiano per efficacia con l’esodo che conclude Il verde di Marte.
Il processo di formazione di una coscienza planetaria è ormai prossimo a compiersi. In un rito che rievoca le traslazioni de Le tre stimmate di Palmer Eldritch (1965), il suo esito dipende da un’anamnesi collettiva dei primi cento (un risveglio dall’oblio, “la perdita della dimenticanza” che è parte integrante dello gnosticismo di Dick), che finisce per interrogare ancora una volta il sistema di valori, le convinzioni e le certezze dei protagonisti. I cieli di Marte virano dal rosso al blu e il pianeta sembra ormai pronto per entrare in una nuova era di “armonia e benevolenza generale”. Marte si appresta così a diventare una seconda Terra, o meglio, allegoricamente, la terra delle seconde occasioni, dove evitare gli errori che hanno distrutto il prototipo. E noi possiamo chiudere il cerchio tornando alle parole pronunciate da Sax, in riferimento al possibile approccio dei coloni con Marte, nelle pagine iniziali di questo trittico grandioso:
“«Possiamo cercare di adattarlo […] ma la verità è che non riusciremo a farlo adeguatamente. È troppo grande e sono in gioco troppi fattori, molti dei quali sconosciuti. Ma quello che impareremo sarà di estrema utilità per il controllo climatico della Terra, per evitare l’effetto serra o un’altra era glaciale. È un esperimento di dimensioni planetarie e sarà sempre in divenire, senza garanzie o sicurezze. Ma questa è la caratteristica della scienza.»” (Robinson, 2016a).
Un unico grande romanzo-labirinto
I quadri di ampio respiro risultano particolarmente congeniali alla fantascienza, terreno fecondo per il grande affresco “storico” del futuro che infatti ha segnato tappe cruciali nell’evoluzione del genere. Tipicamente associato ai classici, con pietre miliari quali la Fondazione di Isaac Asimov (1951) e Dune di Frank Herbert (1965), o capolavori come Tutti a Zanzibar di John Brunner (1968), è un filone che non ha mai esaurito la sua spinta, tornando proprio con la trilogia marziana a esprimersi a vette altissime. Mutuando la prospettiva dai suoi scienziati, Kim Stanley Robinson mette in atto un progetto non meno ambizioso dei titoli appena citati, e lo fa partendo dai principi di qualsiasi indagine scientifica: la curiosità per ciò che ancora non conosciamo, il dubbio critico su ciò che già crediamo di conoscere. La trilogia è di fatto un unico, grande, labirintico romanzo, un’opera totale che esplora i diversi aspetti della nascente civiltà marziana senza risparmiare nessuna dimensione della sfera umana: scienza, politica, economia, scuola, lavoro, filosofia, arte, intrattenimento, informazione e perfino sport, tutto trova una propria declinazione tra queste pagine. In questo modo Marte diventa un laboratorio per interrogarsi sulla storia, sul progresso e sulla natura stessa dell’umanità, un banco di prova su cui testare idee, proposte e soluzioni. Robinson ha creato un gigantesco esperimento narrativo, un test di controllo per verificare la consistenza dei possibili approcci a questi problemi che sono dei sottocasi particolari di un unico grande problema generale: l’impatto dei comportamenti umani sull’equilibrio terrestre, lo sviluppo di una civiltà tecnologicamente avanzata e sostenibile sotto il profilo ambientale. Per dirla con le parole di Nirgal, Marte è uno specchio in cui osserviamo il riflesso della Terra.
Guardiamo pure come si trasforma Marte in questa trilogia, consideriamo le strategie suggerite per la sua colonizzazione, le proposte per la creazione di una società giusta, il cammino di graduale maturazione verso una vera coscienza planetaria. Ma se, alzando di notte lo sguardo al cielo stellato verso quel luminoso puntino rosso che ci affascina da millenni, non possiamo fare a meno di ripeterci che l’utopia di Robinson vale i nostri sforzi, allora perché non dovremmo sforzarci di metterli in pratica da subito, cominciando proprio da qui, a beneficio della Terra e di tutti noi?
- Isaac Asimov, Il ciclo delle Fondazioni, Mondadori, Milano, 2004
- James G. Ballard, Il mondo sommerso, Feltrinelli, Milano, 2015
- Ray Bradbury, Cronache marziane, Mondadori, Milano, 2016.
- John Brunner, Tutti a Zanzibar, Urania Mondadori, Milano, 2008.
- Philip K. Dick, Noi marziani, Fanucci, Roma, 2016.
- Philip K. Dick, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Fanucci, Roma, 2016.
- Robert A. Heinlein, Straniero in terra straniera, Fanucci, Roma, 2016.
- Frank Herbert, Dune, Fanucci, Roma, 2013.
- Salvatore Proietti, America marziana, 2014.
- Kim Stanley Robinson, 2312, Orbit, Londra, 2012.
- Kim Stanley Robinson, Aurora, Orbit, Londra, 2015.
- Kim Stanley Robinson, Icehenge, Nord, Milano, 1986.
- Kim Stanley Robinson, Il rosso di Marte, Fanucci, Roma, 2016.
- Kim Stanley Robinson, Il verde di Marte, Fanucci, Roma, 2016.
- Kim Stanley Robinson, Il blu di Marte, Fanucci, Roma, 2017.
- Kim Stanley Robinson, La costa dei barbari, Interno Giallo, Milano, 1990.
- Kim Stanley Robinson, The Martians, Bantam Spectra, New York, 2003.
- Cordwainer Smith, Norstrilia, Urania Mondadori, Milano, 2010.
- Charles Stross, Accelerando, Armenia, Milano, 2007.
- Henry David Thoreau, Walden: Vita nel bosco, Feltrinelli, Milano, 2014.