Era il 1903 quando William Edward Burghardt Du Bois scrisse nel prologo del suo celebre The Souls of Black Folk che: “il problema del ventesimo secolo è la linea del colore” (Du Bois, 2007). Poco più di un secolo dopo, nonostante i decenni di battaglie per i diritti civili e le guerre di indipendenza che hanno segnato la fine, almeno formale, del colonialismo, la linea del colore funziona ancora in diverse aree del pianeta. Il rinnovato protagonismo sulla scena pubblica mondiale del movimento black lives matter suggerisce che ciò che Du Bois considerava il problema del ventesimo secolo accompagnerà anche il ventunesimo.
Le radici che nutrono la linea del colore sono molte, profonde e difficili da estirpare. Tra queste è possibile annoverare Il pericolo di un’unica storia, espressione che la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie ha introdotto in un TED (Technology Entertainment Design, ndr) del 2009 e il cui testo è stato di recente pubblicato in Italia per Einaudi.
L’unica storia sull’Africa: quella europea
Prima di spiegare cosa sia l’unica storia, e perché sia così pericolosa, Adichie – come buona norma in un testo finalizzato a essere pronunciato oralmente di fronte a un pubblico – racconta alcuni aneddoti biografici capaci di catturare l’attenzione del lettore/ascoltatore e di condurlo dritto al cuore della questione che intende sviscerare. Tra questi ne risaltano due. Il primo vede come protagonista una Chimamanda bambina, nata e cresciuta in Nigeria, che inventa storie i cui personaggi hanno i capelli biondi, gli occhi azzurri e amano giocare sulla neve.
Il secondo risale al periodo in cui Adichie, lasciata la Nigeria per studiare in una università statunitense, deve spiegare a una stupita coinquilina americana perché una donna nigeriana sappia parlare inglese e ascolti Mariah Carey e non “musica tribale”. Entrambi questi episodi hanno origine nell’unica storia sull’Africa, di cui si può fare esperienza tramite lo sguardo altrui o che può essere tanto forte da essere inconsciamente interiorizzata, come nota l’autrice a margine del primo aneddoto:
“Mi ero convinta che i libri, per loro natura, dovessero avere personaggi stranieri e dovessero parlare di cose in cui non potevo identificarmi”
(Adichie, 2020).
L’unica storia sull’Africa è fatta di catastrofi e primitivismo, di paesaggi bellissimi e animali sconosciuti, di guerre e povertà. A questo immaginario contribuiscono diverse fonti narrative, all’origine delle quali Adichie colloca la letteratura occidentale. Una posizione affine a quella ampiamente argomentata da Valentin Y. Mudimbe in L’invenzione dell’Africa, in cui lo studioso congolese nota come la reificazione dell’Africa in quanto alterità assoluta rispetto alla progredita Europa sia stata resa possibile dal convergere dell’imperialismo e della letteratura antropologica che ha fondato la “biblioteca coloniale” (Mudimbe, 2017).
Sulla stessa scia la storica francese Catherine Coquery-Vidrovitch in Breve storia dell’Africa (2012), spiega come l’Africa sia nata dalla cartografia europea: il termine “Ifriqiya”, coniato dai Romani per designare Cartagine e ripreso dagli Arabi per indicare l’Africa settentrionale, viene attribuito all’intero continente in seguito alla sua circumnavigazione a opera dei portoghesi nel Quattrocento. Nel secolo successivo mercanti, missionari, esploratori e trafficanti di schiavi scriveranno quei diari di viaggio che finiranno per cancellare dall’immaginario occidentale tutto ciò che l’Africa è stata, e ha continuato a essere, prima e durante l’intensificazione dei suoi rapporti con l’Europa. Ed è in questa Africa, creata dall’Europa, che si annida il pericolo dell’unica storia nonché una delle più forti matrici epistemologiche di quella linea del colore di cui parlava Du Bois. L’unica storia, quindi, è l’identificazione assoluta di qualcuno o qualcosa con una sola possibilità, è il divieto di parlare al plurale, l’incapacità di tenere conto del molteplice. Perché l’unica storia è sì unica, ma è uguale per tutti coloro a cui viene attribuita. Nelle parole di Adichie:
“Mostrate un popolo come una cosa sola, come un’unica cosa, svariate volte, ed ecco che quel popolo diventa quella cosa”
(ibidem).
Tutti possono cadere nella trappola dell’unica storia, e tutti possono esserne artefici. Adichie racconta infatti altri episodi in cui lei stessa ha creduto, almeno temporaneamente, a delle uniche storie su altri gruppi di persone. Il punto però è che l’unica storia disvela i suoi effetti più pericolosi quando è convalidata da chi detiene il potere, perché:
“il potere è la possibilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di farla diventare la storia definitiva di quella persona”
(ibidem).
Così è stato per l’unica storia sull’Africa, così è oggi per i corpi neri che, muovendosi e vivendo altrove, a quell’unica storia vengono indissolubilmente ancorati. Due testi pubblicati nel 2019 fanno i conti con alcune versioni tutte italiane di questa unica storia. Si tratta di E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana, testo d’esordio di Espérance Hakuzwimana Ripanti, uscito per la casa editrice People, e di Consigli per essere un bravo immigrato, quinto romanzo di Elvira Mujčić, firmato per Elliot. Entrambi i testi prendono le mosse da narrazioni sbagliate, uniche, in cui personaggi e autrici sono stati a lungo intrappolati.
Una donna nera può essere italiana
E poi basta è un testo autobiografico che non segue le regole dell’autobiografia, alterna episodi biografici, riflessioni socio-politiche, lettere collocate in un prossimo futuro distopico, poesie. La lettura dà la sensazione di trovarsi di fronte a uno zibaldone in cui l’autrice annota, racconta, ricorda, immagina, spiega, critica, denuncia e prende la parola sulla fatica di essere donna, giovane e nera nell’Italia di oggi.
Una fatica che a un certo punto si è trasformata in una percezione di pericolo e che, scrive l’autrice, è una delle ragioni profonde che l’ha spinta a scrivere questo libro. La sensazione di essere in pericolo diventa esplicita nell’estate del 2018, quando in Italia si verificano diverse aggressioni, in alcuni casi omicidi, nei confronti di persone nere. In uno dei capitoli finali del testo, Corpi, Espérance ricorda i loro nomi, il paese d’origine, l’età, e l’atto di violenza, fisica e/o verbale, che è stato perpetrato nei loro confronti. Cerca di estrarli da quell’unica storia che li ha messi in pericolo. E infatti l’intero volume si mostra particolarmente efficace nel mostrare gli effetti violenti dell’unica storia sui corpi neri in Italia. Come recita il titolo, il libro nasce proprio dalla necessità di dire basta a una storia che toglie il respiro:
“Raccontarmi è sempre stato una recita, un bisogno degli altri da soddisfare, l’esigenza di sapere perché mi trovassi in quell’esatto posto. La giustificazione valida per farmi restare, un lasciapassare per poter partecipare. Loro curiosi, avidi di sapere. Io cavia, animale da palcoscenico”
(Ripanti, 2019).
Ciò che incuriosisce le persone è la ragione per cui la donna somiglia così tanto a loro; una “stranezza” che li legittima a rivolgerle continuamente tante domane, troppe e troppo personali. Ma cosa c’è all’origine di questo stupore? La linea del colore, la pelle nera che non può, in un immaginario limitato dall’unica storia per dirla con Adichie, appartenere a una persona italiana. O meglio, è l’italianità che non può appartenere a una persona nera. Per questo Espérance non può rispondere alla domanda “Di dove sei?” dicendo: “Di Brescia, di Flero, italiana, della Lombardia, del Nord Italia”. Questa risposta non viene mai accettata dai suoi interlocutori, i quali sistematicamente ribattono: “Sì, ma di dove sei veramente?”.
Quest’unica storia italiana, in base alla quale non si può essere neri e italiani, è il motivo per cui l’autrice ha pensato di essere bianca fino a otto anni nonché la ragione per la quale da bambina e da adolescente ha sofferto l’impossibilità di identificarsi con il personaggio di uno dei tanti libri che le piaceva leggere. Ed è la ragione per cui da adulta si trova intrappolata in ciò che chiama una “gabbia”, la gabbia dell’unica storia sulla donna nera:
“L’Italia non mi dà alternative: o sono una sportiva, o canto benissimo, o mi prostituisco. Per la maggior parte mi prostituisco. […] Quei contorni marchiati che mi hanno affibbiato in strada, a scuola, al lavoro e in giro sono nati come segni e poi sono diventati sbarre”
(ibidem).
Chiedere asilo politico non significa essere disperati
Un’altra versione di quest’unica storia grava su coloro che in Italia arrivano da adulti come richiedenti asilo, coloro cioè che hanno attraversato delle “tragedie collettive”, una questione che Elvira Mujčić ha posto al centro di diversi dei suoi romanzi.
In Consigli per essere un bravo immigrato si racconta l’incontro tra due personaggi, uno è la stessa autrice, Elvira, una donna arrivata in Italia dalla Bosnia ai tempi della guerra in Jugoslavia; l’altro è Ismail, un giovane uomo gambiano che vive in un centro di accoglienza romano e ha appena ricevuto il diniego della propria domanda di richiesta d’asilo. Due storie molto diverse ma caratterizzate da almeno un tratto comune: il faticoso e tenace tentativo di preservare la propria individualità ed evitare le trappole dell’unica storia sulle “vittime”. Volutamente bizzarra è l’occasione in cui i due personaggi si incontrano: una tavola rotonda per “migranti di successo” a cui Elvira, invitata dall’organizzatrice, decide di presentare una relazione dal titolo L’importanza della menzogna nell’autobiografia. Ismail, la cui storia bollata come non credibile gli è costata il diniego della Commissione, si reca a questo incontro proprio per chiedere a Elvira dei consigli su come essere un bravo immigrato, da cui l’ironico titolo del testo.
Nelle conversazioni tra Elvira e Ismail vengono così passate in rassegna le aspettative di vittimizzazione che gravano su chi giunge in Italia nelle vesti di profugo o richiedente asilo: ci si aspetta una storia devastante e allo stesso tempo una sofferenza composta e gestibile, si vuole con una curiosità quasi morbosa conoscere ogni dettaglio delle atrocità subite nel paese d’origine, nel viaggio, in Libia, insomma in quell’Africa in cui può succedere di tutto, ma non si intende sapere nulla di ciò che accade da quando si arriva in Europa. E se ci si mostra propositivi e desiderosi di ricostruire la propria vita, questo è sintomo di non credibilità della propria storia; una storia che viene pesata, vagliata ed esaminata e che garantisce il riconoscimento del diritto di asilo solo nella misura in cui rispecchia quell’unica storia che si vuole sentire sui rifugiati: persone disperate (ma non troppo), grate per l’aiuto ricevuto, prive di qualsiasi bisogno, desiderio o aspirazione che superi la soglia della sopravvivenza.
Un’esperienza, quella di vedersi incollata addosso l’indelebile etichetta di “vittima”, per la quale è passata la stessa Mujčić e che continua a perseguitarla a più di vent’anni dalla guerra in Jugoslavia e dal suo arrivo in Italia, quando si trova di fronte a delle persone che sono molto più interessate a offrire la loro “infinita compassione” che a riconoscere e apprezzare la “vitalità della sopravvivenza”.
E infatti l’incontro tra i due personaggi è sì nella comune esperienza di sradicamento a cui sono stati costretti, fuggendo l’una dalla Jugoslavia e l’altro dal Gambia, ma forse è ancora più nella classificazione e nella spersonalizzazione in cui sono stati incastrati una volta in Italia, in quell’atteggiamento di chi si sente legittimato a frugare continuamente nel loro dolore perché causato da eventi storicamente noti a tutti, rispetto ai quali però poco interessano le responsabilità storiche e politiche.
La battaglia è iniziata
Se i tre testi presi in considerazione mostrano efficacemente i pericoli dell’unica storia, ciascuna autrice delinea anche un percorso per combatterli. La soluzione di Adichie consiste nel dare forma a ciò che chiama un “equilibrio di storie”, ovvero narrare una pluralità di storie su luoghi, persone e fatti che sono stati troppo a lungo identificati con l’unica storia. I lettori di Adichie, ritornando con la mente a romanzi come L’ibisco viola, Metà di un sole giallo e Americanah, potrebbero riconoscere in queste parole un’affermazione della sua poetica letteraria e pensare a quante Nigerie hanno incontrato in quelle pagine.
L’efficacia di questa soluzione trova conferma proprio nel testo di Ripanti, la quale racconta come in un vuoto narrativo enorme ci siano stati scrittori e scrittrici (tra cui la stessa Adichie) che le hanno “salvato la vita”, la sua “famiglia di carta”. È stato nei libri che per la prima volta Espérance ha trovato una pelle simile alla sua, delle storie in cui riconoscersi e attraverso le quali, come tutti amano fare, riflettere su sé stessa e interpretare il mondo circostante. In questo senso E poi basta rappresenta un importante tassello di quel puzzle narrativo che da diversi anni sta costruendo un equilibrio di storie di cui l’Italia ha decisamente bisogno. Contro l’unica storia Espérance si racconta al plurale. E non lo fa solo per sé stessa, ma per tutte “le bambine come me”, per il loro diritto a non essere collocate unicamente in storie di guerra, di disperazione e di eroismo, e di essere rappresentate in tutte quelle narrazioni che raccontano le gioie e i problemi della vita quotidiana.
Talvolta però parlare di sé e della propria storia diventa un’opzione insostenibile, specialmente per chi oggi, presentando una richiesta di asilo allo Stato italiano, è costretto a raccontarsi di fronte a una commissione appositamente istituita, in un sistema di accoglienza che, sottolinea Mujčić, è apparentemente fondato “sul racconto di sé” ma in cui “l’atteggiamento non è quello di ascoltarlo ma di smontarlo”.
Consigli per essere un bravo immigrato ruota intorno a un dilemma: come tenere insieme la necessità di narrare di sé senza perdere la proprietà della propria storia? Un dilemma rispetto al quale il personaggio creato dalla Mujčić, Ismail, decide di mentire alla Commissione. Niente di nuovo, di fatto molte persone mentono perché non esiste un metodo per entrare legalmente in Italia, o perché il proprio vissuto non rientra tra le fattispecie previste dal diritto di asilo. Ma Ismail “sgonfia” la propria storia e ne racconta una meno dolorosa e pericolosa. Mente per sottrarsi allo sguardo di chi vuole vederlo solo come una vittima, ma anche e soprattutto perché “aveva deciso di tenere la sua vita per sé e per pochi altri”. La soluzione letteraria e sostanziale proposta da Mujčić è quella della menzogna nell’autobiografia:
“Mentire su sé stessi significa anche proteggere una parte di sé, che si tratti di un dolore o di una gioia; tenere quella parte al riparo dal mondo ci permette di riconoscerci o di ritrovarci in un nostro nucleo incorruttibile e inalienabile”
(Mujčić, 2019).
Ciascuno dei tre testi suggerisce allora che di fronte ai pericoli dell’unica storia occorre ingaggiare una battaglia narrativa nella quale ciascuno possa narrare alle proprie condizioni. O decidere anche di non narrarsi affato. Questa battaglia Adichie, Ripanti e Mujčić l’hanno già iniziata, e certamente sono in buona compagnia.
- Catherine Coquery-Vidrovitch, Breve storia dell’Africa, Il Mulino, Bologna, 2012.
- William Edward Burghardt Du Bois, Le anime del popolo nero, Le Lettere, Firenze, 2007.
- Vantine Y. Mudimbe, L’invenzione dell’Africa, Meltemi, Milano, 2017.