“Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali e intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito. Non ho dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloro che credono con me in questa causa potremo incontrare nel corso del nostro cammino. Né la prigione né la morte potranno impedire la nostra vittoria finale…”
(Saro-Wiwa, 2010).
Combattere la deforestazione e il riscaldamento globale comodamente da casa, semplicemente facendo le proprie ricerche sul web: non è fantascienza, ma una realtà ben affermata da circa dieci anni. Dal 2009 è infatti online Ecosia, un motore di ricerca verde con sede a Berlino ideato da un trentenne, Christian Kroll, che pianta alberi grazie ai suoi utenti. Il funzionamento è tanto semplice quanto efficace: l’80% dei ricavi ottenuti dalle inserzioni pubblicitarie ospitate sul sito viene devoluto ad associazioni partner che implementano progetti di riforestazione in diverse zone del mondo, contribuendo così alla riqualificazione di territori degradati e all’assorbimento di anidride carbonica. Quella attuata da Ecosia è dunque una strategia di compensazione delle emissioni attraverso cui la quantità niente affatto trascurabile di CO2 riconducibile a una singola ricerca sul web (circa 0.7g) viene neutralizzata dalla capacità di assorbimento degli alberi piantati. Le cifre sono tutt’altro che irrilevanti: grazie ai suoi circa otto milioni di utenti, il motore di ricerca ecologico ha già piantato più di trentanove milioni di alberi, ma il numero è in costante aumento. Il contatore sulla home page, infatti, aggiunge al computo circa un albero al secondo. L’obiettivo dichiarato è di piantarne un miliardo entro il 2022.
Christian Kroll, fondatore e amministratore delegato di Ecosia.
Proprio alla luce di questo notevole successo, che sembra fornirci una soluzione ideale per affrontare la questione ambientale, sembra opportuno avanzare qualche riflessione sulle caratteristiche e sugli effetti di Ecosia. Da un punto di vista ecologico, in primo luogo, dove occorre evidenziare che le strategie di compensazione delle emissioni attuate attraverso progetti di riforestazione incorrono in limiti dovuti alla scarsità di suolo e al rispetto della biodiversità: per assorbire i gas serra emessi globalmente occorrerebbe infatti ricoprire l’intera superficie terrestre con alberi che comprometterebbero i diversi ecosistemi e l’approvvigionamento agricolo (cfr. Boysen, 2011). La compensazione, dunque, configura una fattispecie di politica ambientale virtuosa, ma esclusiva: se venisse attuata sistematicamente da tutti gli attori economici si rivelerebbe ben presto insostenibile.
Questa contraddizione può essere ulteriormente e facilmente sviluppata tenendo conto che Ecosia alimenta la propria missione attraverso la pubblicità, promuovendo così un sistema produttivo e consumistico che è il principale responsabile del degrado ambientale che si vuole combattere. È una dinamica così paradossale che per ogni albero piantato grazie a un’inserzione di Amazon potremmo ritrovarci un’ulteriore busta di plastica dispersa in mare.
Da questa prospettiva, dunque, il progetto di Ecosia sembra non poter andare troppo lontano. Tuttavia, il suo effettivo impatto ambientale non è l’unico aspetto da approfondire e appurare. Dietro uno strumento così apparentemente semplice si nasconde infatti un complesso intreccio di processi tecnologici, economici, sociali e culturali.
Per offrire dei risultati di ricerca adeguati, Ecosia si appoggia alle infrastrutture e agli algoritmi di Bing (Microsoft) e Yahoo. Come è stato già osservato (cfr. Mager, 2013), la dipendenza tecnica dei motori di ricerca alternativi dai colossi dell’IT si traduce in una dipendenza dalle loro politiche. Potrebbe infatti verificarsi il caso che gli utenti, allo scopo di finanziare più progetti di riforestazione, clicchino appositamente sui banner pubblicitari, aggirando le norme che tutelano gli inserzionisti e causando loro un danno economico. È esattamente quanto verificatosi con Ecocho, vero e proprio antesignano di Ecosia, chiuso dal suo stesso partner Google nel 2008 proprio perché gli utenti ne violavano le politiche pubblicitarie con questa dinamica. Ma le partnership necessarie al funzionamento di questa macchina ambientalista offrono un ulteriore motivo di riflessione. Considerato che Ecosia è un’impresa sociale (cfr. Yunus, 2008), ovvero un’azienda che non punta alla massimizzazione del profitto bensì di un bene comune, il suo rapporto con le multinazionali del settore sembra quasi configurare una sorta di outsourcing delle esternalità positive. Per chi infatti ha come obiettivo fondamentale l’accumulazione di capitale, la presenza di un partner no-profit intento alla massimizzazione delle esternalità positive permette di scrollarsi di dosso una buona parte della cosiddetta responsabilità sociale d’impresa e i relativi costi.
Anche sul piano sociale e culturale, in riferimento al concetto di partecipazione, Ecosia presenta delle implicazioni suscettibili di approfondimento. Molto a lungo, infatti, il concetto di ambientalismo ha coinciso con quello di attivismo ambientale (cfr. Poggio, 1996).
Sin dalle sue prime avvisaglie, la crisi ecologica ha richiesto l’elaborazione di prospettive critiche e l’attuazione di processi conflittuali nei confronti dei responsabili del degrado ambientale. Dalla pubblicazione nel 1962 di Primavera silenziosa (Carson, 2016) alle rivendicazioni di Ken Saro-Wiwa in nome del popolo Ogoni, e dalla battaglia legale di Erin Brockovich alle varie conferenze internazionali passando per ogni conflitto ambientale verificatosi o attualmente in corso, tutte le principali tappe del movimento ambientalista hanno risposto a questi obiettivi. Al pari di altri movimenti sociali anti-sistemici (cfr. Arrighi, Hopkins, Wallerstein, 1992), l’ambientalismo si è tradotto in un modello partecipativo particolarmente impegnativo e spesso rischioso, basato sul valore delle idee, del dialogo, della negoziazione o, in molti altri casi, dello scontro.
Questa strategia ha in qualche modo dato i suoi frutti. Gradualmente, infatti, alcune delle richieste avanzate dagli ambientalisti sono state parzialmente recepite dagli attori politici ed economici innescando, soprattutto nel mondo occidentale, un processo di adeguamento e riparazione volto a ridurre l’impatto ambientale di certe attività umane. Si è così sviluppata una lunga serie di beni, servizi e processi che, sotto le etichette di sviluppo sostenibile e green economy, incorporano e materializzano alcune delle principali istanze ecologiste. Di conseguenza, la partecipazione ambientale ha smesso di coincidere esclusivamente con l’attivismo critico e conflittuale di alcuni gruppi per aprirsi pacificamente al consumo di massa responsabile. In questa nuova fase, che non sostituisce la precedente ma la affianca, chiunque può fare la propria parte nella tutela dell’ambiente adottando certi accorgimenti quotidiani o acquistando determinati prodotti. Dalla raccolta differenziata dei rifiuti al sacchetto biodegradabile, e dagli incentivi sulle energie rinnovabili a Ecosia, sono molti gli esempi che si possono addurre per evidenziare come la partecipazione ambientale si sia quotidianizzata e materializzata (cfr. Marres, 2011) attraverso un gran numero di tecnologie partecipative (cfr. Thrift, 2008).
Diverse sfumature politiche del verde
Pur rappresentando una piccola vittoria dell’ambientalismo, almeno nelle sue versioni più morbide e liberali, questi dispositivi (cfr. Agamben, 2006) danno vita a una sorta di dilemma: quando la partecipazione ambientale si materializza ed entra nel quotidiano, quest’ultimo diventa finalmente politico?
Oppure, al contrario, si assiste allo svilimento e alla privatizzazione della partecipazione? Come in ogni dilemma che si rispetti, entrambe le possibilità possono verificarsi. Presumibilmente, infatti, una buona fetta di fruitori della green economy viene sensibilizzata ed educata dai suoi consumi, mentre un’altra ampia porzione di pubblico continua a non interiorizzare alcuna consapevolezza. Una possibile soluzione a questo dilemma può però provenire da una più attenta analisi dei singoli dispositivi partecipativi.
La differenziazione dei rifiuti, per esempio, rappresenta per molti un’ulteriore e noiosa fatica domestica, tale da essere spesso disattesa e ignorata. Tuttavia, proprio in virtù dello sforzo che richiede, chi la pratica correttamente tenderà a riflettere sul valore ecologico di ciò che sta facendo e sarà portato a non vanificare i propri sforzi e a maturare una coscienza ambientale. Lo stesso può dirsi per un detersivo biodegradabile o per l’acquisto di energia da fonti rinnovabili: se il loro costo rappresenta per alcuni un disincentivo, chi spende in certi prodotti tenderà a dare un senso al proprio investimento. Con Ecosia, invece, ci troviamo di fronte a una tecnologia dall’utilizzo estremamente facile, non impegnativo, gratuito e completamente scollegato da un immediato e tangibile effetto ambientale. Paradossalmente, un suo utente potrebbe contribuire a piantare un albero facendo una ricerca su come abbatterli. Al di là di questo caso limite, si può presumere che la semplicità e la supposta neutralità di certi dispositivi partecipativi tendano a privatizzare la partecipazione, scollegandola dal loro potenziale valore ecologico.
A ben vedere, il successo della green economy consiste, come suggerisce l’espressione stessa, in una delega della partecipazione alla mano invisibile del mercato, come ben evidenziato dal motto ecosiano “tu fai ricerche su Internet, noi piantiamo alberi”. È abbastanza difficile immaginare la popolarità di Ecosia in assenza di questo rimando: quanti utenti lo userebbero se gli alberi dovessero essere piantati da loro stessi?
In conclusione, Ecosia rappresenta uno strumento senza dubbio innovativo e affascinante, quasi magico per molti suoi utenti, entusiasti di poter fare qualcosa di buono per l’ambiente in maniera così semplice. L’effettiva sostenibilità del servizio offerto andrebbe però appurata ed eventualmente raffinata, perché allo stato attuale diverse criticità impediscono a Ecosia di assumere un ruolo rilevante e una posizione credibile nel quadro dell’ecologia politica (cfr. Gorz, 2017).
Pur presentando notevoli potenzialità, quantomeno in termini di sviluppo sostenibile ed educazione ambientale, il servizio fornito da Ecosia rischia inoltre di svilire la partecipazione alla questione ecologica, minimizzandola e riducendola a un inconsapevole giochino digitale che conduce a soluzioni già pronte sul mercato, alimentando quella stessa macchina globale contro cui si pone come alternativa.
Se la vittoria finale di Ken Saro-Wiwa e del popolo Ogoni non poteva essere impedita né dal carcere né dalla morte, la nostra sconfitta resta a portata di clic.
- Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma, 2006.
- Giovanni Arrighi, Terence Hopkins, Immanuel Wallerstein, Antisystemic movements, Manifestolibri, Roma, 1992.
- Lena Boysen et al., The limits to global-warming mitigation by terrestrial carbon removal, in Earth’s Future, 5, American Geophysical Union, Washington, 2017.
- Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano, 2016.
- Andrè Gorz, Il filo rosso dell’ecologia, Mimesis, Milano, 2017.
- Astrid Mager, In search of ideology. Socio-cultural dimensions of Google and alternative search engines, Austrian Academy of Sciences, Vienna, 2013.
- Noortje Marres, Material participation. Technology, the environment and everyday publics, Palgrave Macmillan, New York, 2015.
- Andrea Poggio, Ambientalismo, Editrice Bibliografica, Milano, 1996.
- Ken Saro-Wiwa, Un mese e un giorno. Storia del mio assassinio, Dalai Editore, Milano, 2010.
- Nigel Thrift, Non-Representational Theory. Space, politics, affect, Routledge, Londra, 2008.
- Muhammad Yunus, Un mondo senza povertà, Feltrinelli, Milano, 2008.
- Steven Soderbergh, Erin Brockovich – Forte come la verità, Universal Pictures, 2000.