Un eroe del nostro tempo:
il predatore Massimo De Caro

Sergio Luzzatto
Max Fox. O le relazioni pericolose
Einaudi, Torino, 2019

pp. 320, € 20,00

Sergio Luzzatto
Max Fox. O le relazioni pericolose
Einaudi, Torino, 2019

pp. 320, € 20,00


Anche il napoletano di lungo corso o il turista avvertito difficilmente conosce la Biblioteca dei Girolamini. Pur essendo ospitata in uno dei più grandi tra gli imponenti complessi che il vicereame spagnolo fece costruire tra il Cinquecento e il Seicento cambiando per sempre il volto della città di Napoli, la Biblioteca dei Girolamini, frequentata da personaggi come Giambattista Vico, è chiusa da molti anni, dai tempi del terremoto del 1980, ferita ancora aperta nell’urbanistica locale. Una facciata monumentale del complesso dà sull’omonima piazza sulla centralissima e pittoresca via dei Tribunali, recintata per evitare che diventi parcheggio abusivo o campetto di calcio degli scugnizzi, ornata da grandi e stracolmi cassonetti dell’immondizia, in attesa del recupero e della riapertura. In questo contesto, tra il 2011 e il 2012, un sedicente dottor De Caro, che dottore non era, si abbandonò al più clamoroso e pervicace saccheggio di una biblioteca pubblica che si ricordi in epoche recenti e in tempi di pace.


Biblioteca dei Girolamini, interno. Fu aperta al pubblico nel 1586 ed è la seconda più antica biblioteca pubblica d’Italia.

L’impostore
Oltre 2.500 libri, la maggior parte cinquecentine, di valore inestimabile, presero nottetempo, all’interno di appositi furgoni, la via delle più prestigiose librerie antiquarie d’Europa, per finire poi nelle mani di collezionisti privati. Poi un articolo dello storico dell’arte Tomaso Montanari su Il Fatto Quotidiano lanciò l’allarme, seguì l’inchiesta, l’arresto, il processo, la confessione, la detenzione, poi i domiciliari, poi di nuovo la detenzione. Più che storia, il resto è cronaca (penale). Ma non per Sergio Luzzatto. Storico dell’età moderna, autore di brillanti e rigorosi testi sulla Rivoluzione francese, l’Italia risorgimentale e quella fascista, Luzzatto del tutto per caso si imbatte nella storia di Massimo De Caro e decide di dedicargli un libro. Operazione pericolosa, decisamente controversa, per uno storico che vorrebbe dismettere i suoi panni abituali e assumere quelli, per sua stessa ammissione, di modelli letterari elevatissimi, come l’Emmanuel Carrère de L’avversario, celeberrimo libro-analisi del pluriomicida Jean-Claude Romand, o del Javier Cercas (che come Luzzatto era professore universitario prima di dedicarsi alla scrittura a tempo pieno) de L’impostore. Tanto più rischioso perché, come questi suoi modelli, Luzzatto decide di aprire un dialogo diretto con De Caro, incontrandolo nella sua villa quando si trova ai domiciliari, poi quasi sempre e solo via Skype, per mesi e mesi, e decidendo di non affiancare quella voce a quella dei suoi accusatori (come Montanari, che non a caso bollerà il libro come “un’indegna apologia”) o delle sue “vittime”, per esempio i bibliotecari di lungo corso dei Girolamini.
Perché? La domanda è duplice. Perché, innanzitutto, Massimo De Caro è diventato “il mostro dei Girolamini”, cosa lo ha spinto a diventare quello che è diventato? Ma anche: perché Sergio Luzzatto, storico letto, stimato, apprezzato, ha deciso di tentare una così pericolosa operazione, in questi termini? Partiamo da qui. La spiegazione va trovata nella produzione passata di Luzzatto, in particolare nella sua monografia dedicata a Padre Pio. Testo controverso anch’esso, fuori dai sentieri ben battuti della ricerca storica dell’autore, ma in apertura al quale egli scrive:

“Evidentemente, quanto risulta pacifico agli studiosi del Medioevo – il fatto di indagare le credenze non equivale a confessarsi creduloni – rimane ostico da comprendere agli studiosi del Novecento” (Luzzatto, 2007).

Analogamente, spiegare il criminale non equivale a giustificarlo; ma anche questo sembra ostico da comprendere agli studiosi del XXI secolo. Come Luzzatto era interessato a studiare, più che Padre Pio, “il mondo di Padre Pio”, Max Fox è un libro sul mondo di De Caro. Su un personaggio emblematico di una generazione, di un’epoca in cui tutto diventa possibile.

Max Fox
Passiamo a Massimo De Caro, il “Max Fox” eponimo, nickname su Skype (su cui si sviluppano le lunghe conversazioni tra l’autore e l’oggetto della sua indagine). Una volpe, certamente, come suggerisce il nickname; di più, un autentico genio della truffa e della contraffazione, un personaggio degno delle storie di Arsenio Lupin, che si muove in un sottobosco di personaggi che sembra invece uscito da un film di Paolo Sorrentino: magnati russi delle energie, politici facili alla compravendita, cardinali di Santa Romana Chiesa, avvenenti segretarie ucraine, rozzi stampatori della periferia argentina, raffinati librai d’antiquariato. Classe 1971, figlio di Stefano De Caro, dirigente sindacale della CGIL, e di Lucia Motti, storica e anche lei sindacalista, di fede eminentemente di sinistra, Marino Massimo De Caro cresce prima a Merano e poi a Orvieto. Brillante negli studi, diventa assistente parlamentare di un senatore diessino e si candida a sua volta come consigliere comunale.
Un amico coetaneo, Stefano Ceccantoni, proveniente da un’antica ma decaduta famiglia dell’aristocrazia locale, per racimolare un po’ di soldi cerca di vendere qualche vecchio libro sul mercato antiquario. De Caro di libri non ne sa molto, ma il collezionismo lo capisce, si interessa di filatelia e numismatica. Convince l’amico (che finirà anche lui in galera) a vendergli i libri. De Caro va da un antiquario di Montepulciano e li rivende realizzando un grosso guadagno. Non è che l’inizio. Durante il servizio militare, a Città della Pieve, De Caro è carabiniere e nel tempo libero convince il parroco locale a fargli sistemare la biblioteca della cattedrale, in pessime condizioni. Giura di non aver rubato nulla, lì, ma di esserne uscito non solo esperto di libro antico, ma anche con un’importante lesson learned: impara infatti “la fragilità strutturale dei fondi antichi presso le biblioteche ecclesiastiche d’Italia. La scarsa tutela garantita a libri anche preziosi, preziosissimi. Cinquecentine o seicentine malamente catalogate, o non catalogare affatto”. Sposatosi, finito fuori corso all’università, con un collega e conterraneo, Stéphane Delsalle, padre francese, decide di mettere a frutto ciò che ha imparato.

Marcello Dell’Utri. Nel 2007 annuncia di essere entrato in possesso dei diari di Mussolini, poi dichiarati falsi dagli storici.

All’Istituto dei Sordomuti di Verona basta corrompere l’economo per sottrarre dalla biblioteca una ventina di libri e rivenderli, per venti milioni, a una libreria di Milano. Poi, alla Mostra del libro antico che Marcello Dell’Utri organizza ogni anno a Milano, i due conoscono nel 2001 Daniel Pastore, che appena trentenne possiede una ben avviata boutique di libri antichi a Buenos Aires. Approfittando della crisi, è possibile acquistare libri a buon prezzo e rivenderli sul mercato internazionale. I due non se lo fanno ripetere e nel maggio 2002 “i due conquistadores del terzo millennio” volano per la prima volta in Argentina concludendo un favoloso affare che gli farà incamerare parecchio denaro e la possibilità di aprire una loro libreria a Verona, “Imago Mundi”, filiale dell’omonima libreria argentina di Pastore, comprando poi anche casa a Buenos Aires. Gli affari vanno a gonfie vele, ma non senza ombre. Un fondo Borges che De Caro mette in vendita presso la casa d’arte Bloomsbury di Londra, nell’autunno 2003, provoca una tempesta mediatica perché uno dei titoli sarebbe stato trafugato dalla Biblioteca nazionale argentina di cui proprio Borges era stato direttore.
Di Buenos Aires è anche il cardinale Jorge Maria Mejia, direttore dell’Archivio Segreto e della Biblioteca Vaticana. Da qui l’idea: dopo aver depredato qualche fondo di parrocchia, perché non puntare a quella più grande di tutte: il Vaticano? Nulla di illecito, sosterrà De Caro. Piuttosto, uno scambio: alcune opere che la Biblioteca Vaticana possiede in più copie vengono permutate con alcune copie uniche che De Caro e soci riescono a reperire. Ma tra le copie “di poco valore” che il Vaticano dismette ci sono pezzi unici, tra cui una primissima edizione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, e altre opere dell’astronomo in prima copia, come le Operazioni del compasso appartenute al fondatore dell’Accademia dei Lincei.
Difficile credere davvero che il cardinale Mejia abbia concluso “l’affare” con consapevolezza di quanto stava andando a firmare. Fatto sta che quelle opere finiscono sul mercato, attirandosi l’attenzione di un articolo in prima pagina del Corriere della Sera che decanta i pezzi unici del fondo Galileo che De Caro mette in vendita alla mostra del libro antico di Dell’Utri nel marzo 2004.

La banda degli onesti
Perché tutto questo interesse per Galileo? Tra i libri dell’amico d’infanzia Ceccantoni c’è un’edizione del Saggiatore del 1623, seconda tiratura, con tanto “di ritratto coevo di Galileo, e con la firma d’appartenenza, sul frontespizio, di tale Dioniso Clementini”.
L’amico gli fa resistenza, dice che vale parecchio, quantifica il valore in due milioni di lire, ma De Caro se lo fa valutare molto di più e decide di liquidare l’amico con la cifra richiesta, per poi rivenderlo per “la bellezza di quindici milioni in contanti”. Quella numero uno, come la definisce Luzzatto, ritorna prodigiosamente però nelle mani dello stesso De Caro quando, nel 2005, alla New York Antiquarian Book Fair, lo stesso libro (riconosciuto dalla firma) è tra i volumi in vendita. Si accorda per 50mila dollari e lo regala alla moglie, per resistere alla tentazione di rivenderlo.
Ogni collezionista di libri finisce, inevitabilmente, per specializzarsi su qualche tema. Quella di Galileo è una fissa che in Massimo De Caro nasce del tutto per caso: poteva essere Napoleone, Giordano Bruno, Pico Della Mirandola. Invece è Galileo, e su quel tema De Caro diventa talmente esperto da arrivare a progettare un’operazione che sembra uscita da un libro di Borges: realizzare un falso talmente perfetto del Sidereus Nuncius, il trattatello con cui Galileo nel 1610 annunciava le prime scoperte realizzate al telescopio, da ingannare l’occhio di qualsiasi esperto.

Biblioteca dei Girolamini, interno. La Biblioteca fu frequentata, tra gli altri nomi illustri, da Giambattista Vico.

Per riuscirci inizia a farsi le ossa su un’altra opera galileiana, quelle Operazioni del compasso ottenuto per vie traverse dalla Biblioteca Vaticana. Con uno scanner A3, chiuso nella penombra del suo appartamento in un grattacielo al centro di Verona, acquisisce una per una le pagine, preventivamente scucite, del libro, le ritocca in Photoshop per correggere le imperfezioni della scansione, quindi converte i file in lastre di materiale plastico a rilievo così “da garantire poi la battuta tipografica, l’impronta lasciata dal torchio sulla carta”, perché altrimenti chiunque si accorgerebbe che si tratta di una banale fotocopia. E la carta antica? C’è un tipografo, alla periferia di Buenos Aires, “c’aveva un panzone… con ‘sta maglietta tutta sporca d’inchiostro”, che conosce la procedura.
Il trucco riesce: una copia identica alle originali del Compasso convince l’occhio degli acquirenti alla International Antiquarian Book Fair di Londra. Forte di questo successo, De Caro parte nella più spericolata delle operazioni: una replica della prima edizione del Sidereus Nuncius, con tanto di illustrazioni acquarellate delle fasi lunari realizzate dalla mano stessa di Galileo.
Stessa procedura, col tipografo panzone a impastare carta di stracci in un freddo inverno argentino, dove per riscaldarsi i falsari scaldano salsicce su una piastra; i tondi della luna, acquerellati da un artista esperto di cui De Caro non rivelerà il nome, con colori d’epoca acquistati ad hoc, vengono realizzati usando fondi di bicchiere nell’elegante libreria Imago Mundi di Buenos Aires. Infine, l’annuncio al Palazzo Bo dell’Università di Padova. Così clamoroso da ottenere una pagina intera sul Corriere della Sera a firma di Giovanni Caprara, rilanciato poi da tutte le più grandi testate del mondo. Ad apporre il timbro della veridicità di quella copia sono lo storico dell’arte Horst Bredekamp della Humboldt-Universität di Berlino e lo storico della scienza William R. Shea, titolare della cattedra galileiana all’Università di Padova: quella copia non solo è vera, ma è anche unica, per le straordinarie illustrazioni.
L’apoteosi borgesiana si raggiunge quando il professor Bredekamp pubblica nel 2007, per una prestigiosa casa editrice, una monografia di oltre cinquecento pagine in cui discute del ruolo fondamentale per la storia della scienza della scoperta della copia del Sidereus Nuncius con le illustrazioni di Galileo. Libro che ottiene recensioni entusiastiche da stimati colleghi su prestigiose testate.

Carta bianca
Nel frattempo gli interessi di De Caro sono mutati. In quel periodo entra in contatto un facoltoso oligarca russo, Viktor Vekeselberg, col quale traffica in energie rinnovabili in Puglia. Le entrature politiche di De Caro aumentano, riesce a convincere Massimo D’Alema a inserire in fretta e furia la firma di un accordo tra l’oligarca e un funzionario di un’azienda pubblica di gas, sotto gli occhi di Vladimir Putin e dell’allora premier Romano Prodi. Anche questo un contratto farlocco, inventato di sana pianta al solo scopo di ottenere la foto per aumentare il prestigio di Vekeselberg, e di De Caro. Il quale festeggia con fiumi di spumante a bordo del jet privato del magnate, mentre continua a tessere la sua improbabile tela: col cardinale Mejia organizza in Vaticano una mostra di uova Fabergé posseduta da Vekeselberg, gesto di riavvicinamento tra Chiesa ortodossa e Chiesa cattolica. Sono scene a metà tra Loro e The Wolf of Wall Street. Ma Luzzatto, che ha un talento cinematografico nel raccontarci questa storia incredibile, sa già dove trovare la scena che gli può valere l’Oscar.
Napoli, 19 maggio 2011. Al Grand Hotel Parker’s Massimo De Caro siede insieme al magistrato Giovanni Melillo che l’anno successivo firmerà il suo mandato d’arresto. Da lì a meno di due settimane, il ministro della cultura Giancarlo Galan, di cui De Caro è già consulente, lo nominerà direttore della Biblioteca dei Girolamini. Lui, nel frattempo, ha continuato a darsi da fare: in una puntata alla Biblioteca Nazionale di Napoli trafuga un Sidereus Nuncius originale sostituendolo con uno dei falsi argentini; da consulente ministeriale si fa dare accesso alla Biblioteca del Seminario di Padova, alla Capitolare di Verona, all’antichissima Biblioteca dell’Abbazia di Montecassino, lasciando il monaco bibliotecario novantenne in compagnia di un’avvenente ventenne ucraina, sua segretaria particolare, per distrarlo mentre lui infila le opere più prestigiose in un grosso borsone. Al Grand Hotel Parker’s, De Caro se la ride di giusto e fa ridere la platea con queste parole:

“Innanzitutto vi ringrazio, e mi trovo in una posizione un po’… diciamo… scomoda. Perché è vero che sono consigliere particolare del ministro, però sono anche… diciamo… una persona a cui piacciono moltissimo i libri, e piacciono moltissimo le biblioteche. E quando il ministro è stato nominato, appunto, ministro per i Beni culturali, e mi ha chiesto di seguirlo in quest’avventura, io gli ho detto: pensaci bene, perché diventerò la tua ossessione… [risate in sala]. Sì [ride], diventerò la tua ossessione! Al che lui, per fortuna… diciamo… perché è una persona che capisce quali sono le esigenze, e quali sono le emergenze, mi ha detto: Massimo, per le biblioteche hai carta bianca”.

Lui non se lo fa ripetere. Talmente carta bianca che, quando Tomaso Montanari, avvertito da una segnalazione di un collega, si reca ai Girolamini, lo trova “assorto nel maneggio dei volumi più pregiati della collezione, tra pile di libri preziosi incongruamente poggiate sul pavimento, lattine vuote di Coca-Cola che troneggiano sugli antichi banconi”. I bibliotecari parlano di interi scaffali svuotati, di strani maneggi, personaggi equivoci che vanno e vengono, manovre di furgoni nottetempo, vasche Jacuzzi installate negli uffici. Nemmeno la cassaforte con i volumi più preziosi sarà risparmiata. Il saccheggio porterà alla sottrazione di oltre duemila volumi prima dell’intervento della magistratura.

L’Anticristo di ogni topo di biblioteca
“Se fondare una biblioteca equivale a preservare l’umanità da una carestia dello spirito, distruggere una biblioteca equivale ad accrescere la fame nel mondo”. Sono le parole, che citano una frase famosa di Marguerite Yourcenar nelle Memorie di Adriano, usate dal magistrato Antonella Serio per descrivere il saccheggio dei Girolamini. Per Sergio Luzzatto, la carriera di Massimo De Caro è la spia di “un inverno dello spirito”. Affascinato, certamente, da questo personaggio da commedia picaresca, come lui bibliofilo ma diversamente da lui in grado di fare di questa morbosa passione un crimine senza precedenti nel settore, Luzzatto non giudica, non assolve, non condanna. Pur rinunciando al mestiere di storico (non si può essere storici del presente, conclude), non si sottrae al tentativo di capire.

Massimo De Caro ritratto da direttore della Biblioteca dei Girolamini.

Se non capiamo, non possiamo evitare che nuovi De Caro emergano di nuovo in futuro. Per evitarlo, dobbiamo invece capire come Massimo De Caro sia diventato “il mostro dei Girolamini”: la sottocultura degli anni Ottanta (“dove tutto era possibile”, come ricorderà nostalgico De Caro), la permeabilità del demi-monde della politica italiana e delle gerarchie vaticane, lo stato miserabile delle biblioteche storiche di tutto il paese, l’indifferenza nei confronti del patrimonio librario, la trasformazione del mercato del libro antico in un ambiente frequentato non da paludati professori e intellettuali ma da uomini d’affari in doppiopetto attratti dal bene rifugio. È questo il contesto in cui prende corpo la vicenda umana di Massimo De Caro. Al di là del giudizio sull’uomo, Luzzatto ci lascia con qualcosa di ben più importante: il giudizio su un’epoca, una società per niente cambiata, in cui uomini come De Caro diventano “eroi del nostro tempo”, riuscendo a mettere la loro intelligenza al servizio di conturbanti e distorte visioni del mondo, in cui un libro abbandonato in una pubblica biblioteca alla mercé del tempo è un delitto a cui il bibliofilo deve opporsi anche trafugando il libro per suoi godimenti privati, affinché perlomeno sia tratto in salvo dall’oblio. Quella tentazione a cui ogni bibliofilo, certamente anche Luzzatto, deve aver vissuto almeno una volta; e che rende pertanto la parabola di De Caro così attraente, perché parla alla nostra cattiva coscienza, di cui il “mostro dei Girolamini” è una sorta di personificazione, un Anticristo di ogni topo di biblioteca che giunge sulla terra quando i tempi sono compiuti.

Letture
  • Sergio Luzzatto, Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Einaudi, Torino, 2007.
  • Tomaso Montanari, Libri, uomini e topi, Il Fatto quotidiano, 30 marzo 2012.
  • Tomaso Montanari, L’indegna apologia del ladro di libri, Il Fatto quotidiano, 5 marzo 2019.