Cinquant’anni dopo, l’immagine dell’eclisse solare scelta per la copertina di Zeit (1972), il terzo album dei Tangerine Dream, quel buio cosmico impressionante ha assunto definitivamente un significato funesto: dopo la morte nel 2015 del fondatore Edgar Froese, preceduta da quella di Conrad Schnitzler nel 2011, è giunto il tempo anche di Klaus Schulze, scomparso lo scorso 26 aprile. Lui che nel tempo sarebbe stato appellato come Maestro dai suoi fan era il terzo membro di quella prima e pioneristica formazione che nel 1969, grossomodo mentre dall’altra parte dell’oceano si teneva il raduno di Woodstock, avviò una storia ora davvero conclusasi, almeno per i suoi protagonisti storici.
Nel post pubblicato su Facebook e riportato più sotto, firmato dal figlio Maximilian Schulze e a nome della famiglia e del team di Schulze, si legge:
“Con profondo dolore dobbiamo informarvi che Klaus si è spento ieri, 26 aprile 2022, all’età di 74 anni dopo una lunga malattia. Tuttavia è venuto a mancare improvvisamente e inaspettatamente. Non solo lascia una grande eredità musicale, ma anche una moglie, due figli e quattro nipoti. A nome suo e della famiglia, vogliamo ringraziarvi per la vostra lealtà e il vostro sostegno nel corso degli anni: ha significato molto! La sua musica continuerà a vivere e anche i nostri ricordi. Ci sarebbe tanto da scrivere su di lui come persona e artista, ma probabilmente ora avrebbe detto di non dire niente”.
Contravvenendo a questa ipotetica richiesta di silenzio, qualche parola per ricordarlo pare necessaria, doverosa, se non obbligatoria nei confronti di un musicista, assai legato come immagine alla stagione d’oro dei sintetizzatori elettronici e del rock elettronico made in Germany, in realtà rimasto attivo fino a oggi, risultando alfine uno dei più prolifici compositori di musica elettronica la cui influenza è di dimensioni ardue da stimare. Aveva smesso di tenere concerti dal 2010 ma era tuttora in attività, tant’è che ai primi di aprile aveva anche annunciato per il prossimo 10 giugno l’uscita di un nuovo album.
Ebbene, chi è stato Klaus Schulze? Torniamo ai Tangerine Dream. Quel trio durò una stagione, il tempo di registrare Electronic Meditation, poi ognuno intraprese una strada propria tracciando complessivamente la mappa principale di tutta la musica elettronica da allora a oggi, se vi includiamo anche un’altra mente teutonica, anch’essa scomparsa di recente, ovvero Florian Schneider degli originari Kraftwerk, che se ne è andato il 21 aprile 2020.
Electronic Meditation venne registrato nell’autunno del 1969 e uscì nel giugno del 1970. Nonostante il titolo, non venne utilizzato alcuno strumento elettronico. All’opera per mano di Froese ci sono le chitarre, il pianoforte, l’organo, gli effetti e i nastri che si intrecciano con violino, violoncello di Schnitzler e con l’addiator utilizzato proprio da Schnitzler (un’addizionatrice, in pratica una piccola calcolatrice per eseguire addizioni e sottrazioni) e la batteria e le percussioni suonate da Schulze, che ai tempi altro non era: un batterista. L’elettronica era evocata dalla bizzarra copertina con un bambolotto attraversato da fili elettrici e spinotti, mentre la musica cercava un punto d’incontro tra psichedelia pinkfloydiana (quella del disco in studio del doppio Ummagumma) e musica concreta, confluendo in un art rock ancora in cerca di equilibrio. Il disco chiudeva riprendendo dall’attacco del primo brano, Genesis; una circolarità analoga a quella connaturata ai nastri dei registratori a bobine. L’equilibrio fra i tre durò poco: questione di personalità, ognuna ingombrante per le altre. Schulze, dunque ne uscì presto e nel 1971 diede vita assieme a Manuel Göttsching e Hartmut Enke a un’altra band protesa verso lo spazio: gli Ash Ra Temple. Il ruolo però era ancora principalmente quello di batterista. Un anno dopo, il giornalista Rolf Ulriche Kaiser, dopo aver coniato la fortunata (e contestatissima) definizione Die Kosmischen Kuriere (i corrieri cosmici) inaugurò l’etichetta Kosmische Musik, che diventerà un marchio di fabbrica per buona parte della scena musicale tedesca, quella sedotta dagli strumenti elettronici e da una miscela culturale a base di psichedelia, filosofie orientali e fantascienza.
Qui inizia l’avventura solistica di Schulze, che esordisce nel 1972 con Irrlicht, quadrifonica sinfonia spaziale per orchestra e marchingegni elettronici. L’anno dopo vara Cyborg, nuova odissea nello spazio affidata al canto delle macchine. Il trip, il viaggio della mente, si emancipa dalla dimensione lisergica, inaugurata dai Pink Floyd degli esordi, e affida interamente alle macchine musicali il compito di consentire il volo verso le dimensioni infinite dello spazio. Per quanto il tutto si regga su accordi protratti all’infinito (realizzati appoggiando dei pesi sui tasti) e sulle metronomie del sequencer, l’effetto è notevole, mescolando abilmente fasi più ipnotiche (Chromengel) ad altre dall’incedere solenne (Synphara). Quattro lunghe suite, come già in Irrlicht, che definiscono ulteriormente le coordinate sonore del musicista: da un lato la sperimentazione dei più sofisticati strumenti elettronici (allora ancora analogici) e i primi rimandi a temi e autori della letteratura fantascientifica, dall’altro una propensione al gigantismo di ascendenza wagneriana, cui Schulze ha anche dedicato dei lavori, a partire da Timewind pubblicato nel 1975 che conteneva l’epica cavalcata elettronica Bayreuth Return.
Non solo, sul finire degli anni Settanta iniziò ad adoperare anche uno pseudonimo per firmare alcuni album: Richard Wahnfried (lo pseudo cognome è il nome della casa che Wagner aveva costruito per lui e la sua famiglia a Bayreuth). Nel frattempo hanno visto la luce altri due album (Picture Music e Blackdance), oltre ai dischi con le jam dei Cosmic Jokers, sorta di supergruppo improvvisato con la regia di Kaiser che vedeva assieme a Schulze membri di Ash Ra Temple e altri corrieri cosmici. È in Blackdance che lo stile di Schulze assume i suoi tratti definitivi, segnato da lunghe sequenze e la trasposizione di queste in varie tonalità, progressioni ritmiche che paiono traiettorie nel cosmo verso spazi altri, mondi alieni, come suggerisce la copertina fantascientifica disegnata da Urs Amann.
L’attrezzatura a sua volta si ampliava. Oltre a vari sequencer, Schulze iniziò a impiegare anche il Minimoog, e anche altri sintetizzatori suoi concorrenti: l’ARP Odyssey e l’imponente ARP 2600. Il risultato è una musica tesa, appunto, a evocare immagini dell’universo, visioni di stelle, nebulose e mondi fantastici. Quello di Schulze è un immaginario legato alla fantascienza e non poco. Parimenti la strumentazione si fa sempre più variegata e attenta all’innovazione tecnologica. Sempre nel 1975 entrò in possesso di un Big Moog IIIP che lo avrebbe di lì in avanti accompagnato sul palco. Era un modello dalle dimensioni imponenti al punto da apparire come uno schermo di indicatori e pulsanti un po’ come un pannello d’astronave, anticipando di un ventennio le missioni elettroniche dell’alieno Jeff Mills.
Nella seconda metà dei Settanta Schulze tiene concerti memorabili e non sbaglia un colpo sul fronte discografico. Esce Moondawn (1976) con la meravigliosa Floating dall’apertura emozionante: il canto del Padre nostro in arabo con in sottofondo un pulviscolo elettronico che avvia il viaggio verso le stelle. Escono nel 1977 anche la colonna sonora di un film erotico, Body Love e Mirage, il suo album a oggi più venduto e l’anno dopo il doppio X. Nel frattempo si lascia tentare dalla moda (ai tempi ormai al crepuscolo) dei supergruppi ed entra a far parte dei GO con i polistrumentisti Steve Winwood e Stomu Yamashta e il percussionista Michael Shrieve (che fu il primo batterista di Carlos Santana). Un’operazione dimenticabile dal punto di vista musicale. Il decennio si chiude con il dichiarato omaggio alla fantascienza: Dune (1979).
Negli anni a seguire Schulze ha costruito una titanica discografia (incluse diverse colonne sonore), arricchita a partire dagli anni Novanta dalla pubblicazione di inediti registrati nell’arco di un ventennio, registrazioni in concerto e in studio. Dapprima ha pubblicato la Silver Edition raccolta comprendete dieci dischi alla quale fa seguito la Historic Edition, altro cofanetto a tiratura limitata con lo stesso numero di cd, e infine la Jubilee Edition, impegnativa scatola sonora contenente ben venticinque dischi. È interessante notare che molti dei grandi artisti della musica dell’ultimo mezzo secolo, avvia da un certo punto in avanti un’operazione di sistematizzazione e di valorizzazione dei propri archivi, diventando storici di sé stessi. Un’operazione che soltanto la percezione postmoderna del tempo rende possibile.
Schulze non è stato l’unico, basti pensare a Frank Zappa (ora continuano gli eredi, ma questo è un altro discorso) e a Robert Fripp tuttora impegnato su questo fronte. Fatto sta che Schulze raccolse dapprima il tutto nel mega box intitolato Ultimate Edition e poi, recuperando altri inediti per un totale di cinque dischi, ha fatto confluire il tutto nei sedici volumi de La vie electronique, per un totale di cinquanta dischi. Da questa enorme mole di registrazioni si evidenzia una volta di più l’interesse di Schulze per la fantascienza, oltre che ad altri, numerosi rimandi e riferimenti letterari e filosofici.
Dal secondo volume si possono ascoltare gli Study For Philip K. Dick (ma c’è anche un On A Marché Sur La Lune), nel successivo compare il trittico Make Room, Make Room!, ovvero il romanzo distopico scritto da Harry Harrison da cui venne tratto il film Soylent Green per la regia di Richard Fleischer (da noi divenne 2022.: i sopravvissuti), seguito da I Sing The Body Electric (celebre raccolta di racconti di Ray Bradbury), mentre nel primo volume compare un avvolgente Cyborg Traum risalente al 1972 ovvero ai tempi del primo album.
Alla sua discografia, inoltre, vanno perlomeno aggiunti i box che raccolgono i Contemporary Works, un box decuplo, e i dieci album realizzati assieme a Pete Namlook, altro musicista elettronico ma di una generazione successiva, che con un riuscito gioco di parole tracciano un ennesimo viaggio cosmico: The Dark Side of the Moog. In parallelo sono usciti con discreta regolarità nuovi dischi, spaziando dall’ennesimo omaggio wagneriano, Das Wagner Desaster, nonché l’opera lirica Totentag, a nuove collaborazioni tra cui la più significativa è rappresentata dal sodalizio con Lisa Gerrard, la voce ancestrale dei Dead Can Dance, che ha fruttato tour in Europa e diversi album. Significativo anche il disco relativo al suo ultimo concerto, Big In Japan: Live in Tokyo 2010. Uno dei suoi ultimi brani è Grains of Sand, una collaborazione on Hans Zimmer legata al film Dune di Denis Villeneuve. Quello con la saga di Frank Herbert è un legame inossidabile, al punto che poche settimane fa, con l’annuncio del nuovo disco, aveva pubblicato il brano Osiris Pt.1 fornendo anche il titolo dell’album, nuovo omaggio a Dune: Deus Arrakis.
È un viaggio nel tempo. Ascoltandolo lo si rivede vestito di bianco, seduto a gambe incrociate con le spalle al pubblico, di fronte a un muro di apparecchiature elettroniche come appariva nei concerti spesso tenuti in chiese o cattedrali. Un’icona della musica degli ascolti profondi di quegli anni Settanta, che sembra destinata all’immortalità.
- Klaus Schulze, Are You Sequenced?, SPV, 2006.
- Klaus Schulze, Big In Japan: Live in Tokyo, 2010.
- Klaus Schulze, Blackdance, SPV, 2007.
- Klaus Schulze, Body Love, SPV, 2005.
- Klaus Schulze, Cyborg, SPV, 2006.
- Klaus Schulze, Das Wagner Desaster, MIG, 2018.
- Klaus Schulze, Dune, SPV 2005.
- Klaus Schulze, Irrlicht, SPV, 2006.
- Klaus Schulze, La vie electronique, vol. 1 -16, SPV, 2009 – 2015.
- Klaus Schulze, Mirage, MIG, 2017.
- Klaus Schulze, Moondawn, SPV, 2005.
- Klaus Schulze, Picture Music, SPV, 2005.
- Klaus Schulze, Timewind, SPV, 2006.
- Klaus Schulze, Totentag, ZYX, 1994.
- Klaus Schulze, Lisa Gerrard, Farscape, SPV, 2008.
- Klaus Schulze, Pete Namlook, The Dark Side of the Moog, vol. 1 – 10, Ambient World, 1995 – 2010.