To discover myself, to preserve
myself, to make myself, to
achieve self-autonomy. To dispel
the myths that I am a mad prophet
or a poor suffering soul. To
convince myself that I am worthy
and that what I have to say is not
a pile of shit.
Gloria Anzaldúa *
Si immagini di avere a disposizione, per scrivere una serie televisiva contemporanea, alcuni elementi specifici. Si immagini come ambientazione un quartiere popolare e multiculturale di casermoni rossi dell’est di Londra, popolato da una class precaria che fino a qualche tempo fa forse sarebbe stata working e che ora, in molti casi, lo è solo per altro, più che per lo status lavorativo. Si immagini che qui sia variamente esploso il dispositivo-famiglia, in un’assenza quasi totale di uomini all’interno delle relazioni sociali costituite: nonne single madri di madri single madri di figli che sono figli di madri single e di padri boh (altro giro altra corsa, roulette russa in cui solo il colore della pelle, forse e in parte, renderà possibile stabilire la linea paterna, ma solo dopo nove mesi di comunque amorevole infornata). Che farne, di questo materiale pruriginosamente ricco, avendolo a disposizione? Un bel format modulato sul documentario-verità? Una serie drammatica incentrata sulle miserie urbane che emani quell’agghiacciante aroma d’ineluttabilità che ci piace tanto (ne abbiamo di ben fatte anche sulle periferie meridionali d’Italia, se serve un modello)? Una commedia cinica, dove chi prende in giro si prende in giro (introiettando lo sguardo altrui)? O ne faremo altro, rompendo i copioni del realismo (razzializzante e classista), a briglie sciolte verso la fantasia?
La scelta di Michaela
La scelta, per fortuna, non ci spetta (o ci spetta solo da spettatori, quando ci chiediamo, come dovremmo, cosa ci aspettiamo dai prodotti culturali, se lo specchio o la lanterna magica; ma questo sarebbe già un altro articolo). La scelta, infatti, è già stata presa, nel 2015, da Michaela Coel, trentenne drammaturga, attrice e poetessa britannica, autrice (della serie e della relativa theme-song) e protagonista di Chewing Gum, TV comedy trasmessa da E4 e disponibile su Netflix. Davanti e dietro la telecamera, Michaela Coel confeziona due stagioni in due anni, dodici episodi da venticinque minuti ciascuno: giusto il tempo, per ognuno degli episodi, che il sapore della cicca che state masticando vi si riveli in bocca, si apra nel suo tripudio di gusti fruttati e si spenga su una nota di coda ancora appetibile; tutto sapientemente dosato, così che la gomma da masticare vi viene tolta di bocca proprio un attimo prima di trasformarsi in uno stomachevole pezzo di gomma tout court. Perché, certo, Chewing Gum non è una serie proprio per tutti i palati; ma certamente è invitante da provare, per la freschezza e l’originalità degli accostamenti: il frizzante, il piccante, il dolce, l’amaro.
La serie, si diceva, non è per tutti i palati, principalmente per i temi forti, per il linguaggio sfacciato e per l’effetto accumulatorio che caratterizzano la scrittura e l’immagine: in fondo, la serie esprime, nel rapporto fra forma e contenuto, la fame di vita di una (post-)adolescente; vertigine confusione vortice. Chewing Gum è infatti una surreale carrellata di episodi (maggiormente autoconclusivi nella prima stagione, più seriali nella seconda) che hanno per protagonista, pur in una dimensione imprescindibilmente corale, una giovane londinese nera di ventiquattro anni, seguita nella sua esplorazione del mondo e nel suo disperato tentativo di perdere la verginità.
In uno dei più celebrati ed esilaranti momenti della prima stagione (1×04, L’unicorno), Tracey, questo il nome della protagonista, fissa la camera per un istante e poco dopo si esibisce in un irresistibile sexual rapping in cui, ballando e cantando per strada, dichiara il proprio entusiasmo di fronte alla prospettiva di liberarsi finalmente dell’ingombrante status di illibata facendo sesso a tre con il suo inaspettato nuovo fidanzato, il vicino di casa e giovane poeta (di non belle speranze) Connor, tra i pochi maschi e pochi bianchi che la serie ci mostra: “He gonna bang me / I’m gonna bang him / Gonna lose my verginity!” (“Me lo sbatterò/ lui mi sbatterà/ perderò la verginità!”).
Scrivendo una storia che verte principalmente su classe, razza, religione e sesso, mettendo al centro della serie un’adolescente e disegnandone la vita come un percorso su e giù e dentro e fuori il casermone, Michaela Coel ci regala il frutto di una precisa scelta estetico-politica, che culmina nella realizzazione di un prodotto culturale bellissimo, intelligente e potente. Al setting urbano con tanto di famiglie disfunzionali descritto sopra, facilmente risucchiabile nei protocolli iperrealisti, Coel aggiunge infatti, per la sua comedy series, abbondanti e destabilizzanti cucchiaiate di verve.
Si addizioni allora, all’ambientazione presentata in apertura, un’omnipervasiva presenza (talvolta manifestata come assenza o accumulazione de-eroticizzante) del sesso, grande supremo liquido e appiccicoso deterritorializzatore, riterritorializzato in 2.0 attraverso corpi, apps, toys, webcams, verginità ingombranti, veti religiosi, esotismo selvaggio, milf, cougar, tardone, reggiseni imbottiti, rivoli di sangue dal naso a segnalare eccitazione, formose Beyoncé elevate allo status di madonne e Cristi sexy come manzi da copertina, facesitting, tamponi, mestruazioni, cani!, unicorni (qui inteso come donne single che fanno sesso con coppie), vomito, herpes, cruising bars, macelleria, blind dates, esplorazioni sessuali fra cugini adolescenti, e altro ancora. Si metta infine, al centro di tutto questo vortice, proprio Tracey: ventiquattrenne naïve dall’aria francamente stramba, trecce e outfits pericolosamente oscillanti tra l’hipster di punta e l’infantile di ritorno; che lavora facendo i turni in un negozietto di quartiere di quelli che vendono tutto, dal latte al pennarello; fidanzata (solo all’inizio della serie, prima dell’incontro con Connor, con un fanatico religioso amante del potere, che poi si rivelerà omosessuale); cresciuta da, e che vive con una madre single ghanese fervente credente e predicatrice in carriera nella chiesa locale e una sorella, Cynthia (Susan Wokoma), teneramente asociale e confusamente sesso-fobica.
Tracey, che incontra il tormento e la delizia dell’ormone lungo la propria via di Damasco, che è in realtà un incrocio di vie dentro e intorno un housing estate, nell’immaginario quartiere di Pensbourne, East London.
La scelta di Michaela Coel è estremamente interessante. Con Chewing Gum, infatti, Coel trasfigura in Tracey la sua propria adolescenza di ragazza nata e cresciuta tra Hackney e Tower Hamlet, East London, in una famiglia di sole donne (cresce infatti con la madre, ghanese immigrata a Londra, e la sorella), in un contesto in cui la religione, spinta fin quasi all’ossessione da predicatrice, diviene ben presto una delle identità più solide dell’adolescente Michaela: “il Cattolicesimo, la mia razza, la classe in cui sono nata. Queste sono le cose che fanno il mio lavoro” (cit. in Lewis 2017). Eppure, Chewing Gum non è l’autobiografia di Michaela Coel; è piuttosto, esteticamente e dunque politicamente, molto di più.
Politica della rappresentazione
“Il personale è politico” è una di quelle frasi che fa subito profumo di donna. Slogan del femminismo anni Settanta, la frase evoca immediatamente tutto un universo di relazioni in ridefinizione e (ri)decisioni in atto, copioni sociali rotti e giochi dalle regole antiche interrotti: relazione con il corpo, relazione fra corpi, relazione fra sessi, relazione con il sesso, relazioni fra generi, relazioni all’interno del genere, relazioni familiari, relazioni tra generazioni, relazione con le istituzioni, relazione con la memoria culturale.
Un “personale” dunque allargato, coestensivo all’intero campo sociale, un diagramma in mutazione. Ne “il personale è politico” non c’è niente di già dato: c’è la promessa di afferrare il “reale” come materiale creativo e potenziale. Meno specchio, più lanterna magica. Masticata di bocca in bocca, la frase-slogan è sopravvissuta fino a oggi, e con essa tutta la fortuna pubblica del “personale”; ma il gusto è cambiato e il personale, svuotato del proprio potere resistente e ripiegato sul puramente interiore ed emozionale, sul reale-reale, sulla “pura” verità, sull’ideologia insomma dell’autenticità a tutti i costi, è la miniera d’oro degli “ingegneri libidinali del capitale”: invade tutta la comunicazione in quanto merce, è l’emozione-prodotto che ci racconta. Ma non si creda che il “personale” proposto dall’“ideologia dell’interiorità” non sia un gioco politico della rappresentazione; lo è in quanto modalità del “Realismo capitalista” (cfr. Fisher, 2009): mi/ti racconto come sono, così rimango come sono, perché tu rimanga come sei. Più specchio, meno lanterna magica.
Nella lezione degli Studi Culturali britannici, si parla, a proposito del rapporto fra invenzione e realismo nella cultura, di “politica della rappresentazione”: a partire dagli anni Ottanta, e in relazione alla nuova produzione filmica della diaspora nera nel Regno Unito, emergono nuovi significati che complicano l’assegnazione fissa di una identità al significante “nero”.
Il lavoro degli Studi Culturali evidenzia allora come l’esercizio della pratica della rappresentazione, la produzione culturale cioè, debba da questo momento accettare l’infondatezza di ogni forma di rappresentazione, ovvero il fatto che, anche quando parliamo in nome di noi stessi e della nostra esperienza, non c’è coincidenza fra il soggetto che parla e il soggetto all’interno dell’enunciazione, perché l’identità è un processo complesso. Analogamente, la decodifica della produzione culturale dovrà procedere rinunciando a misurare la validità o meno, la bontà o meno di una produzione culturale sulla sua aderenza al mondo di fuori, rinunciando a usare la realtà come “alibi per giudicare la correttezza o la scorrettezza politica di un testo” (Hall 1992). In tempi più recenti, l’esercizio attento di questo tipo di analisi in relazione alla contemporaneità ha inteso metterci in allarme rispetto alle quote nere, per così dire, nel cinema hollywoodiano (e non solo) e all’“estetizzazione della sofferenza [e al] sentimentalismo umanistico che non fa che confermare i soggetti (bianchi) e oggetti (neri) al loro posto” (Mellino 2016).
In diverse interviste, e ancora in occasione dell’assegnazione di uno dei due premi BAFTA che Michaela Coel si porta a casa nel 2016 per Chewing Gum (“Breakthrough Talent” e “Best Female Performance in a Comedy”), l’autrice ritorna sulla scelta che sta alla base della scrittura del personaggio di Tracey, affermando come Tracey nasca dalla necessità di “riempire uno spazio”, poiché, nella televisione britannica, quasi mai c’è un personaggio “dalla pelle scura che sia vulnerabile, che abbia un che di naïve, che sia amabile; e che non sia invece una femme fatale, una tossica o una criminale” (cit. in Kaplan 2017). Lo stesso housing estate, che della serie è a tutti gli effetti uno dei protagonisti, non ha nulla di tetro: appare sempre, rompendo ogni copione, baciato dal sole. Risulta evidente qui come il campo di battaglia della politica della rappresentazione non sia stato affatto abbandonato, a dispetto delle ingiunzioni che ci giungono tanto dal neoliberismo “post-razziale” quanto dal neoliberismo “iperrealista”, entrambi volti alla messa a valore di forme di rappresentazione razzializzate e marcate dal punto di vista del genere. Non pacificato, pur contradditorio, il mondo di Tracey non è né post-razziale né iperrealista.
Nella genesi di Chewing Gum c’è anche un’ulteriore scelta: la serie nasce infatti da un monologo teatrale su identico soggetto, realizzato da Coel come lavoro di diploma alla Guildhall School of Music and Drama, poi divenuto Chewing Gum Dreams, un one-woman-show di grande successo rappresentato anche al Royal National Theatre nel 2014, in cui Coel interpretava all’incirca undici personaggi (gli stessi che ritroviamo nella serie, inclusa Tracey all’età di quattordici anni). Nelle parole di Coel, Chewing Gum Dreams è un po’ la linea d’ombra, un lavoro che è un salto, in cui lei si guarda da vicino, si sceglie e si moltiplica per undici, dopo tre anni passati a elaborare e produrre, pur con risultati eccellenti, drammi basati su Shakespeare o sulla working class bianca (cfr. Kaplan 2017).
Piuttosto che raccontarci storie d’umana miseria da casermone e di cinismo in cui l’uomo è lupo per l’uomo (la stessa Coel subisce e infligge, da ragazzina, atti di bullismo), invece di dipingerci un’eroina dell’ideologia emozionale super-cattiva e/o super-vincente (Michaela, in fondo, avrà l’opportunità di studiare recitazione e drammaturgia nella prestigiosa Guildhall, prima donna nera ammessa dopo cinque anni in cui nessuna donna nera veniva ammessa), Michaela Coel ri(decide) il copione a partire da quello che ha a disposizione, schivando quelle forme della narrazione in cui l’eroina che impariamo ad amare è in fondo sempre una martire, anche quando vince, poiché l’unica rivoluzione che l’ideologia dell’emotività ci consente è suicidaria.
Tracey è in fondo Michaela che abbraccia Michaela e la guarda con amore in un gioco di sguardi che ha luogo proprio attraverso la lanterna magica, ridisegnandola come una amabile, vulnerabile, ingenua piccola bugiarda (Tracey infatti sforna balle su balle senza apparente motivo, come risulta evidente in più punti della serie). Tracey è Michaela che cura Michaela e attraverso lo sguardo ci invita a curare l’ecologia dei nostri sguardi/racconti mediati: le narrazioni, quelle sullo schermo e quelle che ci accompagnano nella nostra quotidianità. Per questo, le parole pronunciate per il ritiro del BAFTA come “Best Female Performance in a Comedy”non sanno dell’appiccicaticcio sdolcinato del miele, ma hanno il gusto erotizzante del piacersi e del piacere piacendosi, in un cerchio di sguardi che non reifica ma rivitalizza.
Vorrei, con questo premio che ho tra le mani, rendere omaggio a Victoria Wood [comica britannica recentemente scomparsa, nda]. E vorrei ringraziare [tutti quelli che] mi hanno detto che sono buffa. […] Se c’è qualcuno lì fuori che mi somiglia un po’, o che si sente un po’ fuori luogo, e che magari sta provando ad intraprendere la strada della recitazione o cose del genere, a lui, a lei, io voglio dire soltanto: ‘Tu sei bello, sei bella, accettalo. Tu sei intelligente, accettalo. Tu sei potente, accettalo’
“To embrace”, nell’originale inglese, non indica qui semplicemente l’atto sentimentale dell’abbracciare o dell’accogliere; indica anche l’accettare, o per meglio dire il farsene una ragione; il che vuol dire “sceglierlo” e di conseguenza scegliere. Personal-politicamente. Coel infatti dichiara altrove (a rendere il campo dell’esercizio politico della rappresentazione più esteso rispetto alla sola scelta dei contenuti rappresentati e alle forme della rappresentazione, che qui separiamo solo per praticità di argomentazione), che primaria è anche l’assunzione di responsabilità creativa rispetto a tutti gli aspetti della produzione di un lavoro: nel difficile processo che porta da Chewing Gum Dreams a Chewing Gum, Coel riconosce la crucialità di stare “dietro la telecamera e non solo davanti, scrivere le proprie storie se si vuole che siano raccontate, stabilire anche il design del set, insomma, fare tutto”. In particolare, scegliere di scegliere ancora e ancora, quando tutto “non fa altro che ricordarmi che posso pure venirci alla festa, ma questa festa non è la mia festa. Mi hanno gentilmente concesso di prendervi parte. Questa non è casa mia e un posto vero, qui dentro, io non ce l’ho” (cit. in Jefferson, 2017).
“La razza è la modalità attraverso cui la classe è vissuta”, e viceversa
Questo aspetto particolare, legato al ribaltamento di un copione prestabilito, lega Chewing Gum ad altre serie britanniche teen drama trasmesse da E4 (canale digitale lanciato nel 2001 da Channel4, il canale televisivo pubblico inglese nato nel 1982 proprio sotto la spinta della politica della rappresentazione) che hanno al centro adolescenti o post-adolescenti classificabili in qualche modo come losers, quali Skins (2007-2013), Misfits (2009-2013) e The Inbetweeners (2008-2010).
Tuttavia, l’elemento della razza caratterizza fortemente Chewing Gum, attraversando i temi portanti della serie (sesso e religione) da cima a fondo.
Tra i possibili esempi della centralità della razza, si prenda l’insistenza intelligente posta su particolari anatomici pesantemente razzializzati e dalla lunga storia di reificazione in relazione al genere, come le labbra e la bocca: l’intelligente scelta d’autrice si esprime nell’economia narrativa della serie attraverso una messa in circolazione di questi stessi elementi all’interno del dispositivo visivo sessualizzato, assumendo di volta in volta differenti significazioni che rivelano in controluce i diversi funzionamenti del dispositivo stesso.
Attributo indesiderabile (Tracey/Michaela viene spesso definita brutta per le sue labbra e la sua bocca), attributo desiderato (quando Tracey proverà a trasformarsi in Beyoncé, porrà grande attenzione alla risignificazione delle proprie labbra attraverso la tinta rosa-Barbie, con risultati a dir poco ‘difficili’), oggetto inglobante (per qualche ragione che non ci è dato sapere, perché lei stessa dichiara di non saperne la ragione, una delle pratiche sessuali più amate da Tracey è succhiare il naso di Connor; pratica che puntualmente causa a Connor una perdita dell’erezione), parte anatomica malata (l’unicorno rimorchiato da Tracey su una app per incontro di sesso a tre si presenterà all’appuntamento esibendo sulle labbra una vistosa infezione purulenta, i cui richiami tanto alla viralità del sesso tanto quanto a quella della rete ci precipitano in un mondo di ecologia ‘cattiva’ dei media nel quale ci si potrebbe perdere); e così via. Ma la razza, nella serie, è inseparabile dalla classe. Uno dei momenti narrativi più forti della seconda stagione è senza dubbio l’incontro tra Tracey e Ash (2×02, Rimpiazzi).
Ash è un giovane e attraente bianco dall’aria ricca e vincente che rimorchia un’incredula Tracey impegnata in una sessione di volantinaggio per la chiesa locale, per poi portarla a letto e lì rivelare tutto il portato razzista della propria attrazione sessuale: dal bisogno di chiamarla nigger (espresso soltanto fra i denti nell’eccitazione dell’atto, quasi senza controllo cosciente), al desiderio (che passa solo per il piano della lingua) di dominarla, fino al masturbarsi sugli immacolati divani di design della sua casa borghese guardando (senza mai toccarla) una Tracey (ri)vestita di parafernali tribali che si esibisce in una pseudo-danza pseudo-tribale pseudo-africana. Interrotto dall’arrivo della ricca moglie nera e dei loro sanissimi bambini neri, Ash, accusato da Tracey di essere un razzista (le aveva dichiarato, mentendo candido, ancor più che semplicemente bianco, “Non sono mai stato con una ragazza nera prima d’ora”) le urla indignato di essere invece, per professione, un promotore dell’intercultura, sollevando infine in propria difesa il tanto popolare scudo del progressismo professionalizzato più paternalista.
Si può parlare infine di colpo d’autrice vincente anche quando l’attenzione per la questione della razzializzazione è apparentemente messa in secondo piano; questa, infatti, esce dalla finestra per rientrare dalla porta. Il personaggio che maggiormente incarna questo aspetto è Candice, la migliore amica di Tracey. Candice è mixed-race, le sue sorelle e sua nonna sono bianche; tutte esibiscono aspetti (linguistici, estetici, legati all’economia informale con cui si sostentano, che include il furto e la rivendita di vibratori usati) che è prassi attribuire alla working class. Se è vero che alla disomogeneità etnica della famiglia la serie non fa mai riferimento, è anche vero il fatto che, sebbene sia l’appartenenza di classe a legare questa famiglia di donne (Lewis 2017), ciò non rende meno vero l’assunto secondo cui “la razza è la modalità attraverso cui la classe viene vissuta” (Hall et al. 1978). Tutto questo è particolarmente evidente nell’episodio dell’incontro tra Ash e Tracey, in cui sarà la moglie di Ash, nera e borghese, a definire Candice, con malcelato senso di superiorità e in un circolo di sguardi ‘interni’ molto significativo, una “Peckham princess”, una principessina di Peckham, quartiere del sud-est di Londra che è epitome dell’unione fra classe e razza (o forse dovremmo dire lo era, ché già spuntano i semi della gentrificazione?).
La densità di un lavoro come Chewing Gum richiederebbe la discussione di tutti i numerosi temi e motivi che lo attraversano, primi fra tutti sesso e religione. Tuttavia, qui si è lasciata da parte la presentazione dei temi macroscopici, optando per il raccontare la chiave estetica più generale della serie, presentandola come frutto di una scelta autoriale che passa per una costruzione politica-personale del sé autoriale, a sua volta intesa come forma di cura e responsabilità di fronte a un vissuto marcato duramente dal punto di vista della classe della razza del genere; scelta sviluppata da una giovane donna sul piano estetico, all’intersezione delle linee di razza, classe e genere, così come essere agiscono all’interno del dispositivo della rappresentazione contemporanea, avanti e dietro la telecamera.
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*Per scoprire me stessa, per salvaguardare me stessa, per fare me stessa, per raggiungere l’autonomia.
Per sconfessare i falsi miti che mi vorrebbero profetessa pazza o povera anima sofferente.
Per convincere me stessa del fatto che io valgo e che quello che ho da dire non è una merda.
Letture
- Mark Fisher, Capitalist Realism. Is There No Alternative?, Zero Books, Winchester, 2009.
- Stuart Hall, “Che genere di nero è il ‘nero’ nella cultura popolare nera”, in Stuart Hall e Miguel Mellino, Il soggetto e la differenza, Meltemi, Roma, 2006.
- Stuart Hall, Chas Critcher, Tony Jefferson, John N. Clarke e Brian Roberts, Policing the Crisis: Mugging, the State, and Law and Order, Macmillan, London, 1978.
- J’na Jefferson, NEXT: ‘Chewing Gum’s Michaela Coel Brings Biting Wit That Won’t Lose Its Flavor, VIBE, 3 aprile 2017.
- Ilana Kaplan, ‘Chewing Gum’: Meet the Mastermind Behind Netflix’s Sex-Obsessed Britcom, RollingStone, 11 aprile 2017.
- Tim Lewis, Chewing Gum’s Michaela Coel: ‘I enjoy making people uncomfortable’, theguardian.com
- Miguel Mellino, Che genere di nero è il ‘nero’ della questione nera secondo Hollywood, Commonware, 22 marzo 2016.