Non sono molti gli autori che hanno contribuito a tenere in vita il senso del perturbante in un’epoca sempre più avara di misteri come la nostra, e forse nessuno di loro può vantare lo stesso alone di culto che circonda la figura di Thomas Ligotti. Con una fama che è andata crescendo a partire dai primi anni Ottanta, la sua opera costituita in prevalenza da racconti brevi o brevissimi, con occasionali sconfinamenti nel saggio (La cospirazione contro la razza umana, 2010) e ancor più rare incursioni nella novella (My Work Is Not Yet Done, 2002), non ha mai raggiunto le tirature dei romanzi di Stephen King o Dean Koontz, ma può vantare un piccolo esercito di fedelissimi che continuano a celebrarlo come uno degli autori più influenti nel panorama horror, anche adesso che ha di fatto abbandonato la scrittura.
Risultato non da poco e tutt’altro che scontato, se si considera l’abbinamento alquanto ostile alle regole del mercato tra la dimensione dei suoi lavori e il sostrato filosofico da cui scaturiscono, ma pienamente giustificato da un carattere riconoscibilissimo nell’offerta sempre più standardizzata di un genere che soffre da tempo di un certo ripiegamento su se stesso, ostaggio della reiterazione commerciale di formule e soluzioni che ne hanno disinnescato la carica dirompente, riconducendolo nell’alveo di una sterile convenzionalità.
Distante dall’orrore di altri scrittori declinato sia nelle forme più accessibili rappresentate da King e Koontz o dai racconti di Weird Tales, che nel soprannaturale “cortese” di autori come Walter de la Mare, Robert Aickman o Oliver Onions, Ligotti ha saputo maturare nella sua singolarità un ascendente come pochi sul weird contemporaneo e l’impatto del suo lavoro è stato suggellato nel 2014 da una serie di culto come True Detective, disseminata di omaggi e citazioni, a cui è in una certa misura legata in Italia anche la recente diffusione dei suoi lavori al di fuori della cerchia ristretta degli appassionati del fantastico più dark.
Il buio è il punto di arrivo
È inevitabile che un’opera di questa portata finisca per richiamare l’attenzione sul suo autore, ma com’è noto Ligotti ha sempre rifuggito l’esposizione pubblica e lesinato i dettagli sulla sua vita privata, pur senza risparmiarsi nella corrispondenza con i lettori. Le interviste, rilasciate con una frequenza crescente a partire dai tardi anni Ottanta, raccolte da Matt Cardin in un volume ora in edizione italiana con il Saggiatore, e circolate al di fuori del circuito delle riviste di settore soprattutto grazie alla cassa di risonanza del web, hanno permesso di sopperire a questa sua refrattarietà ai riflettori, riuscendo di volta in volta a portare alla luce aspetti diversi del suo vissuto, del suo pensiero, delle sue passioni e dei suoi tormenti, rendendo palese come ogni componente abbia un influsso non trascurabile, anzi, spesso determinante, sulle altre, nella definizione di una personalità di certo problematica, ma anche di rara complessità.
Innanzitutto c’è Detroit, la città in cui Ligotti è nato e ha trascorso i primi anni dell’infanzia, per poi farvi ritorno da adulto assumendo l’incarico di redattore presso la Gale Research, un editore di manualistica per cui si è occupato di critica letteraria. Impossibile trascurare l’influenza sulle sue ambientazioni dell’American Acropolis per antonomasia, citando un altro innovatore nel suo campo profondamente legato alle radici dell’immaginario come William Gibson. Sul panorama di decadenza che stringe la città nella sua morsa torna Ligotti in diversi passaggi:
“Mi è sempre piaciuto lo spettacolo delle case abbandonate, carbonizzate e in rovina. Nel primo racconto dell’orrore che ho pubblicato, Il chimico, cerco di esprimere il mio fascino per questo mondo di rovine. In misura minore questo vale anche per il mio romanzo breve My Work Is Not Yet Done, ambientato in una città senza nome ispirata a Detroit. Lo sfondo del mio computer è la foto di una casa abbandonata nell’East Side di Detroit. In tanti miei racconti ho cercato di articolare un’estetica del degrado nei borghi e nelle città. Per me il declino e la decrepitezza equivalgono a una specie di serenità, al tranquillo abbandono delle illusioni sul futuro”.
Il brano citato è tratto dall’intervista del 2003 a Neddal Ayad uscita su Fantastic Metropolis, in cui peraltro fanno per la prima volta capolino nella conversazione i temi dell’antinatalismo e dell’estinzionismo, alimentati dalla scoperta di Peter Wessel Zapffe, che si ricollega alla passione di Ligotti per altri esponenti della medesima scuola di pensiero, come Arthur Schopenhauer, Emil Cioran e lo stesso Giacomo Leopardi.
Mistagogo di incubi incantatori
Quando parla di Zapffe, così come del suo rapporto con i sogni, sembra quasi di ascoltare Rustin Cohle, reso in maniera magistrale sullo schermo da Matthew McConaughey:
“Secondo Zapffe, gli esseri umani in generale e la coscienza umana in particolare sono un errore di natura, e la specie umana dovrebbe smettere al più presto di riprodursi per porre fine al tragico orrore della nostra vita di esseri senzienti che passano il loro tempo a raccontarsi che vale la pena di vivere”.
Il filosofo norvegese finirà per esercitare una profonda influenza sulla stesura del controverso magnum opus filosofico di Ligotti, come lo definisce il curatore Cardin, e leggendo le interviste qui assemblate si assiste quasi a una sorta di making of delle riflessioni che porteranno alla nascita de La cospirazione contro la razza umana. Che il tema sia caro all’autore risulta evidente dal numero di pagine che dedica a considerazioni sul pessimismo, distinguo con il nichilismo, e a tematiche anche molto specialistiche come il picco di Hubbert e le digressioni sull’essenza più profonda dell’universo e della realtà stessa, rivelando una profonda aderenza, forse molto più sincera di quanto una mente sana potrebbe essere disposta a supporre, alla visione del mondo espressa nelle sue opere.
Principalmente per ragioni di attualità, il saggio e la produzione più recente ascrivibile al cosiddetto corporate horror si dividono il grosso delle riflessioni sulla sua opera, ma non mancano considerazioni sui racconti precedenti, tra i più amati dai suoi lettori: nel corso di queste pagine, Ligotti è indotto a tornare spesso su L’ultimo banchetto di Arlecchino, il primo racconto che l’autore salvò dalla distruzione cui aveva consegnato i precedenti tentativi (anche noto in Italia come La festa di Mirocaw), l’opera di esordio Il chimico, e ancora La setta dell’idiota, I tormenti del Dr. Thoss e L’ombra alla radice del mondo, tutti pubblicati da Elara nei volumi I canti di un sognatore morto e Lo scriba macabro.
“Tanto tempo fa, come capita a molti, sognavo a occhi aperti il perfetto racconto dell’orrore. E non avevo nemmeno cominciato a scrivere. Non sapevo esattamente che storia sarebbe stata, non conoscevo l’ambientazione né i personaggi, avevo qualche nozione astratta, come «una storia che sogna sé stessa» ed «estraneità assoluta». Ho scritto qualche racconto per avvicinarmi a questo ideale, ma non erano granché, e alla fine ho rinunciato”.
È l’incontro con un libro usato di Shirley Jackson, dopo le letture giovanili di Sherlock Holmes, a far scattare la fame per le storie dell’orrore, attecchendo nell’immaginario di un giovane che aveva già vissuto una profonda crisi religiosa e che cominciava a cercare corrispondenza alle sue personali ossessioni e ai suoi vividi incubi nel cinema horror. La scoperta di Howard P. Lovecraft e dell’idea “di un sapere proibito e della sua trascrizione, o tentata espressione; una cosa troppo terribile per conviverci, ma che al contempo attrae come uno strano male trascendente”, la ricerca sugli scaffali prima dei drugstore e poi delle librerie di altri titoli riconducibili al genere, da Arthur Machen a M. R. James ad Algernon Blackwood, ispira l’ambizione di “aggiungere un racconto al canone malconcio dei Miti di Cthulhu”, ma Ligotti dovrà accontentarsi della propria personale mitologia, debitrice di Lovecraft più sul piano della filosofia e della poetica che non per la mera riproposizione della sua aberrante cosmologia con annesso pantheon da incubo.
Oscure macchinazioni prive di senso
Da un’intervista all’altra vediamo Ligotti sbottonarsi sempre di più sui suoi tormenti, senza risparmiare dettagli sulla genesi delle sue patologie, in cui poi affondano le radici della sua letteratura: dall’esaurimento determinato nell’agosto del 1970 dall’abuso di droga e alcol, primo episodio di una lunga serie di attacchi di ansia-panico, alla sindrome depressiva degenerata in agorafobia e anedonia, per arrivare al disturbo bipolare diagnosticatogli nel 2001. In queste condizioni, la lettura diventa una “blanda droga ricreativa”, mentre la Florida, in cui Ligotti si ritira con suo fratello dopo aver approfittato dell’ennesima riorganizzazione aziendale per vestire i panni del freelance, assume i tratti di una natura ostile e maligna proprio in virtù della sua esuberante vitalità. Dalle fasi ipomaniache della depressione scaturiscono capolavori come Il responsabile cittadino: “Immagino che ci sia uno schema osservabile, per cui scrivo quando nella mia vita c’è qualcosa che mi spinge a farlo, in particolare l’odio e il dolore, che sono un trampolino per gli argomenti dei miei racconti, i quali spero trascendano la mia esperienza temporanea e si connettano al complesso delle mie opinioni sull’esistenza, che forse non sono interessanti per il lettore ma che sono il motivo essenziale per cui scrivo”, dichiara Ligotti proprio a Cardin nel 2006.
Oltre agli aspetti compositivi, risultano affascinanti le divagazioni sulla geografia immaginaria che raccorda diversi racconti, andando al di là delle rivisitazioni del familiare contesto degradato e decadente di Detroit, così come pure le acute riflessioni critiche sul senso del racconto dell’orrore:
“Per me, leggere un racconto dell’orrore dovrebbe somigliare molto a sognare, e più simile a un sogno è un racconto, più mi colpisce. Non sono il primo a dire che l’incubo, non il giornale del mattino, è il modello ideale per la narrativa horror. Persino l’elemento soprannaturale è sacrificabile. Tuttavia, quello che rimane cruciale è la sensazione del soprannaturale, la sensazione di qualcosa di tremendo e meraviglioso che va oltre ogni analisi, una sensazione che potrebbe benissimo essere ispirata da qualcosa che di solito consideriamo «normale», come la pazzia o la morte […]. E il senso del soprannaturale è qualcosa che nasce dal confronto tra il lettore e il racconto, non da una divisione tra reale e irreale interna al racconto stesso. Naturalmente, avere livelli diversi di realtà narrativa è utile e va bene, ma non per forza è una fonte di orrore.”
Incoraggiato da Stephan Dziemianowicz sulle pagine di Science Fiction & Fantasy Book Review Annual (1991), Ligotti si spinge a sostenere che il perfetto racconto horror “sarebbe completamente insensato, ma avrebbe l’impatto delle cose completamente insensate che ci succedono quando dormiamo e ci fanno svegliare urlando senza ragione”. Il potenziale di ritrarre i nostri peggiori incubi, personali e collettivi, senza rifugiarsi in trovate consolatorie tanto posticce quanto inutili, rappresenta il grande pregio della letteratura horror, nel solco di maestri come Edgar Allan Poe e H. P. Lovecraft, la cui ombra s’insinua in ogni singola riga consegnata da Ligotti ai suoi intervistatori, ricamata con il filo di un rispetto che rasenta la venerazione. È interessante assistere, intervista dopo intervista, anche all’evoluzione dei modelli letterari a cui Ligotti si ispira, da Vladimir Nabokov e William S. Burroughs a Bruno Schulz e Jorge Luis Borges, per arrivare a Franz Kafka, Thomas Bernhard, Witold Gombrowicz, Stefan Grabinski, per citarne solo alcuni. Queste pagine sono piene di riferimenti e di titoli, validi anche per tracciare nuovi percorsi di lettura nell’atlante della letteratura del Novecento.
Tra le righe, il Saggiatore annuncia inoltre la prossima pubblicazione dei racconti di horror corporativo, che andranno a completare con i lavori originariamente inclusi in My Work Is Not Yet Done (oltre alla novella omonima, i racconti I Have a Special Plan For This World e The Nightmare Network) la ricognizione del filone già iniziata con Il nostro supervisore temporaneo, A favore dell’azione punitiva, Purezza e Il responsabile cittadino, tutti presentati nel 2014 in Teatro Grottesco. Al lettore italiano non resta che aspettarli fremendo nell’attesa, e magari ingannare il tempo con una rilettura dei numerosi capolavori disseminati nei volumi apparsi finora.
- William Gibson, American Acropolis, Mondadori, Milano, 2002.
- Shirley Jackson, L’incubo di Hill House, Adelphi, Milano, 2016.
- Thomas Ligotti, I canti di un sognatore morto, Perseo Libri, Bologna, 2007.
- Thomas Ligotti, Lo scriba macabro, Elara Libri, Bologna, 2015.
- Thomas Ligotti, Teatro Grottesco, il Saggiatore, Milano, 2015.
- Thomas Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, il Saggiatore, Milano, 2016.
- Thomas Ligotti, Nottuario, il Saggiatore, Milano, 2017.
- Thomas Ligotti, La straziante resurrezione di Victor Frankenstein, il Saggiatore, Milano, 2018.
- Nic Pizzolatto, True Detective – Stagione 1, WB, 2015 (home video).