D Editore, nella figura del suo Deus ex machina, Emmanuele J. Pilia, ha recentemente dato alle stampe quello che si annuncia essere il primo di una serie di volumi dedicati alla figura e all’opera di Theodore Kaczynski, conosciuto in tutto il mondo con l’appellativo di Unabomber. Pilia è sia co-traduttore che co-curatore dell’edizione, insieme a Mattia Pinna. Il volume, si presenta come un unicum nella pur estesa bibliografia già esistente dedicata a Kaczynski. Difatti, oltre al suo manifesto, che contiene il centro nevralgico del suo pensiero, qui trova sede un’ampia documentazione finora mai tradotta in italiano, e che i curatori mettono in collegamento – più o meno direttamente – alla genesi de La società industriale. L’opera è quindi sostanzialmente analitica, prima ancora che compilativa, poiché non si procede solamente tramite una mera ricostruzione cronologica dei testi coinvolti, per quanto questa sia presente, ma lo spirito che anima i curatori è rivolto alla ricerca di un legame interno – se presente – di modo da poter evidenziare i cardini del Kaczynski-pensiero e farne emergere problematiche e punti di forza, anche tramite un inevitabile confronto tra la psicologia dell’uomo, il teorico di una nuova umanità e infine il bombarolo ricercato.
Il lavoro dei curatori
L’introduzione che i curatori hanno premesso ai testi, e che – insieme al cospicuo apparato di note – costituisce l’impalcatura dell’interpretazione che qui viene data, dedica gran parte dello spazio concessole alla relazione tra una vita che eufemisticamente potremmo definire complessa e le azioni conseguenti. Il ritratto che ne esce però non è quello di una persona vittima di un meccanismo sociale aggressivo, e in fondo la sua misoginia, così come la tendenza all’isolamento difficilmente possono essere comprese solo attraverso una interpretazione traumatica della sua infanzia. Certo non è stata particolarmente felice, vi è un’ipotesi di autismo latente, ma nulla che possa lasciar presagire quanto poi accaduto. I curatori costruiscono il loro lavoro proprio cercando di far emergere quanto di più universale vi è nel testo e relativizzando quanto invece è da contestualizzare, anche alla luce del fatto che l’autore stesso ha modificato i suoi testi continuamente nel corso degli anni, rendendoli di fatto un work in progress. Va detto, fin da ora, che si tratta di un compito improbo. Kaczynski, pur tenendo nella giusta considerazione alcuni aspetti geniali della sua personalità, resta perlomeno imbarazzante da commentare, quando si affronta la sua produzione. Non è un caso che diverse sue posizioni siano diventati dei cavalli di battaglia dell’alt-right americano. Certo è che è solo alla luce di un lavoro di decostruzione come quello qui effettuato è possibile distinguere a ragion veduta le degenerazioni psicotiche dalle intuizioni avveniristiche. In questo senso la traduzione di certi termini è un elemento centrale per comprendere quanto viene detto. Su tutti il termine leftist, che nel corso del tempo ha assunto diverse valenze, e che oggi qui viene tradotto con liberale. Come precisano i curatori:
“La scelta di maggior impatto del testo è stata però quella di tradurre leftist in liberale. Questa in effetti è stata la scelta di traduzione più combattuta del nostro lavoro. Tale scelta è maturata dal contesto in cui Kaczynski ha avuto maggiore contatto, ossia quello statunitense conservatore degli anni Sessanta e Settanta […].
L’autore scrive in un contesto (quello statunitense a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Novanta) in cui il termine leftism (di sinistra, progressista) assume un significato diverso da quello che potrebbe intendere il pubblico italiano. Kaczynski, infatti, intende un approccio politico che in Italia è spesso peculiare delle tendenze politiche moderate e lievemente progressiste, e negli Stati Uniti caratterizza l’elettorato giovanile del Partito Democratico.
[…] In alcuni scritti successivi […] lo stesso Kaczynski specificherà meglio che cosa intende con il termine leftism: un approccio borghese e pacificatore, ipocritamente progressista, che vede nelle battaglie per la giustizia sociale un modo per lavarsi la coscienza e per nulla interessato al reale raggiungimento dell’eguaglianza per minoranze e persone oppresse”.
L’individualismo anarchico di Kaczynski
Certamente il suo è lo sguardo di quello che potremmo definire senza discostarci di molto dalla realtà un individualista anarchico, ma è altrettanto vero che questa definizione che gli è stata comminata, quasi fosse una condanna, non è stata sempre vera, lo è diventata nel corso del tempo. Kaczynski, fino al 1968, anno in cui dette le dimissioni, era un brillante giovane insegnante di matematica alla Berkeley University. Aprendo una breve parentesi, forse si potrebbe riflettere sul modo in cui la genialità matematica vede il mondo, ricordando anche due grandi figure che – pur senza diventare seminatori di bombe – hanno palesemente dimostrato il loro insostenibile disagio rispetto al resto della razza umana: Grigorij Perel’man, che, dopo aver rifiutato onori e fama, oggi vive in miseria, per quanto ne sappiamo, e Alexander Grothendieck, che analogamente rifiutò diversi premi e prese le distanze da molte istituzioni prestigiose. Certamente non è pensabile un parallelo tra loro e Kaczynski, ma certamente la sua carriera accademica, per quanto breve, fu brillante e riconosciuta. Ci rimane la domanda su cosa avrebbe potuto essere se avesse avuto la costanza di procedere in quel “gioco” che per lui era la matematica, e “di cui iniziavo a stancarmi”.
Resta comunque sostanzialmente accettabile la definizione di individualista anarchico, per quanto questa venga declinata in un modo spesso difficile da accettare per lo sguardo di un europeo, che possiede una visione dell’anarchia sostanzialmente diversa da quella propria del mondo americano. Senza pretendere di esporre in poche righe temi che richiederebbero una ampia disamina, possiamo dire che nel vecchio continente, seppur con molte e forti differenze, il mondo anarchico si inserisce integralmente nel grande filone rivoluzionario che a partire dalla prima metà dell’Ottocento lo attraversa. Negli USA invece l’anarchismo vede nell’autonomia e nella libertà individuale i cardini del proprio orizzonte politico, e di conseguenza una linea politica che si fondi sulla ricerca di un orizzonte collettivo e di tutto quanto si basi su un senso di comunità, per un uomo come Kaczynski diventa il principale nemico da combattere. Ecco perché la sinistra democratica americana diventa l’oggetto principale a cui rivolge la propria scomunica, così come lancia il suo anatema verso ogni tipo di classificazione antropologica, che sia per sesso, etnia o quant’altro. D’altro canto, chi cerca oggi di interpretarlo come vicino alle posizioni dei conservatori non si aspetti di ricevere una maggiore considerazione: se i democratici hanno meritato almeno di essere pesantemente criticati, i repubblicani per lui non meritano nemmeno quello:
“I conservatori sono idioti: si lamentano della scomparsa dei valori tradizionali ma si entusiasmano per il progresso tecnico e la crescita economica. Apparentemente non gli è mai venuto in mente che non è possibile operare dei cambiamenti repentini e radicali nella tecnologia e nell’economia di una società senza provocare dei cambiamenti altrettanto rapidi in tutto gli altri domini della società, e che questi cambiamenti distruggano inevitabilmente i valori tradizionali”.
Kaczynski si cimenta qui in una sorta di antropologia psicologica del liberale americano e ne individua una serie di caratteristiche, che lui procede a smontare passaggio dopo passaggio. Il Sentimento di inferiorità, la Sovrasocializzazione, il Processo di autorealizzazione, le Attività surrogate, sono i primi passaggi di questa sua ricerca, ma nello stesso tempo è costretto continuamente a relativizzare i principi che propone, costellando il testo di elementi generici proprio perché non conosce l’antropologia e la sua non diventa mai una indagine scientifica, ma rimane una digressione a tema, dove il mondo intero è ridotto a strumento funzionale alla sua tesi.
Il sistema tecnologico industriale
Eppure, nonostante tutte queste indiscutibili ingenuità e semplificazioni, quando Kaczynski delinea le problematiche collegate alla società industriale e alla distruzione della psiche che questa ha prodotto, così come quando indica il sistema tecnologico-industriale come il responsabile “della riduzione degli esseri umani, e di molti altri organismi viventi, alla condizione di prodotti industriali, semplici ingranaggi della macchina sociale” e infine quando individua nell’obbedienza l’unico requisito necessario per appartenere al mondo moderno, dopo di che “la società si prenderà cura di te, dalla culla al cimitero”; ecco questa visione eroica dell’individuo, questo suo essere figlio di un mondo dove sono i valori del soggetto, non il valore della merce a dare un senso alla propria esistenza, tutto ciò trova un riscontro in quella maggioranza dei cittadini americani che riterrebbe un sopruso inaccettabile il non poter detenere armi senza controllo, dato che l’essenza della libertà corrisponde anche all’autonomia di potersi difendere in qualsiasi occasione. Kaczynski, proseguendo nella sua analisi della società contemporanea, dopo essere giunto a riconoscere che questo mondo non è riformabile e che quindi solo una rivoluzione potrebbe portare a un cambiamento, giunge al punto per cui, come viene riconosciuto anche dai curatori, ha un senso confrontarsi con le idee di Kaczynski, come scrivono Pilia e Pinna:
“[…] in un periodo di forte pacificazione e di balcanizzazione delle lotte, in un periodo in cui l’azione violenta (anche la meno radicale) viene vista come ripugnante addirittura in segmenti dei movimenti libertari, in un periodo in cui lo Stato stringe ancora più forte la presa sul proprio diritto al monopolio della violenza, in un periodo come quello che stiamo vivendo, insomma, il messaggio di Theodore J. Kaczynski è necessario che venga ascoltato. […] Nella sua ingenuità, Kaczynski non ha paura di affermare una verità difficilmente riducibile: per fare la rivoluzione è necessaria la violenza. Non una violenza cieca, vaga, ma una violenza educata dalla tattica rivoluzionaria […]; nonostante il suo isolamento, Kaczynski conosce e capisce bene i media: anzi, è chiaro che solo attraverso la sua comprensione del funzionamento del mondo che combatte è riuscito a diffondere il suo messaggio. Questo è, per lui, un esempio di tattica. L’azione violenta, l’azione rivoluzionaria, non deve essere fine a sé stessa, ma strumento politico che posta la riflessione sull’ottenimento di un obiettivo: la liberazione di una terra occupata, il sabotaggio di un cantiere per un’infrastruttura non voluta da una comunità, la diffusione – appunto – di una chiamata alle armi. E il megafono di questa chiamata sono le parole scritte da un uomo che ha preferito privarsi di tutte le possibilità che stavano per schiudersi di fronte a sé, piuttosto che rinunciare alla coerenza di uno stile di vita così radicale da essere irripetibile”.
La risoluzione strategica
Per Kaczynski “I tecnofili ci stanno trascinando in un’avventura insensata, un viaggio spericolato verso l’ignoto. Molte persone capiscono qualcosa di ciò che il progresso tecnologico sta creando, ma restano passivi perché pensano che sia inevitabile. Ma noi non crediamo sia inevitabile: pensiamo invece che possa essere fermato”. Nel mondo contemporaneo è facile capire come una tale visione profetica di fatto sia appartenente anche a grandi masse, istintivamente diffidenti verso il mondo scientifico e tecnologico, ma è questa stessa analisi che ci mostra anche la debolezza della sua risoluzione strategica come infatti lui stesso riconosce:
“Non ci facciamo illusioni sulla possibilità di creare una nuova società ideale, il nostro obiettivo è solo distruggere quella esistente. […]. Noi proponiamo l’ideale positivo della Natura. La natura selvaggia, ovviamente: tutti gli aspetti della vita sulla Terra e dei suoi esseri viventi, che non dipendono dalla gestione umana e sono liberi dalla sua interferenza e dal suo controllo. E in questa natura selvaggia includiamo la natura umana, intendendo quegli aspetti del funzionamento dell’individuo umano che non sono soggetti alla regolamentazione della società organizzata […]”.
Il ruolo necessario dell’azione violenta, che – non va dimenticato – Kaczynski esercitò lungamente, non fu inserito nel Manifesto, ma demandato ad altri contesti, qui in particolare in un breve ma denso saggio intitolato In difesa della violenza.
“Il sistema non è, e mai sarà, soddisfatto di una qualsiasi situazione di stabilità – esso cerca in continuazione di espandere il suo potere e non può permettersi di tollerare in nessun caso che vi sia qualcosa al di fuori del suo controllo […]. Per questo, il conflitto tra noi e il sistema è inconciliabile, e alla fine potrà essere risolto solo attraverso la forza fisica. Dopotutto, il sistema dipende proprio dalla forza e dalla violenza per mantenersi – ed è per questo che esistono i corpi di polizia e gli eserciti. Se noi rivoluzionari rinunciamo del tutto a ricorrere alla violenza, ci mettiamo in una condizione di svantaggio paralizzante rispetto al sistema. Non sto promuovendo l’idea di una violenza indiscriminata o di vendetta automatica; in molte situazioni, le tattiche di non violenza sono molto più efficaci. Ma ritengo che l’uso della violenza sia uno strumento indispensabile nella cassetta degli attrezzi di ogni rivoluzionario, e che dovremmo essere preparati a usarla nel momento in cui potremmo avere dei vantaggi agendo in tal modo”.
Al di là dell’opinione che il lettore può avere circa l’analisi e le conclusioni che Kaczynski raggiunge, certamente il testo si inserisce in un filone, quello della critica della violenza rivoluzionaria, che vede molti predecessori. Così come altri in passato sono apparsi come figure sognatrici e – forse – deliranti, per poi diventare con il tempo elementi chiave nella riflessione politica, così oggi Kaczynski merita di essere letto e criticato per ciò che realmente è stato, e non per una immagine rivista e corretta a uso e consumo di chi lo ha processato e condannato. Questo indipendentemente da una ipotetica adesione – o meno – che non deve riguardare lo storico del pensiero. Plauso quindi a D Editore, Emmanuele Pilia e ai suoi collaboratori per il lavoro unico che questo volume rappresenta.