Per Geoff Dyer (l’autore di Natura morta con custodia di sax. Storie di jazz) sono una vera e propria ossessione, e li definisce il più grande trio sulla Terra, in un lungo e appassionato articolo apparso nel 2017 sul New York Times. Per Richard Williams, invece, uno dei più illustri critici musicali e autore, tra gli altri, dello stupendo The Blue Moment, sono un gruppo del quale avrebbe serie difficoltà a fare a meno. Dichiarazioni simili possono sicuramente essere trovate tra i numerosi fan in giro per il mondo che seguono con profonda passione la musica del trio australiano Necks, ormai in attività da più di trent’anni. E ogni loro nuovo lavoro è quasi sempre presente in molte playlist di fine anno, cosa assai rara in ambito jazz, a parte i grandi musicisti del passato. Ma i Necks, che grandi ormai lo sono diventati, ripetono puntualmente quella sorta di miracolo musicale che costruiscono con coerenza ed estrosità in ogni loro disco, oltreché nelle loro performance live. Chris Abrahams, piano e Hammond, Lloyd Swanton, contrabbasso e basso elettrico, Tony Buck, batteria e percussioni, hanno formato questo anomalo trio jazz nel lontano 1987, a Sidney, in Australia, e da allora hanno registrato quasi una trentina di dischi, tra studio e live, più un’intensa attività concertistica che li ha visti suonare in tutto il mondo e ad accrescere, anno dopo anno, la loro estesa platea di ammiratori e fan, a dispetto di tutte le mode e correnti musicali.
Un trio inconsueto, all’apparenza un classico piano trio che invece non ha quasi nulla a che fare con le musiche tipiche di questa line up, riuscendo a costruirsi un’estetica affatto originale e unica. Il loro approccio, il loro modus operandi è quanto di più lontano da ciò che le classifiche e gli ascoltatori in genere solitamente apprezzano. Brani generalmente lunghi all’incirca un’ora, assenza di vere e proprie melodie, musiche che sembrano assolutamente statiche e ripetitive, con caratteristiche che superficialmente possono essere definite noiose, sempre uguali. Ma alla fine i Necks sorprendono sempre, e ogni loro disco o concerto non è mai uguale a sé stesso. Come funziona la loro musica, qual è il loro segreto, perché affascinano un così grande numero di ascoltatori. Tentiamo di analizzare i loro mondi sonori, le particolarità, le proposte.
The Necks, da sinistra: Tony Buck, Lloyd Swanton, Chris Abrahams.
Innanzitutto, e questo è un elemento fondamentale, i Necks improvvisano: la loro musica è frutto certo di lunghe e costanti prove, ma tutto è sempre e rigorosamente improvvisato. Un tipo di improvvisazione che non si basa su un giro armonico, sulla struttura di un tema, persino la modalità sembra non essere proprio la loro cifra distintiva. Altresì siamo lontani da un approccio improvvisativo di derivazione free, così come da modalità contemporanee, d’avanguardia storica, anche se ovviamente tracce di questi o altri modelli possono essere rinvenuti nelle loro opere. Ciò che i Necks producono, nelle loro improvvisazioni, sono delle vere e proprie galassie sonore, in apparenza statiche, ma con un loro sotterraneo sommovimento che porta la musica a espandersi quasi impercettibilmente. Un primo tratto distintivo è la consonanza, una forma musicale spesso levigata, morbida e avvolgente che di volta in volta parte da un arpeggio del piano o da un semplice giro di basso, ai quali si aggiunge con suoni lievissimi e indistinti la batteria. In questo primo ambito sembra emergere la lezione del Bill Evans Trio e di Kind of Blue (Richard Williams docet), o le atmosfere eteree di Morton Feldman. Ma a sovrapporsi a questa modalità c’è l’aspetto reiterativo, la lezione dei primi minimalisti, Terry Riley e Steve Reich. Ed in questo i Necks sono formidabili: la loro capacità di sostare su cellule minime e imperscrutabilmente modificarle è senz’altro virtuosistica, in un’accezione positiva, non come forma di esibizionismo ma come incredibile capacità di resistere all’esigenza e alla voglia di cambiare che è tipica di gran parte del mondo musicale occidentale. L’altra singolarità del trio è quella di essere immediatamente all’interno della galassia sonora, senza dover cercarsi, senza quella dinamica di studio, di dialogo teso all’individuazione di un territorio comune, tipica di molte situazioni di improvvisazione libera. I Necks sono già lì, e se c’è una fase di minime mutazioni in attesa di individuare il discorso narrativo, questa è assolutamente già sensata, è già esposizione, racconto, storia. In breve, il trio si conosce così bene che alla prima nota è già in grado di predisporre con naturalezza lo svolgere dell’evento, lo sviluppo futuro.
Ancora: non c’è un vero e proprio solista perché in realtà non c’è mai un vero e proprio solo. Il trio è saldato, fuso in un unico e costante flusso sonoro, nel quale i tre strumenti convergono immediatamente, a formazione della galassia sonora. Galassia che, come detto in precedenza, muta impercettibilmente, e conduce l’ascoltatore all’interno di un movimento pacato, conforme, disteso, dove si passa dall’estatico al vigoroso, dall’etereo al materico, dal silenzio al suono, quasi senza accorgersene tale è l’abilità di mutare scenari con semplicità e naturalezza. È un’esperienza che i Necks riescono a riprodurre disco dopo disco e live dopo live, sempre con le stesse modalità eppure sempre diversa. Drive By, del 2003, è un’ora di ipnotico sogno assolato, appena segnato da temporanee nubi, Body è una lunga preparazione a una deflagrazione consonante per poi tornare nell’oblio, Townsville, un loro disco live del 2007, inizia con un semplice e assai efficace basso sul quale i morbidi arpeggi di piano si adagiano mentre i piatti di Tony Buck, appena sottili e impalpabili, fanno da sfondo all’eterea suite di circa 53 minuti. Su Chemist (2006), le tre composizioni di circa venti minuti ciascuna attraversano diversi spettri sonori: se Fatal insiste su un passaggio di semitono reiterato dal basso, con la batteria agile e incisiva, e il piano che accarezza il suono con delicati arpeggi, Buoyant fonde minimali interventi elettronici con sognanti note di piano, sempre sostenuti dalla profondità essenziale del basso e dal colorismo della batteria, mentre Abillera è introdotto da un basso scurissimo, tenebroso, al termine del quale si delinea un paesaggio solare, con Abrahams, qui alla chitarra e poi all’Hammond, che si muove dolcemente su pochi accordi supportato da una ritmica penetrante e pressante.
Three, del 2020, è ancora differente: anch’esso con tre composizioni poco sopra i venti minuti, mostra sin dall’inizio lati più energici, sporchi per alcuni versi, come in Bloom, caratterizzato da basso e batteria irruenti e intrecciati a sotterranei rumori percussivi sui quali il solito Abrahams ondeggia come una vela sospinta dal vento. Lovelock è un Morton Feldman spettrale, inquieto, attraversato da spirali luminose, sciabordio di piatti e rullante e rintocchi di basso, e Further, a chiusura dell’ennesimo capolavoro, che lavora sulla tensione, sull’esercizio alla resilienza, al sostare sul limite dell’ignoto.
Travel, il loro ultimo disco, del 2023, non fa altro che confermare l’assoluta particolarità di un ensemble unico, sorprendente, sempre in grado di stupire e entusiasmare i suoi ascoltatori. Quattro brani, tra i diciassette e i venti minuti, esemplari delle modalità espressive e improvvisative del trio. Il riff di basso incisivo e reiterato di Signal fa da basamento agli arpeggi di Abrahams e alla cellula Hammond incastonata sull’incedere del riff, mentre Tony Buck sussurra i piatti in sottofondo. La tenue Forming, riflessiva e intima, quasi a mo’ di delicata ballad, precede la più perturbante Imprinting, con il consueto lavoro intorno ai vuoti, al non detto, all’indefinito, e Bloodstream, ultima composizione, dall’inizio solenne contraddistinto da un organo ecclesiastico, sembra sempre sul punto di lanciarsi in un estatica esplosione: un bordone di contrabbasso con l’arco, la batteria con il suo rullare senza tregua e sporadici colpi di tamburo, il piano che lavora su una pentatonica dai lontani echi blues avviluppato all’organo, una continua e incessante tensione che fa dell’attesa la sua stessa esplosività. Un piccolo gioiello della musica e del mondo Necks.
Il loro recente tour mondiale, che ha toccato anche l’Italia, con un concerto allo Spazio Teatro 89 di Milano e l’altro allo splendido Auditorium San Domenico di Foligno, ha di nuovo immerso gli spettatori nel flusso sonoro del trio. La data della cittadina umbra, organizzata in modo impeccabile dall’Associazione Culturale Young Jazz il dieci dicembre dello scorso anno, ha raccolto un numeroso pubblico, proveniente anche da Roma e da altre città del centro Italia, ed è stata l’ennesima occasione di apprezzare la musica dei Necks. Due set di circa 40 minuti ciascuno, acustica perfetta, e la possibilità di godere appieno delle multiformi sensazioni che solo questo trio australiano è in grado di regalare. La capacità di individuazione di cellule melodiche e/o ritmiche, la loro reiterazione e le intime e minimali evoluzioni, l’immersione in un mondo privo di tempo, solo apparentemente statico, i delicati mutamenti di paesaggio, tutte caratteristiche che i Necks hanno mirabilmente dispiegato dal vivo nelle due composizioni. Un minimalismo improvvisato che, al pari della profonda coesione e unione dei tre musicisti (da notare che sui loro dischi la formazione è in rigoroso ordine alfabetico e non per strumento, a dimostrazione dell’idea di assoluta connessione del trio) ha mostrato la rilevanza del ruolo del contrabbasso di Lloyd Swanton. Al centro non solo della scena, con Abrahams e Buck ai lati, Swanton è sembrato essere il fulcro della performance, colui che àncora le suggestioni musicali, le racchiude nella conformazione del flusso sonoro distendendo la galassia musicale del trio. È una musica che rifugge le grida e gli assoluti, che accenna e sussurra, distesa e noncurante del tempo, lontana anni luce dalla competizione continua e dall’individualismo imperante e opprimente delle nostre società.
“Nella musica dei Necks c’è tanta gioia ed è ancor più gratificante in quanto ottenuta a caro prezzo”
(Williams).
- The Necks, Drive By, Fish of Milk, 2003.
- The Necks, Townsville, Fish of Milk, 2006.
- The Necks, Chemist, Fish of Milk, 2007.
- The Necks, Three, Northern Spy Records, 2020.
- The Necks, Travel, Northern Spy Records, 2023.
- Alessandro Carrera, Filosofia del minimalismo, Volontè & Co, Milano, 2022.
- Geoff Dyer, Natura morta con custodia di sax. Storie di jazz, Feltrinelli, Milano, 2022.
- Harry Sword, Alla ricerca dell’oblio sonoro, Edizioni di Atlantide, Roma, 2022.
- Richard Williams, The Blue Moment, il Saggiatore, Milano, 2011.