Il sipario non è calato
sul teatro di Bertolt Brecht

La visione sociale che ha del teatro Bertolt Brecht (Augusta, 10 febbraio 1898 – Berlino Est, 14 agosto 1956) è permeata dal carattere mutevole delle cose del mondo, che hanno perso la loro aura mistica e oggettiva, risultando similare al pensiero di Walter Benjamin (Berlino, 15 luglio 1892 – Portbou, 26 settembre 1940) in merito alla necessità di rifunzionalizzare l’opera d’arte.

La visione sociale che ha del teatro Bertolt Brecht (Augusta, 10 febbraio 1898 – Berlino Est, 14 agosto 1956) è permeata dal carattere mutevole delle cose del mondo, che hanno perso la loro aura mistica e oggettiva, risultando similare al pensiero di Walter Benjamin (Berlino, 15 luglio 1892 – Portbou, 26 settembre 1940) in merito alla necessità di rifunzionalizzare l’opera d’arte.


“Avevo intenzione di applicare al teatro il principio che ciò che conta non è solo interpretare il mondo, ma trasformarlo”
(Brecht, 2001).

A partire dall’Ottocento si assiste ad una riorganizzazione dell’assetto urbano, che conferisce alle maggiori città l’appellativo di Metropoli: un ambiente sovrastato dal dettame capitalistico che porta all’acuirsi della distinzione tra classi sociali. I modi di produzione in serie e il proliferare di nuove tecnologie invadono la quotidianità di tutti, intaccandone la qualità, la fruizione, inducendo inesorabilmente a una nuova esperienza di vita. È questo lo scenario in cui operò il drammaturgo e regista teatrale Bertolt Brecht (1989-1956), rivoluzionando la concezione di spettacolo nella Berlino novecentesca del dopoguerra. Opponendosi al teatro borghese, sperimentò un teatro epico, meno complice del meccanicismo della società di massa, dai gusti e l’estetica indotta. Poco condiviso dal realismo socialista, Brecht era ritenuto troppo intellettuale e formalista: i suoi drammi difatti erano rivolti a un pubblico tormentato, permeato da contraddizioni irrisolte, che non conosce certezze da confermare in scena. In opposizione al teatro naturalistico del primo August Strindberg e ai drammi di Erik Ibsen, Brecht indirizzava le proprie opere unicamente al proletariato, definito da lui “la classe del futuro” (Brecht, 2015). Puntò piuttosto a un teatro che si assumesse il compito di educare alla vita dedicandosi a un teatro socialmente e politicamente impegnato caratterizzato da un’accezione marxista. La sua visione sociale del teatro, difatti, è permeata dal carattere mutevole delle cose del mondo, che hanno perso la loro aura mistica e oggettiva, risultando similare al pensiero di Walter Benjamin in merito alla necessità di rifunzionalizzare l’opera d’arte, come approfondiremo in seguito.

La teatralizzazione brechtiana oggi
A oggi la nozione di teatro sociale connota il panorama del performativo investendolo nelle diverse sfaccettature; tuttavia i vari esempi di spettacolo odierno assieme alla sperimentazione conservano una matrice tradizionale, talvolta riconducibile a quello che fu l’esercizio brechtiano. Certi casi derivano da dialoghi che tessono fila secolari, e mettono in comunicazione plurime generazioni di artisti/teatranti, delineando un continuum di rifunzionalizzazione artistica che si rivela sempre moderna.

“Perché c’è un abisso tra l’alto e il basso […]
Ma chi è in basso, in basso è costretto,
perché chi è in alto, in alto rimanga.
[…] Perché dove regna la violenza solo la violenza può servire,
e dove ci sono uomini, solo uomini possono dare aiuto”
(Brecht, 2018).

La dialettica di conflitto tra alto e basso nelle dinamiche sociali sfocia spesso nella necessità da parte dei teatranti di prender parte a questa lotta reale attraverso forme alternative di rappresentazione. Dinamica che si rifletteva perfettamente nei contenuti e negli esiti linguistici del teatro politico di Brecht e riscontrabili come un’ideale prolungazione odierna nello spettacolo del 2010, Alexis. Una tragedia greca, di Motus. Alexis è il lavoro conclusivo di Syrma Antigones, un progetto che si fa carico dell’urgenza di un rapporto col reale, vivo e mutevole, in cui il presente si concretizza. Il percorso sull’Antigone trae forma dallo spettacolo Antigone di Sofocle-Brecht del Living Theatre (1967), muovendo i suoi primi passi nel 2008 con The Plot is the Revolution, spettacolo costruito da Silvia Calderoni assieme a Judith Malina, al tempo unica capostipite del Living ancora in vita. Interessante la tensione dialettica costruita attorno alla tragedia sofoclea Antigone, considerando che lo spettacolo del Living del 1967 non fosse una creazione inedita, ma la rielaborazione di una riscrittura di Brecht del testo sofocleo, compiuta nel 1948 partendo dalla versione in poesia di Friedrich Hölderlin. Successivamente i Motus hanno lavorato a loro volta cominciando dallo spettacolo del Living.

“Scelgo il nome di Antigone per ricostruire-tracciare-delineare-delimitare-declinare il tema della rivolta nel contemporaneo, procedendo in modo per nulla esaustivo, ma frammentario e lacunoso” affermò Daniela Nicolò in merito al progetto
(Daniela Nicolò, 2010).

Non è certamente una curiosa coincidenza riscontrare nei loro procedimenti la frammentarietà, il procedere per immagini, e per tematiche in dialogo con il presente: è pienamente una retorica brechtiana, la cui assunzione da parte di Motus ne conferma la valenza e l’efficacia come teatro socialmente impegnato. In Alexis gli attori vivono sul palco carichi di un proprio vissuto intrecciando, secondo la scrittura scenica, la retorica narrativa dei testi di riferimento, dunque Sofocle, Brecht e il Living.
L’originale tragedia greca fu adattata dal drammaturgo tedesco alla sua contemporaneità, ambientandola nella Berlino del 1945, nel cui scenario bellico primeggiano due sorelle, una SS e un fratello disertore ucciso. Il testo ripreso a posteriori per la produzione artaudiana dell’Antigone di Sofocle di Bertolt Brecht predispone le basi per una messinscena che ne impiega apertamente i dispositivi, seppur allontanandosi dalla trama. Lo straniamento brechtiano è riscontrabile nella composizione testuale del Living, ma anche nella drammaturgia attoriale: ricordiamo la narrazione in terza persona, la presenza esterna al personaggio e l’esplicita lettura di didascalie che descrivono l’azione piuttosto che mimarla. Medesimi elementi impiegati da Motus in Alexis. Metodi e icone brechtiane si condensano in artisti altri che originano trasposizioni di un mito che sopravvive al suo tempo, generando continuità. Delineando gli equivalenti degli archetipi della tragedia di Sofocle, i Motus hanno rivolto lo sguardo alle proteste nella Grecia contemporanea, animate dopo la morte di Alexis, ragazzo del quartiere ateniese Exarchia, ucciso da un poliziotto nel 2008; celebrato oggi come un moderno Polinice. Anche qui la scrittura scenica si avvale della contemporaneità, commistione fra testualità e realtà, generata da una composita drammaturgia d’autore e d’attore. Scrive Gerardo Guccini:

“la «scrittura scenica» […] si è resa disponibile a rigenerati rapporti col reale, per cui lo spettacolo, invece di trasporre l’esistente in modo mimetico, lo testimonia, […], lo riferisce oppure include direttamente, esprimendo […] la presa di posizione dei teatranti nei suoi riguardi”
(Guccini, 2011).

In Alexis confluiscono armoniosamente brani di Brecht e del Living, sovrapponendosi alle immagini reali delle poteste greche del 2008, riprodotte in video e esaltate attraverso musiche, suoni e oggetti di scena come caschi, scudi di poliziotti, fumogeni e fiamme; seguendo modalità brechtiane. Gli attori stanno in scena perché animano la vicenda, senza emularla ma dandovi corpo. Attrici come Alexandra Sarantopoulou connota lo spettacolo di un doppio livello, nelle vesti attoriali ma anche testimoniali, come reale abitante del quartiere di Exarchia. Antigoni di scena, Antigoni di vita. Focalizzandoci sulle prassi brechtiane di straniamento, lettura delle didascalie, impiego di video-tecnologie e proiezioni, la storia del teatro è costellata da rappresentazioni similari in modi e finalità. E le diverse rappresentazioni di Antigone sono solo alcune tra gli esempi teatrali che riflettono quanto l’efficace esperienza di grandi maestri abbia senso d’ essere adottata, riproposta e rinnovata, sino al presente.

“Chi è Antigone per te oggi?” chiede l’attrice Silvia Calderoni, interrogandosi durante lo spettacolo su un dilemma umano quasi senza tempo. Per quanto quelle di Brecht, del Living e dei Motus siano interpretazioni singolari volte a denunciare specifiche tematiche distanti tra loro, ad accomunarli è l’impiego di dispositivi brechtiani per lo sviluppo di un’arte fedele alle istanze politiche e sociali dei corrispettivi tempi. Permettendo di evincere la forte attualità del contributo artistico di Bertolt Brecht. Portando in esempio un’esperienza teatrale che abbia attinto ancor più recentemente dal maestro tedesco, è inevitabile menzionare Ascesa e caduta della città di Mahagonny, spettacolo portato in scena al Teatro Sociale di Como il 4 e 5 aprile 2024. L’originale opera in tre atti del 1930 è frutto del sodalizio tra Brecht (in qualità d’autore) e il compositore Kurt Weill. L’interesse verso la riproposizione contemporanea ha suscitato poi l’esigenza di ulteriori repliche in giro per l’Italia e la realizzazione di congressi dedicati.
Gli autori originali dell’opera hanno voluto dar vita a un mondo tortuoso ed estremo, dal tempo dilatato, raccontando della città di Mahagonny in cui tutto è permesso grazie al denaro. Qui si evince la poetica politica di Brecht, che realizza l’opera come denuncia della degenerazione sociale di quegli anni, prevedendo in maniera epifanica la società consumistica del XXI secolo. La composita durezza e la brutale contemporaneità della messa in scena rispondono alla manifesta necessità di una ricongiunzione al mondo musicale e drammaturgico brechtiano. La sua scena ci sbatte dinanzi agli occhi un mondo dell’accumulo, del futile, della spasmodica produzione, della disfatta delle leggi in cui tutto è permesso.

“La libertà totale rende però l’uomo cannibale, autodistruttore, che sia carne animale, il ventre di una donna da deflagrare o il corpo di un uomo ucciso. Quando la libertà diventa giudice supremo nessuna norma vale più e nessun uragano potrà spazzare via il mondo tragicamente, quanto un piccolo uomo”
(Bruno Dal Bon, 2024).

È in queste parole che siamo costretti a riconoscere la descrizione del nostro attuale mondo. Che fosse lungimirante la visione di Brecht, o semplicemente stagno e ciclico il decorso umano, fatto sta che l’opera riconsiderata oggi risulta esaustiva per gli interrogativi a cui il mondo moderno si sottopone. Taluni sciolti, altri ancora sono oggetto di dibattito, ulteriori invece hanno portato a mirabili deduzioni; certo è che ancora una volta è stato possibile cogliere un’analogia tra la creazione brechtiana e l’attualità. Innumerevoli possibilità giacciono al di sotto delle superfici polverose sulle quali si adagia il pensiero quotidianamente; la realtà di Brecht sembra invece suggerire risposte applicabili in ogni contesto e tempo. Mahagonny oggi riflette su ciò non solo attraverso l’esibizione in scena o il semplice dibattito, ma in maniera piuttosto inconsueta: attraverso il racconto politico, di storie, di utopie. Il tutto prende lo spazio necessario anche in un ciclo di conferenze che inglobano e considerano sempre più il pubblico, per poi terminare finalmente con il vero e proprio omaggio teatrale all’opera di riferimento nella sua forma e dignità originaria. Chiudendo, ricordiamo Rocco Ronchi che affermò come il teatro del drammaturgo tedesco prevedesse

“una radicale scelta di campo […] per il reale/contro la dimensione immaginaria del teatro, ed è questo uno dei motivi che rendono il metodo brechtiano assolutamente attuale, cioè assolutamente legato anche a una nostra esigenza”
(Ronchi, in Marino, 2016).

Oltre la mimesi e la ripresa accademica dei meccanismi brechtiani in spettacoli novelli, a oggi sussiste ancora la celebrazione artistica omaggiante i grandi maestri. Ed è così che le opere di Brecht riescono a vivere nel presente, riesumate fedelmente alla loro natura politica degli anni Venti novecenteschi, trovando spazio nella nostra contemporaneità nella forma più pura e ammirativa che esista: la riproposizione fedele. Sebbene difatti sia ammirevole riuscire ad attingere dal passato per una reinvenzione adatta al nostro tempo, è altrettanto necessario continuare a proporre in scena le opere nella loro essenza primaria e natia, cosicché non se ne adulteri la forma ed il significato originario. In una forma celebrativa che non fa che accrescere la sua importanza ed unicità nella storia, tanto da rimarcare quanto possa essere tutt’ora attuale.

“Mette paura per la lucidità disperata con cui Brecht e Weill nel 1930 hanno letto la propria epoca e profetizzato la nostra quotidianità”.
(Proietti, 2008).

L’opera d’arte da oggetto di consumo a mezzo di comunicazione

“Nell’istante, però, in cui alla produzione manca il criterio dell’autenticità dell’arte, anche l’intera funzione sociale dell’arte si trasforma. Al posto di una sua fondazione nel rituale s’instaura una sua fondazione su una prassi diversa, vale a dire un suo fondarsi sulla politica”
(Benjamin, 1998).

All’interno del sistema sociale borghese novecentesco, l’arte assume ruolo come derivazione delle autorità fasciste, abortendo qualsiasi tentativo di sovvertimento del rapporto tra il prodotto artistico e la società. In L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Benjamin ipotizza che la rifunzionalizzazione implichi necessariamente una presa di posizione e delle possibilità al di fuori dei mezzi che la società stessa mette a disposizione. Serve un’arte nuova che non sia figlia, e successivamente cibaria, della metropoli. A tal proposito si pronunciò anche Theodor W. Adorno, sociologo tedesco noto per la critica radicale alla società e al capitalismo avanzato, spesso in contrasto con il pensiero benjaminiano. Anch’egli però affermò come l’opera si dovesse necessariamente compiere in una maniera del tutto nuova affinché acquistasse intenzione comunicativa, al di fuori di ogni impostazione dell’industria culturale. Benjamin dal canto suo definì come la riproducibilità tecnica portasse il lettore (o lo spettatore) a subire uno choc, cambiando il modo in cui gli vengono sottoposte le immagini, non riuscendo a leggere criticamente. Il teatro epico e politicamente impegnato di Bertolt Brecht assunse proprio l’impegno di sollecitare nuovamente gli spettatori ad avvalersi della propria capacità critica su ciò che vedono e di conseguenza della condizione sociale in cui risiedono. Un teatro che incarna le fattezze di una vera e propria battaglia che inneggia alla rivoluzione, che porta compiutamente alla rifunzionalizzazione del teatro come arte. La ‘letteralizzazione dei rapporti vitali’ (Benjamin, 2004) è dunque una proposta comune a Brecht e Benjamin, configurandosi come una lotta alla contemporaneità.

“[…] ecco qui una proposta per modificare il funzionamento della radio: si dovrebbe trasformare la radio da mezzo di distribuzione in mezzo di comunicazione”
(Brecht, 2019).

Andando però di là dei concetti filosofici e metodologici che desumono una visione comune ai due intellettuali, che approfondiremo più avanti, esiste un’antitesi sulla loro effettiva congruenza teorica. La questione, sicuramente da prendere in esame, è palesata negli scritti di Adorno: si tratta dell’immediatezza. L’incongruenza di pensiero tra Adorno e Benjamin è già fermamente palesata, ma Adorno decide di affermarsi come concorde al pensiero brechtiano, distanziandolo da quello di Benjamin.

“Lei sottovaluta la tecnica dell’arte autonoma e sopravvaluta quella dell’arte indipendente; questa sarebbe forse, in parole semplici, la mia principale obiezione: potrebbe però solo comporsi come dialettica tra quegli stesi estremi che Lei separa. Questo a parer mio non significherebbe altro che la liquidazione totale dei motivi brechtiani che già qui si trovano in fase di profonda trasformazione soprattutto di qualsiasi appello all’immediatezza di un contesto di efficacia, qualunque sia la sua conformazione e all’effettiva coscienza dei proletari effettivi che non hanno, rispetto ai borghesi, assolutamente nessun vantaggio se non l’interesse alla rivoluzione, e per il resto portano tutte le tracce di mutilazione proprie del carattere borghese”
(Adorno, Benjamin, 1995).

Risulta già alquanto attestata l’affermazione di Adorno circa il rifiuto brechtiano rispetto all’autonomia artistica, ma è degna d’indagine l’accusa che il suo teatro fosse la fonte dell’immediatezza benjaminiana rispetto all’arte di massa. La cultura di Weimar ha sicuramente posto di comune accordo Brecht e Benjamin rispetto alla questione per cui la modernizzazione tecnologica abbia comportato un mutamento antropologico radicale. Brecht però non ha mai attribuito a nessuna forma tecnologica una capacità meccanica di emancipazione, non capitolandosi dunque nell’idealizzazione dei prodotti. Difatti per quanto egli nel suo teatro epico si fosse confrontato con le nuove forme comunicative quali radio e cinema, non gli affida certamente il potere di creare autonomamente una maggiore possibilità conoscitiva sulla propria condizione sociale. Quello che ne scaturisce invece è una rilettura dei due media rispetto alla produzione e fruizione. Ne deriverebbe che essendo gli oggetti culturali divenuti prodotti di consumo, è impossibilitata qualsiasi azione immediata dell’arte nel riscontro col suo pubblico. Per cui se il teatro drammatico risulta fondarsi sull’immediatezza, la rivoluzione brechtiana dilata il teatro (attraverso molteplici artifizi) inserendo un’ulteriore mediazione tra spettatori e messinscena.

Alexis. Una tragedia greca, l’ultima parte del progetto Syrma Antigónes di Motus che lega assieme il testo sofocleo e l’attualità passando per Brecht.

Questa concezione è sicuramente condivisa sia da Adorno che da Brecht per la comune matrice hegeliana, disconosciuta invece da Benjamin. Il reale portato sulla scena da Brecht risulta dunque una possibilità, per cui la razionalità non è fonte produttrice di contenuti in maniera indipendente (per tutto il teatro epico), tendendo verso un pensiero nichilistico. Inoltre nel suo teatro è centrale una devianza verso l’idea illuminista classica dell’intellettuale/artista come fonte di emancipazione (di comune pensiero con Adorno); ruolo possibilmente esautorato da Benjamin. Difatti quest’ultimo nella sua opera L’autore come produttore individua come fine del lavoro intellettuale la realizzazione della possibilità tecnica in un ambito prettamente politico (cfr. Benjamin, 2004). Ne deriva che l’intellettuale non fornisce rivelazioni alla massa per la sua emancipazione, ma spinge verso “la politicizzazione della propria classe” (Benjamin, 2002). È sicuramente vero però, che per Brecht come in Benjamin, vi è un lavoro intellettuale continuo sulla tecnica, solo che per Benjamin assume piena autonomia rispetto alla prassi. In Brecht invece è lampante come una trasformazione del teatro sia inscindibile dalla trasformazione della società. Ne deriva che il suo momento politico sia univocamente legato al momento estetico, che implica una scissione tra ratio e sentimento. Possiamo dunque desumere che piccole sfumature incrinino la completa sovrapposizione di pensiero tra Brecht e Benjamin, che risultano comunque accumunati dalla medesima visione sociale e una similare conduzione di ricerca, permettendo di appellarli come figli rivoluzionari di uno stesso tempo.   Si può dunque concludere che il teatro di Bertolt Brecht si sia affermato nella storia come uno dei laboratori principali della gnoseologia benjaminiana.

Baudelaire e l’atrofia dell’esperienza moderna tra spleen e choc
Baudelaire ha costruito il suo pubblico tra coloro non avvezzi alla lirica, rivolgendogli il poema introduttivo dei Fiori del male. Tale pubblico però non è lungimirante rispetto allo scritto, preferendo i piaceri sensibili, permeati dallo spleen che li annulla in ricettività. Ecco è divenuto impassibile anche dinanzi la poesia lirica proveniente dal passato. È quindi lecito il quesito posto da Benjamin su come Baudelaire abbia fatto a presentarsi sulla scena del tempo come poeta, ma anche ad affermarsi come padre della poesia moderna in un contesto senza posto per i poeti, permeato dall’interesse individuale del mercato e dell’industrializzazione massiccia. Miracolosamente però l’opera del poeta non viene fagocitata tristemente, ma si offre come slancio verso l’ideale, lasciando un varco libero alla presa di coscienza dello stato delle cose, puntando all’emancipazione umana. Configurandosi così come una biforcazione delle volontà brechtiane che assumono una nuova forma. La ricezione delle poesie liriche nel secolo scorso è divenuta inconcludente, questo probabilmente, secondo Benjamin, perché solo in casi eccezionali la lirica conserva un vero contatto con l’esperienza dei suoi lettori.

Un altro momento dello spettacolo Alexis. Una tragedia greca di Motus.

Benjamin ha definito Baudelaire un poeta lirico nell’epoca del capitalismo avanzato, interessante per aver prestato particolare attenzione ai soggetti marginali della società, in particolare nei poemetti in prosa Lo Spleen di Parigi (1864-1869), conducendo la propria sensibilità verso le stridenti contraddizioni sociali alquanto visibili nella Ville Lumière. “Ènivrez-vous!” scriveva Baudelaire, esortando l’uomo allo stato di ubriachezza per liberarsi dal tempo del lavoro meccanizzato. Egli si sente privilegiato dal prodotto del plusvalore liberato (il “tempo libero”), ricadendo nella noia, il cosiddetto spleen del vuoto alienato, legato al meccanico ripetersi delle ore della solitudine nella folla nella metropoli. Baudelaire emerge nella scena letteraria come la voce critica nella folla, che è sfondo di molti suoi poemi. Configurata come una massa anonima e amorfa, lo choc pervade il passante, definito flaneur, che, trascinato, diviene parte del flusso come esperienza nuova del tempo moderno. La questione dello choc e dello spleen vengono assunti a fulcri caratterizzanti della società occidentale del capitalismo avanzato, pienamente dimostrato nel sonetto A una passante da I fiori del male, tanto attenzionato anche da Marcel Proust. Nella poesia è descritta una donna bellissima che attraversa la folla in senso contrario a quello del flaneur, lo urta e lui ne cade perdutamente innamorato. La storica lettura del sonetto da parte di Benjamin in Di alcuni motivi in Baudelaire, coglie l’aneddoto centrale del testo facendolo emblema stesso dell’esperienza dello choc, della catastrofe che investe il soggetto moderno con la sua estraneità rispetto al proprio stesso desiderare e sentire.

“La memoria sarebbe quindi contrassegnata dal fatto che il processo della stimolazione non lascia in essa, come in tutti gli altri sistemi psichici, una modificazione duratura dei suoi elementi, ma sbollisce, per così dire, nel fenomeno della presa di coscienza”
(Benjamin, 2014).

Per cui “la presa di coscienza e la persistenza di una traccia mnemonica sono reciprocamente incompatibili per lo stesso sistema” (Reik, cit. in ibidem). Secondo Sigmund Freud la coscienza delle masse non avrebbe in sé la funzione di accogliere tracce mnemoniche, ma funge da difesa contro gli stimoli della società, appellabili come choc. Più questi vengono registrati dalla coscienza (e non dalla memoria), tanto meno se ne deve temere un effetto traumatico. È questo choc e conseguente presa di coscienza che Baudelaire teorizza come “esperienza vissuta” nella metropoli. Sembrerebbe questa l’origine del problema che ha investito la poesia lirica: potrebbe essere fondata su un’esperienza in cui la ricezione degli choc è divenuta la regola. Ci si dovrebbe attendere, invece, che la poesia comporti un alto grado di consapevolezza, secondo una rifunzionalizzazione dell’arte che abbiamo visto essere pienamente realizzata nella drammaturgia di Brecht. Ciò è visibile nella poesia di Baudelaire, e prima di lui in Edgar Allan Poe.

Ascesa e caduta della città di Mahagonny, spettacolo portato in scena quest’anno al Teatro Sociale di Como.

Baudelaire intuisce questo problema nella lirica, quanto il mancato funzionamento della riflessione determini lo spavento sgradevole che sancisce il fallimento della difesa contro gli choc. Questa immagine è stata fissata da Baudelaire come un duello in cui l’artista, prima di soccombere, grida di spavento. Il duello coincide con il processo stesso di creazione. Il poeta, in maniera del tutto autoriflessiva, ha posto l’esperienza dello choc al centro stesso del suo lavoro artistico. In balia dello spavento, egli non è alieno dal provocarlo a sua volta (cfr. Benjamin, 2014). Baudelaire nella propria persona intellettuale e fisica, ha assunto il compito di parare gli choc, riflettendolo poi nei suoi scritti. Esiste un intimo rapporto in Baudelaire tra l’immagine dello choc e il contatto con le masse cittadine. Egli non parla di classi o collettivi strutturati; ma di una folla amorfa di passanti, del pubblico delle vie, in cui il poeta combatte la sua lotta per la preda poetica. Dalla folla baudelairiana emerge il flaneur, un individuo che si caratterizza come un’opposizione e una minaccia nei confronti della società in cui si è generato. Contrasta il moto frenetico della folla come modo di protesta contro la divisione del lavoro e la laboriosità della massa. Se avesse deciso lui, il progresso avrebbe dovuto condursi a passo di tartaruga.
Il flaneur è dunque l’«uomo della folla» di Baudelaire, essendosi formato alla luce delle vetrine. Benjamin analizza questa particolare figura distanziandola dal curioso (le badand), inebriato dal mondo esterno e dallo spettacolo, che si dimentica di sé stesso completamente assorbito e spersonalizzato; “non è più un uomo: è pubblico, folla” (Benjamin, 2014). Diversamente “il flaneur è in pieno possesso della sua individualità” (ibidem). Diverso ancora l’uomo asociale di Poe, che a disagio con sé stesso trova rifugio nella folla delle metropoli. Forse il flaneur è proprio Baudelaire, che trova rifugio nella metropoli attraverso la poesia, che amava la solitudine ma la ricercava nella folla. Egli parla dell’uomo immerso nella folla come “un serbatoio di energia elettrica” (Baudelaire, 2021), definendo l’esperienza dello choc “un caleidoscopio dotato di coscienza” (Baudelaire, 2015). Gli uomini della folla di Poe si guardano ancora attorno in maniera immotivata, mentre quelli di Baudelaire, ricalcando la società assimilata da Benjamin, devono guardare per non perire nel traffico. Di conseguenza la tecnica sottoponeva il sensorio dell’uomo a un training di ordine complesso.

Dall’edizione 2024 di Ascesa e caduta della città di Mahagonny (anche foto sotto).

Nella vita metropolitana affianco al flaneur viene teorizzato da George Simmel l’individuo blasé (cfr. Simmel, 1995). Secondo lo studioso, la condizione di questo è la prova dell’intensificarsi delle possibilità di vita nella metropoli; diviene progressivamente sempre meno capace di reagire alle sollecitazioni esterne. Egli si sentirà però sempre costretto a partecipare alla vita sociale, pur cercando di ritagliarsi un punto di riservatezza per tener vivi i residui spirituali della sua personalità. Ma pur riuscendo a farsi scivolare di dosso tutti quegli stimoli, l’individuo subisce nel tempo, a causa del medesimo sovraccarico, un progressivo indebolimento delle sue capacità sensoriali. Queste due così diverse figure nell’esperienza specifica dell’individuo contemporaneo, soggetto ai processi accelerati e agli impulsi dello choc rispondono in maniera differenziata all’esperienza metropolitana, culminano però in una comune, seppur diversa, risoluzione nell’organizzazione vitale dell’uomo moderno. Interessante osservare come nel panorama novecentesco il teatro epico di Brecht, predicante la presa di coscienza, si stabilisce come interlocutore comune ad entrambe gli individui, o perlomeno ne attua un tentativo.
Nella rielaborazione critica del nostro recente passato sulle condizioni della vita sociale vi è al centro il concetto di accelerazione e compressione del tempo. La tecnica veloce pervade l’esperienza e di conseguenza la fruizione. Difatti, in maniera alquanto naturale, Baudelaire percepisce il tempo in modo pessimista, come “un nemico che lo avvicina alla morte” (Baudelaire, 2021), figurato nell’immagine dell’orologio. Crudele ed inesorabile, il flusso temporale è un qualcosa che divora, facendo spazio al vuoto dell’esistenza, che perde così significato. Di conseguenza, l’uomo consapevole di questa minaccia che inevitabilmente consuma il suo slancio vitale, soffre dell’incombenza dello stillicidio del tempo, e si lascia perire sconfitto appunto dalla noia. Anche Brecht riflette in maniera serrata sul transito irrefrenabile del tempo tramite la rievocazione di momenti specifici, contraddistinguendo momenti inscindibili all’esperienza esistenziale della nostra società.

Seppur di stampo nichilista, il pensiero di Brecht è più positivo rispetto a quello baudelairiano in merito al tempo, considerando importante la dilatazione dello stesso in funzione di una simile volontà di presa di coscienza. Se questa per il poeta francese derivava dal parare freneticamente gli choc senza riflessione, ma grazie a impulsi sfrenati, per il drammaturgo tedesco un approccio riflessivo e scientifico è maggiormente risolutivo nel suo teatro. Espedienti tecnici già approfonditi nei capitoli precedenti, come impulsi sensoriali tecnologici, la tecnica dello straniamento, l’impiego della musica, questi nel teatro epico hanno lo scopo di dilatare i tempi, fornendo allo spettatore, per l’appunto, il tempo necessario per risolvere l’opera e criticarla. Un approccio opposto all’immersione irrimediabile nel flusso metropolitano. Si tratta di due concezioni e sollecitazioni contrapposte; la prima entra in contatto, sempre opponendosi, con la massa, mentre la seconda cerca di prenderne le distanze. Nonostante ciò sono accumunate dalla medesima intenzione di sintonizzarsi nel tempo sociale. Ragionamenti affini, che per quanto le strade si biforchino nella metodologia, si configurano come tentativi vari in risposta ad un comune problema. L’universo poetico di Baudelaire è pregno di figure come il flaneur, la prostituta, la melanconia, lo spleen, la noia, i passages, le mémoire, poste sotto la tenace auscultazione di Benjamin. Assunte all’interno del suo mondo teorico, si configurano come elementi quasi scientifici dalla qualità diagnostica rispetto ai destini della Modernità, ponendosi in stretto dialogo con le teorie di Benjamin e l’approccio teatrale di Brecht nella società novecentesca.

Vitalità odierna
Il teatro epico di Brecht si configura come una critica radicale alla società implicando una soluzione alla stessa, che va carpita e attuata solo in nome della propria autocoscienza. La sua critica esiste come progetto di una società nuova, ed egli si auspicava che ciò venisse perseguito anche negli anni a venire. Nella scena contemporanea, i lasciti di Brecht sono ben visibili: i temi politici ridondanti, le recitazioni straniate e l’implicazione di tecnologie nell’artificio teatrale sono centrali nella scena del XXI secolo, seppur senza stabilirsi come unica regola, essendo il nostro ancora un teatro apertamente mimetico ed emozionale. La cosa certa invece è che grazie alla preziosità dell’opera di Benjamin e il suo riscontro teatrale in Brecht, questa nostra società nella forma antropologica in cui l’abbiamo conosciuta è destinata a perire, e in questo senso Brecht è d’avanguardia avendo fatto tabula rasa del passato, senza remore sentimentali. In lui effettivamente si concretizza una rifunzionalizzazione dell’arte come teorizzata da Benjamin, che assume uno spazio nuovo nella civiltà. Max Frisch definì l’irresistibile inefficacia dei classici, che perdono quota o la riacquistano secondo le urgenze dei tempi presenti. Così l’opera di Brecht, dopo la sfortuna degli anni Ottanta, oggi potrebbe nuovamente concretizzarsi come funzionale nel panorama contemporaneo, qualora qualcuno compisse il miracolo di ricalcarne le orme, perché il teatro di Brecht non è stato solo una creazione artistica relegata all’estetica del suo tempo, ma un tentativo di rendere possibile e significativa la vita quotidiana, obiettivo che ancora oggi può vivere negli ideali dell’arte.

“E – vi preghiamo – quello che succede ogni giorno
non trovatelo naturale.
Di nulla sia detto: è naturale
in questo tempo di anarchia e di sangue,
di ordinato disordine, medidato arbitrio,
di umanità disumanata,
così che nulla valga
come cosa immutabile”.
(Brecht, 1972).

Letture
  • Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Briefwechsel 1928-1940, Suhrkamp Verlag, Francoforte, 1995.
  • Umberto Artioli, Il teatro epico di Bertolt Brecht, in Il teatro di regia: Genesi ed evoluzione (1870-1950), Carocci, Roma, 2018.
  • Charles Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, Feltrinelli, Milano, 2015.
  • Charles Baudelaire, I fiori del male, BUR Rizzoli, Milano, 2021.
  • Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1998.
  • Walter Benjamin, Che cos’è il teatro epico?, in Opere complete IV. Scritti 1930–1931, Einaudi, Torino, 2002.
  • Walter Benjamin, Un isolato si fa notare?, in Opere complete IV. Scritti 1930–1931, Einaudi, Torino, 2002.
  • Walter Benjamin, L’autore come produttore, in Opere complete VI. Scritti 1934–1937, Einaudi Torino, 2004.
  • Walter Benjamin, Charles Baudelaire, un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Neri Pozza, Vicenza, 2012.
  • Walter Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 2014.
  • Bertolt Brecht, L’eccezione e la regola, Einaudi, Torino,1972.
  • Bertolt Brecht, Diario di lavoro, Einaudi, Torino 1976.
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  • Bruno Dal Bon, Scheda di presentazione dello spettacolo Ascesa e caduta della città di Mahagonny, 2024.
  • Gerardo Guccini, Teatro/mondo: dalla scrittura scenica ai linguaggi di realtà, dall’imitazione alla sineddoche, in Prove di drammaturgia, n. 2, 2011.
  • Cesare Molinari, Storia de teatro, Editori Laterza, Bari, 2008.
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  • Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 1995.
  • John Willet, Bertolt Brecht e il suo teatro, Lerici, Milano 1961.