Cosa c’è di più appassionante di una rimonta o di una vittoria all’ultimo minuto conseguita da chi partiva sfavorito? Davide contro Golia. Il grande Sly di Diego Gabutti mette in sequenza tutte le sfide perse o vinte da Michael Sylvester Gardenzio Stallone. Divertenti deviazioni cinéphile che offrono la giusta prospettiva per inquadrare il Davide più significativo della storia del cinema americano. Si parte dalla gavetta di Sly nei bassifondi del cinema: le sue comparsate alimentari e quel suo primo ruolo da protagonista in un infame softcore chiamato Porno proibito (poi malignamente re-distribuito in home video con il nome The Italian Stallion) che condurrà ad altre umiliazioni negli anni prima della vendetta proletaria poi conseguita con Rocky. Scrive Gabutti:
“All’inizio gli sono tutti contro […] qui una porta sbattuta, là un invito a non rompere per favore le balle. Insomma la consueta routine di chi ci prova, e che più ci prova più viene umiliato, un protocollo sociale che nei film s’è visto all’opera tante volte, e molte più volte nella realtà. Nessuno, sospetta Sly, deve aver mai neanche sfogliato lo script di Rocky, che viene rifiutato al buio, non appena sentito il nome dell’autore”.
La nuova Hollywood tra corpi duri e miti globali
Ne Il grande Sly l’autore chiama in causa le radici dell’epopea proletaria di Sylvester Stallone. Radici ben piantate nel cinema classico americano, nelle performance di interpreti come James Cagney, Humphrey Bogart, Edward G. Robinson; ma soprattutto negli outsider come la famiglia Joad in Furore, il romanzo sociale di John Steinbeck portato al cinema da John Ford nel 1940 (Ford, 2016).
Eppure nelle prime analisi del mito Stallone gli argomenti chiave erano sempre la mascolinità, la vendetta e, in generale, i rapporti tra ideologia e azione. Si rideva del tenero “tutto il mondo può cambiare” di Rocky Balboa e del “ti spiezzo in due” di Ivan Drago inquadrato come la solita utopia socialista irrealizzabile.
L’endorsement di Ronald Reagan all’epoca di Rocky IV ha spinto studiosi come Susan Jeffords, per esempio, a evidenziare un parallelismo tra le armi retoriche del neoliberismo e il cinema dei “corpi duri” (Jeffords ,1994). Una connessione recentemente investigata anche dal documentario Rocky, L’atomica di Reagan in cui Dimitri Kourtchine (2014) giustappone interessanti prospettive analitiche a filmati di repertorio. Tra questi un fuorionda in cui Reagan (tra un summit e l’altro a Camp David) esalta le scene di combattimento in Rocky IV evidenziando dettagli come i cazzotti che fanno saltare gocce di sudore al rallenti palesando l’encomiabile mancanza di controfigure o di pugni finti. Il documentario ci ricorda che, al suo zenith, Stallone era tra gli idoli di un’intera generazione di giovani russi che si passavano nastri vhs di contrabbando.
A ben vedere la storia di Sly è interessante perché ha attraversato tutti i fondamentali snodi dell’evoluzione del panorama mediatico e politico durante la fase di globalizzazione dell’immaginario. Sly parte dal Tom Joad-Henry Fonda di Furore e dalla sua fabula universale, bussola per un’intera specie di eroi outsider sempre soli contro il mondo e incapaci di non agire di fronte alle prepotenze. Fedele a questo mandato, Stallone ha imparato a utilizzare il corpo come strumento espressivo capace di scavalcare le barriere linguistiche e i muretti culturali alto/basso, valorizzando una fisicità sghemba simile a quella di John Wayne, sempre un po’ goffa e ritrosa nel comunicare lontano dal campo dell’azione, probabilmente indirizzata anche da quel lembo di faccia paralizzata dalla nascita.
I personaggi scritti-interpretati da Stallone sono sempre problematici o comunque difficilmente relazionabili. Per esempio John Rambo, lo svitato reduce del Vietnam. Il ragazzo ha un notevole fisico da peplum che però nel suo nomadismo e nella sua incompiutezza non viene sfruttato per accendere storie d’amore, nemmeno storielle. Gabutti nota che così Sly rinuncia ai risvolti di quella “parte grassa e imprescindibile” che riempie di solito buona parte delle sceneggiature mainstream. Nonostante la posta in gioco al botteghino, Rambo è frigido, indifferente, post traumatico.
A petto nudo e a testa alta nell’era dei cyborg
Nel 1985 i bicipiti di Apollo Creed, ormai in pensione, non riescono ad arginare il rampante Ivan Drago, montagna di muscoli e anticapitalismo, a metà tra l’uomo e la macchina. L’inevitabile quest di Rocky IV viene introdotta così da Gabutti:
“Per Apollo, e per l’America reaganiana; per il modo di vita occidentale, nel nome di Topolino e dei Beach Boys, per il cinema Über Alles. Luogo dell’incontro Mosca, è pieno inverno. A Rocky viene assegnato, come residenza, un cascinale nella steppa, e così gli tocca allenarsi nella neve, mentre il pugile sovietico non ne ha bisogno: è una canaglia, e si pompa di steroidi”.
Il boxeur robotico è tra i primi ambasciatori di una nuova era nella percezione collettiva del corpo umano. Intanto a eccezione dei peplum, fino a Rocky e ai successi di Stallone e Arnold Schwarzenegger era raro vedere al cinema corpi eroici a petto nudo (Adams, Savran, 2010). I corpi atletici del fitness e dei tanti bodybuilder del cinema anni Ottanta diventano sintesi iconiche del genere umano che si deve dar da fare per non soccombere all’oppressione della modernizzazione, dei sistemi disumanizzanti, dei lavori sedentari al computer. In fondo lo stesso Rambo del 1982 è un Frankenstein, una macchina da guerra teoricamente infallibile che però perde qualche rotella per strada finendo col mettere a ferro e fuoco un’intera cittadina.
Corpi spinti al limite. Sul ring di Rocky impariamo a conoscere la figura del cutman, colui che ha a disposizione pochi secondi alla fine di ogni round per fermare le possibili fuoriuscite di sangue dalle arcate sopraccigliari. Quella palpebra di Rocky pestata a sangue e tagliuzzata si accosta all’intervento chirurgico con cui il giovane John Rambo si cuce una ferita al braccio utilizzando amo e filo da pesca. Schwarzenegger raccoglie la sfida in Terminator e, nei panni del cyborg in incognito, lascia che le sue carni si decompongano gradualmente, svelando infine lo scheletro d’acciaio forgiato da una civiltà futura in cui si immagina definitivamente stabilizzato il dominio delle macchine sull’uomo. Il Davide che batte il Golia meccanico è il match tra l’uomo e il suo doppio tecnologico.
In Rocky Balboa impazza la simulazione computerizzata della sfida tra il campione mondiale del momento e Rocky Balboa, ormai da anni in pensione. L’intelligenza artificiale rumina dati statistici senza curarsi del salto anagrafico tra i due pugili. La macchina dello spettacolo decreta la vittoria di Balboa con una simulazione in computer grafica che manda in visibilio il pubblico. Lo stesso Balboa ci casca e, in pratica, si sente costretto a tornare sul ring per via di un videogioco. L’uomo analogico che non si rassegna al game over, alla finitudine biologica e che vuole provare a inserire un’ultima monetina per vedere se è all’altezza del self digitale. Le intuizioni di Stallone e del cinema action anni Ottanta hanno contribuito a definire il rapporto sempre più problematico tra l’uomo moderno, il proprio corpo (vero o sognato) e il doppio tecnologico che circola ormai a piede libero.
Solo chi cade può risorgere
Nel 1997 esce Cop Land, un tentativo autoriale à la Scorsese in cui Stallone non scrive e non dirige, mettendosi alla ricerca di strade nuove per tornare in sella dopo anni di insuccessi. Significativo il nome scelto per il personaggio dello sceriffo di provincia che interpreta: Freddy Heflin. Almeno per una volta Sly sveste i panni di John Wayne (quel Marion Mitchell Morrison omaggiato in Cobra con il nome del protagonista Marion Cobretti) e indossa quelli di Van Heflin.
Quest’ultimo era un attore della Hollywood classica specializzato nell’interpretazione del tizio qualsiasi che riesce con fatica (e con un piccolo aiuto) a far rispettare la legge in straordinari western come Il cavaliere della valle solitaria e Quel treno per Yuma, quest’ultimo tratto da un racconto omonimo di Elmore Leonard (in Leonard, 2008). Ma il fiasco al botteghino convince il nostro ad abbandonare quella strada nonostante il plauso della critica. Sly vuole parlare alla gente comune e ci riesce pienamente nel 2015 con Creed puntando sul regista-sceneggiatore Ryan Coogler. Il film riesce a mettere d’accordo pubblico e critica soprattutto grazie a Sly che incorpora il lutto (il ricordo di Adriana) e la lotta contro il cancro con semplicità chapliniana. Rispetto alla solitudine del western crepuscolare Cop Land, in Creed si prova a sdoppiare e moltiplicare i Rocky, i Davide-contro-Golia in scena. Curioso come in un film con giovani interpreti tanto attraenti (ognuno con il suo bel drammone a partire da basi biologiche) sia sempre il nostro Gardenzio a rubare la scena (candidatura Oscar 2016) con la sua stanchezza, con le sue risposte affatto granitiche, con il suo cappello balordo, guadagnandosi la fiducia dello spettatore scena dopo scena.
C’è un poster che ritrae un vecchio decrepito con guantoni da boxe con sopra la scritta “Rocky XXXVIII”. Siamo in una minuscola gag di L’aereo più pazzo del mondo… sempre più pazzo, un blockbuster comico anni Ottanta che scherza sulla ridondanza di quelle strisce seriali in cui il numero dopo il titolo sembra inesorabilmente destinato ad aumentare ogni anno.
Eppure Stallone ha saputo incrociare ancora e ancora i guantoni intuendo quali parti ripetitive del suo Rocky/Rambo valesse la pena riproporre. Come scrive Giona A. Nazzaro, il corpo di Stallone è “un’ultima forma di resistenza analogica” in un progressivo scomparire pur restando sotto gli occhi di tutti (in Cobretti, 2018). La progressione numerica mette in fila i vari capitoli delle saghe come “istantanee temporali” in cui il corpo viene consumato per poi “rinascere come immagine (e viceversa: in un continuo ri/vedersi e sfidarsi)” (ibidem).
Lo Stallone geri-action
Nel 2010 The Expendables mette in chiaro come a Hollywood ci sia ancora tanto spazio per quella che Gabutti chiama la “brigata bacucca”. La nostalgia nel vedere all’opera lo Squadrone Vecchia Hollywood è rinforzata dalla consapevolezza del fatto che la psicopolizia del politicamente corretto renderà presto impossibili certe produzioni.
“Già adesso non c’è più posto per i forzuti che vivono di prepotenza, eternamente impegnati in missioni impossibili, usi a sistemare le questioni aperte a suon di pugni e a salvare il pianeta da guerre, epidemie, meteoriti e ayatollah atomici piombando nel covo dei villain con un lanciarazzi a tracolla”.
Bello il detour di Gabutti che accosta il fumetto Le falangi dell’ordine nero di Enki Bilal e Pierre Christin (2004) a un possibile ultimo film di Sergio Leone con un suo squadrone di preferiti Vecchia Hollywood. Ecco l’occhio della tigre nel cinema: sesto senso per ciò che la gente vuol vedere davvero e prontezza nell’imbastire su questa base lotte e rinascite immaginarie. Libri come Il grande Sly sono il giusto tributo alla persistenza culturale di un divo consumato nell’ambito di una contemporaneità che mastica e brucia miti alla velocità della luce.
- Rachel Adams e David Savran (a cura di), The Masculinity Studies Reader: An Introduction, Wiley-Blackwell, Hoboken, New Jersey, 2010.
- Nanni Cobretti, I 400 calci presenta: guida da combattimento a Sylvester Stallone, Magic Press, Roma, 2018.
- Susan Jeffords, Hard Bodies: Hollywood Masculinity in the Reagan Era, Rutgers University, New Jersey, 1994.
- Elmore Leonard, Quel treno per Yuma, in Tutti i racconti western, Einaudi, Torino, 2008.
- John G. Avildsen, Sylvester Stallone, Rocky – La collezione completa, MGM, 2012 (home video).
- Enki Bilal, Pierre Christin, Le falangi dell’ordine nero, Alessandro Editore, Bologna, 2004.
- James Cameron, Terminator, MGM, 2020 (home video).
- Ryan Coogler, Creed – Nato per combattere, Warner, 2016 (home video).
- Delmer Daves, Quel treno per Yuma, Columbia Pictures, 2002 (home video).
- John Ford, Furore, A&R Productions, 2016 (home video).
- Dimitri Kourtchine, Rocky, L’atomica di Reagan, RaiPlay, 2014 (streaming).
- James Mangold, Cop Land, Miramax, 2012 (home video).
- Sylvester Stallone, I mercenari. Trilogia, Universal Pictures, 2012 (home video).
- George Stevens, Il cavaliere della valle solitaria, Universal Pictures, 2013 (home video).