Storie e racconti d’alberi
tra arte, natura ed etica

L’albero come presenza
nell’arte contemporanea.
Nella foto l’opera Matrice
di Giuseppe Penone.

L’albero come presenza
nell’arte contemporanea.
Nella foto l’opera Matrice
di Giuseppe Penone.


*Antropologi, storici, artisti, giovani e filosofi si pongono in questi giorni interrogativi assai interessanti circa il connubio o la possibile antitesi tra uomo e natura e da questo contraddittorio mare, fatto di affermazioni condivisibili, come quella di evitare di considerare l’ambiente solo come strumento e rendersi conto che non può essere “naturale” anche ciò che abbiamo costruito, proviamo a tirar su da questo mare qualche rete a partire dal punto di vista artistico. Arte e territorio infatti, costituiscono un binomio eccellente già categorizzato dalla storia dell’arte.
L’albero in particolare ha già occupato abbondantemente i pensieri degli artisti diventando argomento centrale nel discorso sulla cultura e in particolare sulle iniziative di riscoperta dei patrimoni culturali locali.
La questione è che a volte questa identità è stata correlata a una concezione del territorio statica e pericolosa proprio laddove questa avrebbe voluto difendere la sempre temuta perdita di biodiversità culturale. La storia dell’arte, cioè, ci ha già fornito parole cariche di significato di cui ancora si occupa la dimensione estetica dei luoghi.

Sconfinamenti artistici
Dal punto di vista della teoria estetica contemporanea, arte e territorio sono parole così pregnanti da permetterle di andare oltre l’approccio storicistico della materia e varcare per esempio i limiti della Land Art. Basterà ricordare che artisti concettuali come il tedesco Joseph Beuys o il russo Ilya Kabakov negli anni Settanta e Ottanta si occuparono di piantare alberi e contemporaneamente di parlare di spirito del luogo e di magia dell’atmosfera di montagna, da intendersi, dicevano, come luoghi di responsabilità collettiva.
Vere e proprie categorie valoriali, oltre a studiare l’opera d’arte come prodotto della comunità, arte e territorio costituiscono un binomio che si presenta agli studiosi del contemporaneo come una combinazione di elementi storicamente antica, portatrice di numerosi stimoli, ancora ricca di suggestioni.
Un metodo cioè che indaga la relazione basata sulle specificità del patrimonio culturale dei luoghi in cui viviamo, la cui storia è tutt’altro che risolta. Nella lingua dell’arte, il termine più immediato con il quale identifichiamo la coesione col secondo termine è “paesaggio” e in questa veste sembra interessante notare che né questa né la parola “giardino” potranno mai essere fino in fondo l’oggetto di studio di storici dell’arte chiusi dentro biblioteche polverose.

Immagine da Voice of Nature βº1  di Thijs Biersteker.

Il paesaggio è oggetto vivo, sempre in mutamento e tutt’altro che catalogabile. In quanto esercizio mentale, il paesaggio è in grado di porre interrogativi e non smette di presentarsi all’artista come un groviglio di significati estremamente vulnerabili. Tanto per cominciare, è un genere in grado di raccontarsi agilmente usando tutte le tecniche: pittura, illustrazione, scultura, architettura, installazione, performance, Land Art, multimediale e Concettuale e probabilmente è in ragione di ciò che nella mente degli artisti è un genere complesso ancora oggi.

Le relazioni con la Natura e i paesaggi
Occuparsi di territorio significa muoversi a zig zag per deragliamenti e deviazioni continue. Soprattutto in questi due ultimi secoli, l’aspetto o gli elementi dell’ambiente naturale hanno sancito un legame importante tra artista e natura, costringendo gli storici dell’arte a riconfigurare i rispettivi significati di senso. Procedendo con ordine, nella scansione cronologica tradizionale, vediamo comparire il paesaggio per la prima volta negli esperimenti di Leonardo da Vinci prima che si affermi nel XVII secolo, quando muta il suo ruolo all’interno della composizione: da sfondo del quadro a soggetto di primo piano. Nel Settecento, quando diventa “vedutismo” e “capriccio”, racconta l’incontro irrisolto tra il razionale pittoresco e l’inquietante sublime mentre nell’Ottocento, rappresentando il sentimento del luogo, rivolge la sua attenzione verso il sentire interiore dell’artista.
Questa sua capacità ininterrotta di sollecitare l’immaginario fa sì che ancora oggi per suo tramite riflettiamo sull’uomo e sui suoi valori. Basterà pensare a come le classiche vedute di paesaggio, pur cercando una mimesi fedele con lo spazio, manifestino sempre la propria incapacità. L’atto stesso di inquadrare una porzione del reale implica infatti, l’adozione di un punto di vista soggettivo, quello dell’autore, che non lascia spazio all’obiettività. Interi corsi online di fotografia e di pittura non fanno che sottolineare come il paesaggio appartenga agli strani grovigli del vedere e queste parole, di solito, si concludono con qualche citazione tratta dal neuroscienziato di turno.

Un groviglio che potrebbe non manifestarsi con la natura morta o la ritrattistica, perché il paesaggio naturale offrendosi come spazio omnicomprensivo impone con più forza l’intervento dell’artista. Lo interroga e impone al suo approccio filosofico la piena coscienza della relazione “io/mondo che mi circonda”. Inoltre è logica conseguenza del paesaggio, la comparsa delle reti di correlazione tra antropologia e politica e tra la semplice visione e l’etica dei nostri comportamenti.

Sensibilità contemporanee
In queste trame intellettualmente interessanti perché costituite da elementi che fanno propria la trasfigurazione di concetti complessi, si innestano gli aspetti valoriali che hanno contraddistinto il XX secolo. Uno tra tutti quello relativo alla contrapposizione simbolica fra “paesaggio naturale” e “paesaggio costruito”, fra campagne e “paesaggio urbano”, fra “natura selvaggia” e “civiltà” e infine quello fra “natura” e “cultura” che ancora ci accompagna.
La questione dunque non può risolversi nel facile ritorno a uno stadio di vita primitiva o in una lode alla tecnica che ancora ci fa sognare di controllare ciò che ci circonda. Scrutando nel web si trova che attualmente artisti molto noti del panorama internazionale istituiscono questi stessi binomi e ci mostrano quanto ne siamo profondamente ammaliati.
Nella mostra dal titolo Voice of Nature βº1 vediamo come un antropologo abbia invitato professionisti di varie discipline a lavorare proprio intorno al tema dell’albero, collocandolo a metà strada tra consapevolezza ambientale e bioarte.

Immagine da Voice of Nature βº1  di Thijs Biersteker.

In collaborazione con gli scienziati della Delft Technical University, gli artisti hanno usato i dati in tempo reale provenienti dalla natura per parlare dell’urgenza dei cambiamenti climatici. In una delle opere più suggestive presenti in mostra, è possibile vedere il frutto della collaborazione tra lo scienziato Stefano Mancuso e l’artista olandese Thijs Biersteker. Si tratta di un albero che combina dati generati biologicamente con quelli generati dalle reazioni del pubblico in tempo reale, creando effetti tecnologicamente impegnativi ma intellettualmente accessibili e seduttivi.
Il pubblico viene a sapere, tramite un’aura gigantesca come uno schermo, come si sente l’albero in un momento preciso e scopre quanto il suo benessere dipenda dall’interazione con l’uomo. Sia nell’immediato che a livelli più ampi di qualità dell’aria e condizioni generali della terra. Certamente sono immagini (nel sito dell’artista è possibile vedere anche il video), ma anche in questa modalità virtuale si apprezza il senso di responsabilità dell’azione dell’uomo e dei suoi effetti sulla natura in genere. In questo suo dar voce al singolo albero e all’interazione col bambino o con il visitatore adulto, ci permette di universalizzarne il messaggio, senza incorrere nel pericolo dello stereotipo o della formula ad effetto.

Eredità ingombranti
Questo albero introduce concetti che si relazionano con la tensione suscitata dai quesiti di stretta derivazione romantica che fatichiamo a scrollarci di dosso. Quelli che da un lato opponevano il dominio della natura in nome del progresso e dall’altro idealizzavano la prima in antitesi al secondo. È interessante notare come uno storico coraggioso del calibro di George L. Mosse nel suo Origini culturali del Terzo Reich (1966), abbia parlato di paesaggio come di un elemento fortemente concettuale e pericolosissimo. Il tardo romanticismo, dice, ha interpretato il paesaggio come ambiente peculiare e familiare per i membri di un ristretto gruppo di persone.
Il paesaggio di fine Ottocento era diventato ovunque, ma in particolar modo in Germania, il supporto linguistico necessario al temibile noi che presto avrebbe avuto bisogno di una sua ideologia razzista. Il noi era il pronome di persone che avevano mantenuto un contatto continuo con lo spirito vitale e col cosmo trascendente. Adottato come risposta al disorientamento novecentesco, quel paesaggio veniva caricato di valori emozionali e di aspirazioni alla vita rurale, come esplicito rifiuto della società moderna, progredita e industrializzata.

Der einsame Baum noto in italiano come Albero solitario dipinto di Caspar David Friedrich del 1822.

La questione è che grava ancora sulle nostre spalle il peso di un’identità monolitica identica a quella che il popolo tedesco chiamava Volk, in grado di definire a sua volta parole pesanti come macigni, tipo sangue e suolo. Da queste il passo successivo è stato il binomio terra/radicamento, arrivando alla più totale genuflessione rispetto a quella ancor più delicata come “tradizione”. È evidente dunque, come la parola ambiente ci faccia toccare con mano il verde di un paesaggio inevitabilmente ideologico, massificato e in alcuni casi perfino pericoloso.
Ogni volta che si avrà la necessità di criticare la modernità, si dovrà cercare cioè di non finire col proiettare sul mondo contadino un’idea di autenticità del vivere a contatto diretto con la natura, proprio perché questa immagine è sempre stata frutto di un miraggio.

Bonificare l’ambiente dalle ideologie
Dovremo fare attenzione all’autenticità e spontaneità che l’evoluzione della società avrebbe distrutto, diluendole nella fitta rete di rapporti interpersonali sempre più mediati, perché sono proprio queste le origini culturali di un’epoca che vorremmo definitivamente risolta. Si potrà cominciare per esempio avendo ben chiaro che la perdita del mondo contadino precedente, nel quale il rapporto con la realtà sarebbe stato primigenio e genuino, di solito si contrappone alla mancanza del senso di controllo sul mondo che la società avverte nei periodi di crisi. In seguito, si dovrà ricordare come la critica alla modernità capitalista e metropolitana poco radicata faceva già parte della cultura delle più importanti ideologie politiche del Novecento. Anzi, nelle ideologie di destra, conferma Mosse, il disagio contemporaneo veniva proprio sanato da quella miscela esplosiva di tradizionalismo, natura schietta e nazionalismo atta a far sentire il popolo padrone del mondo in cui viveva, ma anche membro di una collettività chiamata di volta in volta nazione, razza, patria. Con l’ambiente invece non possiamo permetterci di fare astrazioni o facili generalizzazioni a meno di non minacciare anche paesaggi difficili come quello agrario, frutto di continue trasformazioni. L’ambiente ha bisogno di parole totalmente estranee al concetto di identità nazionale. Il paesaggio è piuttosto un’idea, un concetto legato al tempo in cui viene espresso e una modalità per “raffigurare” come viene vissuto e narrato il pianeta. Solo in questo modo il paesaggio diventa un codice linguistico e dunque come tale può essere interpretato con la consapevolezza dei sistemi valoriali che vi sottendono.
L’albero del duo Mancuso/Biersteker ci mostra come la moltiplicazione dei flussi di comunicazione e l’interconnessione amplifichino e deterritorializzino l’immaginazione paesaggistica da cartolina. Ciò si oppone ovviamente alle follie identitarie e ai discorsi esclusivisti e discriminatori.

Red Tree (Albero rosso) di Piotr Mondrian (1908-1909).

Quella di quest’albero insomma è una critica sul modo col quale noi guardiamo il mondo, soprattutto quando lo facciamo con la categoria del possesso e dell’identificazione assoluta di un popolo o di una nazione. Studiare la complessità della natura significa invece pacificare i fanatismi e cogliere la sovrapposizione di problematiche facendo spazio alla dimensione etica del vivere nella sua relazione costante con il prossimo. Fosse anche col semplice albero sotto casa.

* Il presente testo è una versione modificata e ampliata di un precedente articolo pubblicato su Vorrei.org con il titolo: Geografia emozionale. Il senso dell’albero per l’arte.

Letture
  • George L. Mosse, Origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, Milano, 2015.