Alla fine del 1973, gli Who pubblicano il loro sesto album intitolato Quadrophenia che narra la storia e le vicissitudini di Jimmy, mod disilluso e rassegnato nel vedere la sua vita sfuggire a ogni parvenza di successo personale. È il segnale che il modernismo, esploso negli anni Sessanta nel Regno Unito, è sempre vivo e vegeto. Un fenomeno carsico sempre pronto a rinascere supportato da plotoni di giovani in parka e a cavallo di Vespe o Lambrette. E, difatti, la rinascita avverrà nel 1979 in coincidenza con la trasposizione cinematografica del concept album degli Who, a cura del regista Franc Roddam, e con l’emersione di nuovi interpreti del verbo modernista, primi fra tutti i Jam di Paul Weller, che, riprendendo numerosi elementi tipici del primo periodo mod, lo riportano ai vertici dell’interesse stilistico e culturale del tempo.
Un revival che presto si espande negli Stati Uniti, in Europa arrivando, nel pieno della stagione del “riflusso” e del tramonto delle ideologie, anche in Italia. A indagare su quegli anni e i loro protagonisti ci ha pensato Stefano Spazzi con la consulenza artistica di Antonio “Tony Face” Bacciocchi.
Il primo, scrittore, musicista e avvocato, è un esperto di movimenti e culture giovanili e il secondo, anch’egli scrittore, musicista, produttore discografico e blogger, precursore della scena mod e underground autoctona, vanta una stratosferica cultura su protagonisti e musiche dei nostri tempi e proprio sul modernismo aveva scritto, in tempi non sospetti, diversi volumi tra i quali un’apprezzata biografia su Paul Weller (cfr. Bacciocchi, 2015).
Il periodo preso in considerazione da Spazzi va dal 1979 al 1985, anni in cui l’underground tricolore è affollato non solo da gruppi mod come Statuto, Four By Art, Lager, Coys, The Mads, F 104 e molti altri, ma anche da realtà musicali antagoniste di matrice punk, metal, rock ecc. che spesso hanno funzionato da vasi comunicanti. Il primo dato che emerge è che il mod revival in Italia fu un fenomeno di portata nazionale che investì la Penisola intera, dalle Alpi alla Sicilia, con vere e proprie specificità locali tanto che l’autore parla di una scena musicale strutturata come un arcipelago con gruppi, comunità o persone singole in perenne lotta contro l’omogenizzazione culturale e alla ricerca di una propria idea di riscatto sociale.
Panoramica di una realtà eterogenea
Una scena indagata “in diretta” facendo parlare alcuni dei protagonisti di quella stagione: da Oskar Giammarino e Giovanni “Naska” Deidda degli Statuto di Torino (probabilmente la band che è riuscita, più di altre, a guadagnarsi una fetta di popolarità anche al di fuori del ristretto circuito mod) a Claudio Vandini degli F 104 di Spilamberto (Mo) o a Francesco Ficco dei Lager di Cosenza. I contributi sono davvero numerosi e concorrono a disegnare la mappa di un’intera generazione per la quale essere mod è quasi una ragione di vita. Non mancano confronti con altre scene giovanili amiche (ska) o avversarie (punk), interviste, saggi, discografie, riferimenti bibliografici e fotografie, anche a colori, dei musicisti e delle band citati. Fortunatamente, l’autore sfugge all’idea di stilare classifiche, schedature o elenchi. O, ancora, di cimentarsi nell’ennesimo lavoro di catalogazione di band e gruppi di cui purtroppo è piena la pubblicistica musicale italiana e non solo.
Qui si è preferito privilegiare il racconto come, per esempio, quello di Checco Garbari, mitica voce, direbbero gli appassionati, dei Lino e i Mistoterital e dj, che ha curato il capitolo dedicato a Bologna partendo dall’epoca beat, passando per gli scontri tra mod e rocker, collezionando le testimonianze del primo concerto in città degli Who (1967) per arrivare al periodo post Quadrophenia e alle commistioni tra punk, mod e skin citando e coinvolgendo alcuni protagonisti eccellenti della scena antagonista felsinea. Come, per esempio, Riccardo Pedrini, mod della prima ora ai tempi del revival, poi chitarrista dei Why Not e dei Nabat e, successivamente, membro del collettivo letterario Wu Ming (abbandonato nel 2015) che fa una descrizione disincantata dell’ondata modernista e ricorda:
“Per la verità, l’esplosione del mod revival prima dello ska poi avevano contribuito a mischiare le carte in tavola. […] Il 1980 rappresenta, in un certo senso, quello che il periodo ’76-’77 aveva rappresentato a Londra e nella Perfida Albione. Un senso di urgenza, di ineluttabilità, di pericolosa velocità era percepibile anche attraverso gli effluvi lacrimogeni e di lasagna che le strade della nostra metropoli regionale non cessavano di mandare”.
L’esperienza dell’ex Nabat, tratta, tra l’altro, dal suo bel libro sulla storia del punk bolognese, (cfr. Pedrini, 2003), è una delle tante di questo libro che offrono, alla fine, una lettura del movimento mod che privilegia l’aspetto sociale, di costume e giovanilistico. È questo, forse, l’aspetto più interessante dell’analisi di Spazzi che sembra quasi voler “riabilitare” il modernismo all’italiana proponendolo come un vero e proprio genere autonomo con i suoi protagonisti, le sue forme stilistiche e, soprattutto, le sue prerogative, in pieno edonismo e di ritorno al “privato”, di polo di opposizione culturale. Altro che sottocultura!
- Antonio “Tony Face” Bacciocchi, L’uomo Cangiante – Paul Weller: The Modfather, Vololibero, Milano, 2015.
- Riccardo Pedrini, Ordigni. Storia del punk a Bologna, Castelvecchi, Roma, 2003.
- Stefano Spazzi, Beat in rosa – Musica beat ed emancipazione femminile, Italic Pequod, Ancona, 2018.
- Franc Roddam, Quadrophenia, Universal, 2020 (home video).